Il racconto di Gogol’, i cimeli di Proust, il cinema. Quando un abito non ripara soltanto dal freddo, ma è la promessa di una rinascita
Quello verde mi è rimasto in mente più degli altri: lungo fino ai piedi, di una tonalità acida, quasi azzardata; di velluto ma effetto astrakan; da chiudere in vita e lasciare scivolare verso il basso con una svasatura piena di grazia. Tutti parlano dei cappotti di Nicole Kidman nella nuova serie Hbo The Undoing. Cappotti rossi e a quadri, sinuosi e abbondanti, cappotti ricamati da sera, alcuni argentati, alcuni creati cucendo pezzi di altri cappotti. Cappotti che dicono dell’umore di Grace, la psicologa che vive nell’Upper East Side e si ritrova coinvolta nelle indagini per l’omicidio di una donna, di cui suo marito Jonathan (Hugh Grant) sembra essere il principale indagato.
I cappotti sono molto di più di un capo di abbigliamento. Indossati ci ridisegnano, ci custodiscono; e infatti dei cappotti non ci dimentichiamo mai.
Gogol’, grandissimo autore russo, scrisse Il cappotto nel 1842: insieme ad altri quattro racconti (Il naso, Il ritratto, Le memorie di un pazzo e La Prospettiva Nevskij) fa parte dei Racconti di Pietroburgo. Akakij Akakièvic, il protagonista, non assomiglia affatto a Nicole Kidman, eppure sembra condividere una sua stessa passione. Akakièvic se ne sta seduto alla scrivania tutto il giorno a copiare documenti; compie ogni giorno, in modo sempre uguale le stesse azioni. E’ un eterno funzionario, scrive Gogol’, un povero diavolo che i colleghi notano appena, a stento gli rivolgono la parola. Ma Akakièvic non se ne cura, non gli interessa, a lui interessa solo il suo lavoro; non è un’abnegazione che ambisce a un futuro di successi, ricorda piuttosto un automatismo, un rituale nevrotico che lo definisce nel mondo. Fuori dal suo copiare, non esiste niente: quando torna a casa la sera dopo cena non legge, non riceve, non beve, ma si mette a copiare qualche documento. Quando si legge questo racconto la prima volta, si prova nei confronti del protagonista un moto di rifiuto, una specie di fastidio. E’ come se non ci fosse aria. Akakièvic è un personaggio noioso, grigio, da uno così non ti aspetti niente. Invece a un certo punto succede qualcosa di inaspettato. Un collega lo prende in giro per il suo vecchio cappotto: dice che se ne sta appeso senza vita, talmente liso da sembrare una vestaglia. Lo chiama proprio così: vestaglia. Akakièvic si decide allora ad andare dal sarto: l’inverno sta per arrivare, e l’inverno russo non è cosa da poco. Quello che ha non è neanche più un cappotto, dice il sarto, è destinato ad andare in pezzi: non c’è nulla da fare, bisogna farne uno nuovo, è irremovibile. Akakièvic non vorrebbe affrontare una spesa così impegnativa, forse si può rimediare con una toppa, una cucitura, un rammendo… ma poi accetta il consiglio del sarto e qualcosa in lui cambia radicalmente. Inizia a risparmiare, a fare ogni giorno piccoli sacrifici per mettere via la somma necessaria; inizia a coltivare un piccolo sogno. D’un tratto la sua esistenza si fa più piena, più vivace, è come se si fosse sposato: “Come se qualche altra persona vivesse con lui, come se non fosse più solo”. Il cappotto non è altro che un racconto sul desiderio. Il desiderio che muove la vita, che ci proietta fuori da noi stessi, che ci consente di alzare lo sguardo. E per Akakij Akakièvic quel desiderio è un cappotto nuovo.
Desiderio che ci accomuna in tanti. Circolava negli anni Cinquanta una storia su Luciano Bianciardi, lo scrittore grossetano che era venuto a Milano chiamato da Feltrinelli per partecipare alla nuova “grande impresa” della sua casa editrice. Bianciardi era burbero, coltissimo, poliglotta, anarchico. Viveva a Brera in una pensione e la sera andava sempre al bar Jamaica, tirava tardi con un bicchiere di grappa a buon mercato e le infinite risate con i suoi amici pittori e intellettuali. Enrico Vaime, Giancarlo Fusco, Carlo Ripa di Meana, raccontano che in una delle serate in piazza San Babila a casa dell’editore, dopo una lunga discussione politica, Bianciardi rubò, anzi espropriò, a Giangiacomo Feltrinelli il suo celebre cappotto cammello. Era un risarcimento egualitario, un piccolo anticipo sulla prossima rivoluzione: “Se allora sei comunista, il tuo cappotto è il mio”.
Per quanto mi riguarda, se c’è un cappotto cammello che ho sempre desiderato è quello di Max Mara. Un cappotto che oggi compie quarant’anni esatti. Nel 1981 Anna Maria Beretta ha trasformato per il brand nato da poco a Reggio Emilia un cappotto maschile in un cappotto da donna. Il suo nome è 101801. Ci vogliono settantatré operazioni di assemblaggio per realizzarlo. Ha maniche a kimono e chiusura a doppio petto, è di cachemire e lana, linee perfette e proporzioni assolute. E’ un cappotto diventato mito non solo in Italia ma anche a New York, dove avvolgersi in un cappotto caldo durante l’inverno è un rituale necessario. Lo hanno indossato Isabella Rossellini, Glenn Close e la Regina di Spagna, lo indossano oggi attrici e influencer come Bellamy Young e Claire Danes, lo indossano donne in carriera e madri di famiglia che possono permetterselo. Dal 1981 Max Mara non ha cambiato niente di questo cappotto: la cucitura visibile sull’intera orlatura del capospalla è ancora lì, esibisce l’eccezionale sartorialità. E’ elegante, è retro chic, funziona con le scarpe da ginnastica, con i tacchi e pure se non hai sotto niente.
Il cappotto veste e ti trasforma, non hai bisogno di toglierlo, è una corazza che ti racconta. Lo indosserei e poi chiuderei i due baveri con una mano sotto il mento come fa Miuccia Prada con i suoi di cappotti, come per difendersi dal mondo, come per tenere i propri pensieri e tutte le emozioni solo per sé.
E poi c’è Mickey Rourke che irrompe nella vita un po’ conformista di Kim Basinger, gallerista newyorkese, in quel film che ricordiamo tutti senza rammentare una sola battuta, ma solo spogliarelli e cubetti di ghiaccio: 9 settimane e mezzo. Ricordiamo solo la bellezza di Basinger e la carica erotica di Mickey Rourke prima delle plastiche, prima della devastazione, con la sua faccia normale ma furba, maliziosa, piena di guizzi e i suoi cappotti, uno grigio e uno nero, o forse erano di più? Cappotti da yuppie che lo disegnavano come un professionista dell’amore e della seduzione, uno che arriva nella tua vita e sa come fare della sensualità un gioco totalizzante. Il suo cappotto – a un certo punto – se lo mette a pelle nuda Kim Basinger, ed è come qualcuno che rinasce dentro la pelle di un altro.
Harrison Ford in Blade runner indossava un impermeabile, d’altronde se no la pioggia sporca lo avrebbe fatto ammalare; ma Ryan Goslin nella versione più recente (Blade runner 2049) ha un cappottone con il risvolto di pelliccia. Perché poi i cappotti, come nel caso della Kidman, sono soprattutto armature che ti proteggono dal collo fino alle caviglie. Che ti proteggono anche da te stesso. Quando mi immagino Madame Bovary, compongo una figura che in parte viene dal libro; altri dettagli arrivano dal film, altri da alcune rappresentazioni teatrali. E’ una donna magra, col viso affilato, è vestita di grigio e si muove con grande eleganza. La gonna spunta dal cappotto lungo. Hai capelliraccolti emani nervose–sì, per me Emma Bovary ha mani gelate e tremolanti, si slaccia e si allaccia continuamente il cappotto. Quello che nasconde a sé stessa e al mondo è la noia, una noia mortale. Non sarebbe dovuta diventare una moglie, neanche una madre; coltiva sogni impossibili e invidia chi li ha realizzati. E’ una donna mediocre e un personaggio straordinario. E’ questa la grandezza di Flaubert: farci amare una protagonista che non è affascinante, che non è intelligente, ma nelle sue debolezze è umana e commovente. Anche se non se ne rende conto, anche se nasconde tutta la sua insoddisfazione sotto le ampie falde del suo cappotto.
Anni fa ho letto un libro di un bravo scrittore italo-argentino, Adrian Bravi: s’intitola Restituiscimi il cappotto e racconta di un uomo che perde il suo cappotto azzurro polvere. La mancanza del cappotto gli impedisce di perseguire il suo intento di togliersi la vita. Come Emma Bovary, quell’uomo non può più nascondersi: può solo affrontare le intemperie della vita. Piero Chiara negli anni Settanta aveva scritto Il cappotto di astrakan, un romanzo in cui – per il provinciale protagonista del libro – la possibilità di una vita avventurosa viene inaugurata dal fatto di possedere un cappotto del tutto uguale a quello di un certo Maurice, criminale di lungo corso, un tempo compagno della sua nuova amante. Il cappotto accarezza i nostri movimenti nel mondo, nel cappotto si inscrivono le nostre vite. “E la famiglia a comprare il cappotto nuovo / E tutti intorno a dire come gli stava”, cantava Claudio Baglioni in Uomini persi. Da un cappotto nuovo inizia sempre qualcosa, una nuova avventura.
Marcel Proust aveva un cappotto amatissimo, pare che ci andasse anche a letto. Lorenza Foschini ha raccontato del ritrovamento di quel cimelio nel suo libro Il cappotto di Proust (Mondadori). Jacques Guérin, industriale dei profumi, collezionista e bibliofilo, lo aveva ritrovato quasi per caso. Ammalatosi di appendicite nel 1929, era stato operato d’urgenza da un chirurgo, il dottor Robert Proust: il fratello minore di Marcel. Di questo fratello non c’è traccia nella Recherche. Proust era morto da sette anni, ma era già un mito. Dopo la convalescenza Guérin va a casa del medico per pagarlo. L’uomo è affabile e generoso e mostra a Guérin gli oggetti e i mobili appartenuti al fratello, infine gli consente di sfogliare i quaderni originali della Recherche. Non mi è chiara quale sia la molla psicologica che mette in moto il collezionista, immagino che l’ossessione sia un elemento fondamentale. Da quel giorno Guérin inizia a cercare e a comprare tutto quello che era appartenuto a Marcel Proust. Dalla vedova di Robert, che vuole sbarazzarsene, riesce a recuperare libri, foglietti sparsi, lettere, ma una quantità incalcolabile di documenti è andata perduta.
Riesce a comprare anche i mobili, e in un locale del suo appartamento ricompone la stanza dello scrittore: una sorta di museo privato. L’ossessione non si placa. Guérin va ai funerali degli ultimi parenti e amici di Proust. Viene a sapere che c’è un rigattiere che ha curato la vendita dei beni dello scrittore per conto della cognata. E così scopre che tra i beni invenduti è rimasto un vecchio cappotto liso, tarlato, impregnato di umidità. Lo compra: è l’ultimo cimelio che gli mancava. Quando ha freddo se lo arrotola intorno ai piedi.
I cappotti parlano di chi li ha indossati in modo ravvicinato, dicono della persona.
La bambina che tutti noi ricordiamo nel film di Spielberg, Schindler’s List, aveva un cappotto rosso. Cammina per le vie di Cracovia, indifferente a tutto quello che la circonda, unica macchia di colore in una storia in bianco e nero. Non ha un ruolo nella trama, ma ha il compito fondamentale di guidare la nostra attenzione: solo nel cappotto rosso riconosciamo l’umanità, possiamo evocare le vittime di una tragedia storica e sottrarle dalla dimenticanza.
Con The Undoing precipitiamo nel territorio dell’inquietudine, del disorientamento. Il mistero è da trovare soprattutto nella psicologia della protagonista: essere o non essere pronti ad accettare la verità, ad accettare che tutto il mondo, per come lo si è costruito fino a quel momento, cambi per sempre. Ma per accettare che la propria vita cambi per sempre bisogna ingaggiare un processo di trasformazione dentro di noi.
I colleghi di Akakij Akakièvic finalmente si accorgono di lui, iniziano a parlargli. E’ solo perché si sono accorti del suo cappotto nuovo? No, di certo. E’ lui stesso a essere cambiato, a essersi trasformato. Il desiderio di un cappotto si è mutato in desiderio degli altri, di un posto nel mondo, di una dignità più propriamente umana. Desiderio di farsi conoscere, di mettersi a nudo proprio grazie al cappotto. Il cappotto russo che ti stringe dal collo fino alle caviglie è l’immagine di un bozzolo. La crisalide diventerà farfalla. I cappotti non sono solo cappotti; non sono solo corazze che ci proteggono dal freddo e dal mondo. I cappotti ci scaldano per farci proiettare nel mondo senza paura e come non abbiamo mai fatto. A volte i cappotti possono essere la promessa di una rinascita.
Gaia Manzini per il Foglio Quotidiano
In copertina: illustrazione al Cappotto di Nikolaj Gogol’