IL MERLO APPOLLAIATO SULLA RAI ASPETTA LA RISPOSTA DEL DESTINO – LA MODERATA APOTEOSI CHE IL FAN E GIORNALISTA FRANCESCO MERLO DI REPUBBLICA FA DEL MENESTRELLO PREMIO NOBEL PER LA LETTERATURA 2016 – PER TERMINARE IN BELLEZZA UN OMAGGIO DI CARLA BRUNI.
Ci sono testi più poetici dei suoi e ci sono musiche più belle delle sue, ma nessuno è letteratura quanto lui. Ed è persino in ritardo questo Nobel alla Canzone che è il genere artistico del Novecento, né poesia né prosa, ma canzone appunto, che è fatta di musica e parola ma anche di voce e di corpo.
Bob Dylan è letteratura incarnata, un po’ Cristo e un po’ ebreo errante. È letteratura la sua voce sporca e roca che non è fatta per le morbidezze della seduzione pop; è letteratura la sua bruttezza fisica che diventa bellezza nell’Hurricane; e sono letteratura le sue disarmonie perché solo esse — Knock, knock, knockin’on heaven’s door — sanno bussare alle porte del paradiso. In fondo anche la sua rigorosa mancanza di gusto e la sua scontrosità sono letteratura: la goffaggine dei suoi movimenti è l’inadeguatezza dell’uomo senza qualità, che è la vetta letteraria del Novecento.
Ma Bob Dylan è anche Pinocchio, che finalmente trova la risposta giusta alla domanda del burattino di Collodi che è poi la stessa della Nausea di Sartre e dello Straniero di Camus: quante strade deve percorrere un uomo prima di poterlo chiamare uomo?
Bob Dylan, che ancora oggi continua a vivere nel camper, è la letteratura on the road, ben più classico di Kerouac che, a rileggerlo, sembra solo un (noioso?) documento d’epoca. Bob Dylan è davvero la strada, lo spostamento in avanti verso l’Ovest che per primo Turner aveva descritto in quel suo famoso manifesto della Nuova Frontiera costruito con materiali storici.
Bob Dylan è la colonna sonora del mito fondativo americano, la nuova frontiera appunto dell’individualismo e della libertà, ma anche dell’impegno e della protesta, quelli autentici e importanti, quelli di tutti, il famoso ‘68 che non cantava l’Inter-nazionale ma Mr. Tambourine Man e Just Like a Woman.
Blowin’in The Wind esce lo stesso anno della morte di Kennedy e fu il seme germinativo dell’epoca del vietato vietare. Ma Bob Dylan, che ha attraversato mille generi musicali e non si è fermato mai, è anche l’eternità del giovane Holden — Forever Young — l’utopia del mondo al contrario, la prova sonora che la ribellione del famoso sessantotto non fu solo quella robaccia, mascherata di bandiere rosse, che in Italia vi raccontano gli adulti di professione, i sociologi, i politologi, i ragazzi che si accanirono contro quelle istituzioni che, poi, da uomini, hanno guidato; non fu solo materia preparatoria per il terrorismo, per la lotta di classe, porcheria omicida e agguati alla nuca. Il ‘68 — The times they are a changin’ — fu anche l’esplosione d’una stella luminosissima, la stella dell’America di Bob Dylan che, nella nostra visione eliodromica, è ancora il punto dove si trova l’Occidente, il luogo di rigenerazione dell’Europa malata.
Credetemi, è in ritardo questo Nobel e non solo perché oggi la strada non è più un mito di libertà e nessuno vi cerca più l’emancipazione e la vita visto che è diventata la discarica dell’umanità, il luogo di raccolta dei rifiuti. Oggi sono invece letteratura le case e le tane, e non solo al Cairo e a Istanbul, ma anche nelle periferie di Londra e di Parigi, e a Roma persino. Questo Nobel è in ritardo anche perché la canzone ce l’aveva già fatta senza l’Accademia di Stoccolma. Ricordate la leggerezza mozartiana con la quale su questo giornale ne scriveva il nostro Edmondo Berselli? La canzone è come l’acqua fresca, sembra niente ma è tutto, placa l’arsura della malinconia e dell’abitudine, e se c’è nebbia fa vedere il sole, dà coraggio a chi ha paura, commuove anche il più burbero dei solitari, è il fischiettare dell’individuo ma è anche la civiltà del coro. La canzone, val la pena ripeterlo, è popolo senza populismo, è la colonna sonora della democrazia. Non potevano i Maestri accorgersene prima?
Dunque se c’è un pericolo che questo bel Nobel accende, non è quello di sopravvalutare la canzone, ma semmai di rilanciare la sociologia della canzone, quel grottesco esercizio da dottor Balanzone che, soprattutto in Italia, fa degli imitatori di Bob Dylan (Dio ce ne liberi) tanti filosofi hegeliani, tutti maître à penser.
E però oggi godiamoci il Nobel alle canzoni che sono state il nostro inno, il nostro Va Pensiero. Bob Dylan lo abbiamo visto lo scorso anno a Roma quando si mise a cantare Frank Sinatra, e fu come il Tantum Ergo a ritmo di samba. Ma è questo il nostro Nobel: si nasconde indossando cappellini rosa e cappellacci neri, smorza le luci e si nega ai primi piani, e non solo per non esporre lo strazio della vecchiaia, ma per sfuggire a se stesso e per sfuggirci, sempre dietro al vento della vita perché the answer, my friend, is blowin’in the wind…, il vento come risorsa, il vento che è l’unico fertilizzante che fa crescere l’uomo.
Francesco Merlo per la Repubblica, 15 ottobre 2016