JAMES SALTER: NASCOSTO DIETRO LE PAROLE ALLA RICERCA DI SE STESSO-ESCE BRUCIARE I GIORNI, ROMANZO TESTAMENTO DELLO SCRITTORE AMERICANO DI POCHI MAGISTRALI LIBRI
«Un romanzo che è in una certa misura, la storia di una vita: così il grande scrittore americano James Salter ha definito il suo Bruciare i giorni (in uscita per Guanda nella traduzione di Katia Bagnoli, pagg. 416, euro 20). Amato da Philip Roth, considerato un maestro da Richard Ford, elogiato da Julian Barnes, James Salter, morto a novant’ anni nel Giugno del 2015, ci consegna delle pagine di rara poesia. Negli Stati Uniti c’ è chi considera Bruciare i giorni come un memoir, chi una raccolta di racconti accomunati da una sola voce narrativa, chi il testamento di un uomo che ha cavalcato i cieli del 900 allo stesso modo in cui ha pilotato gli aerei da caccia nella Guerra di Corea.
In realtà Salter ci racconta così tante vite che ad ogni pagina si è presi dallo stupore: non soltanto perché, come ha scritto John Irving «ogni frase è intima e discreta» ma perché scopriamo tanti volti sconosciuti dello scrittore americano: flaneur impenitente, che si sposta tra New York, Parigi e Roma, sceneggiatore teatrale e cinematografico, uno scrittore sempre in forse circa la propria arte. Tra queste pagine leggiamo i ricordi di una vita non comune: dal college, dove frequenta Jack Kerouac e Julian Becq, sino alla leggendaria West Point (accademia militare che «non formava il carattere, lo esaltava»), la vita da ufficiale e la guerra («per molti anni ebbi incubi realistici come materiali cinematografici d’ archivio»). Poi la Parigi degli anni ’50, «questa Parigi in cui ti svegliavi ammaccato dopo notti straordinarie, nottate indelebili, le tasche vuote, le ultime banconote sparse per il pavimento, e così i ricordi».
Diventa amico dello scrittore e drammaturgo Irvin Shaw («ci sono degli uomini che sembrano essersi impadroniti del tronco della vita, e lui era uno di questi»). Poi la Roma di Laura Betti, di Pasolini, di Moravia, di Fellini, di Zavattini («lo sceneggiatore più importante del Dopoguerra ma che era scoraggiato quando ripeteva sempre che il cinema aveva fallito»). Una Roma che Salter descrive come «una città di una decrepitezza senza pari, una città corrotta, fiorente nei secoli: niente che fosse stato così spesso tradito poteva conservare un briciolo di illusione».
Poi l’ incontro con Robert Redford, al quale Salter aveva proposto di interpretare una sceneggiatura, che lo presenta a Polanski. Un Polanski già raccontato mille volte, ma che Salter riesce a descrivere nel «dramma della monotonia di essere sempre e solo se stesso». Perché Salter è capace di andare oltre il (pre)giudizio perché, come scrive, «i poeti, gli scrittori, i saggi e le voci del loro tempo, formano un coro e l’ inno che condividono è lo stesso: grande e piccolo sono uniti, il bello vive, il resto muore, e niente ha senso a parte l’ amore e quel poco che il cuore conosce».
Testo di James Salter pubblicato da il Giornale
A Santa Monica ricordo, sotto la scogliera delimitata dalle palme, la breve schiera di case sulla spiaggia fra le quali ce n’ era una più grande, la riproduzione di una fattoria della Normandia, che era stata presa in affitto da Roman Polanski e Sharon Tate, la sua giovane moglie.
Avevo conosciuto Polanski tramite Robert Redford.
A poco più di trent’ anni, ma sembrava più giovane, Polanski era già famoso. Aveva una macchina piccola e veloce con un telefono allora una cosa innovativa , un grande appartamento e un’ aria di libertà dalla monotonia di essere sempre e solo se stesso. Con orgoglio, ma frettolosamente, mi mostrò le fotografie di Sharon, che non aveva ancora sposato. In lui c’ era qualcosa che attraeva e allo stesso tempo metteva in guardia; il suo sguardo sembrava sfiorare tante cose. Al di là dell’ astuzia e del candore, dava la strana impressione di non giocare mai sul serio, come se fosse sicuro che a un certo punto avrebbe incassato le fiches.
Era sopravvissuto, da bambino, all’ orrore del massacro e della guerra. Aveva visto una colonna di uomini portati via dal ghetto di Cracovia, condannati, suo padre tra loro, ed era corso al suo fianco come un vitello perché voleva seguirli. Suo padre prima lo ignorò e alla fine borbottò minaccioso: «Sparisci». Il bambino di dieci anni si fermò, ferito, e rimase a guardarli mentre lo abbandonavano alla vita, anche se, cosa sorprendente, sopravvisse anche il padre.
C’ era un prezzo da pagare per essere sfuggiti miracolosamente al genocidio e per la vita felice che seguì?
Non persi mai l’ ammirazione che avevo per la sua energia e il suo fascino, un fascino non acquisito, che scaturiva da una sorgente profonda, in aggiunta alla sua capacità di comandare. Non potevo immaginarlo incapace di rispondere a una domanda o di pensare in fretta. Aveva un istinto per le cose viscerali; nelle sue mani anche il materiale più comune diventava interessante.
In quanto a Sharon Tate, resta per me una specie di Era, l’ emblema del matrimonio. Pur non essendo una brava donna di casa, aveva il cuore puro e un corpo che era poesia. Si aveva la sensazione di poterne godere in tutti i modi in cui un uomo può godere di una donna, guardandola, parlandole, toccandola, e altro. Un anno dopo li vidi a Cannes, insieme, per l’ ultima volta. Lui faceva il giurato al Festival. Indossava uno smoking e una camicia bianca pieghettata. Lei aveva un impareggiabile abito da sera. Li aspettavamo in campagna per pranzo, ma non arrivarono mai.
Quando una notte, a Los Angeles, Sharon Tate fu uccisa insieme ad altre quattro persone senza alcun motivo, ci fu, in aggiunta all’ orrore e al disgusto, la vergogna. L’ America aveva massacrato una delle sue figlie innocenti. Era incomprensibile, Dio non lo consentiva. Forse Polanski, che in quel periodo era in Europa, aveva esagerato, aveva raggiunto una felicità troppo grande, e gli era stata tolta. Era morto anche il figlio non ancora nato; il karma paterno non sarebbe stato trasmesso. Per lui provavo la pena che si può provare per i re. La sua forza sfidava il dolore.
Pensavo alla camera da letto a Santa Monica. Era spaziosa, al secondo piano, di fronte al mare. Mi ero messo in un angolo. Il sole bruciava il pavimento. Il grande letto in cui Sharon e Roman avevano dormito era disfatto, le lenzuola spiegazzate, i cuscini in disordine. Nei cassetti della cabina armadio c’ erano finestrelle di vetro che consentivano di vedere in ognuno il colore delle camicie. Nel bellissimo bagno c’ erano dei disegni di Matisse.
Tra le cartine stradali, i biglietti da visita, i vecchi indirizzi il mondo perduto mai riordinato c’ è, lo so, una fotografia: il regista brillante, quasi demoniaco, su un divano con la ragazza alta e graziosa. Fu scattata una sera mentre cenavamo. Gli invidiavo la moglie. Adesso è difficile immaginare la donna che sarebbe diventata. Lei resta com’ era, come se in mezzo a tutti ci fosse stata questa creatura eccezionale, un po’ impacciata forse, ma senza macchia, che racchiudeva nella sua persona i tratti essenziali, il vero fulcro del paradiso per cui forse lui aveva contrattato.
Articolo di Gian Paolo Serino per il Giornale