Dopo Fabrizio Corona e Lapo Elkan ecco Katharina. Continua la provocazione editoriale di Elisabetta Sgarbi che fa il botto con uno scomodo e urticante romanzo colmo di fantasie sessuali di un’esordiente di talento.
«Siamo stati abituati soltanto a ebrei morti o disperati che ci guardano da innumerevoli fotografie grigie, o da qualche remoto luogo d’esilio senza mai sorridere, e noi perpetuamente debitori nei loro confronti».
Mentre è sdraiata sul lettino del suo psicanalista, la protagonista del caustico, esilarante romanzo d’esordio di Katharina Volckmer, Un cazzo ebreo (La nave di Teseo), si lascia andare alle sue eretiche fantasie sessuali con Adolf Hitler, al sogno di una bambina gonfiabile per donne e rivela il lato oscuro della glorificata Vergangenheitsbewaeltigung, del fare i conti col proprio passato di cui la Germania va molto fiera.
Agli occhi della protagonista, quel modo di trattare la Shoah si è ridotto a una sorta di gigantesco feticismo collettivo. Tanto che il senso di colpa verso gli ebrei raramente si è tradotto nel desiderio di interagire con una cultura che, prima del nazismo, ha permeato quella tedesca come nessun’altra.
Ecco la presentazione che ne fa la casa editrice:
In un elegante studio medico di Londra, una giovane donna è distesa sul lettino. Scorge a malapena i capelli radi e le mani raffinate del suo medico, il dottor Seligman, mani a cui ha affidato la scelta più radicale e rivoluzionaria della sua vita. Inizia così il romanzo sovversivo, irriverente e audace di Katharina Volckmer: un flusso di pensieri che la protagonista, nata e cresciuta in Germania e trasferitasi a Londra, fa sbandare vorticosamente tra inconfessabili fantasie sessuali con protagonista Hitler, idiosincrasie folli e liberatorie, la memoria di una madre autoritaria e di un padre volatile, la vergogna di un’eredità irrimediabile, il senso di isolamento in una società che ci vuole per forza normali, privi di contraddizioni nei nostri corpi felici, e il racconto di un amore non convenzionale, mai sufficiente, eppure totale.
Con ironia e schiettezza la protagonista irresistibile di Un cazzo ebreo mette a nudo il nucleo più disarmato della propria vita interiore, si interroga sul potere della riparazione e ci mostra come possiamo rimediare ai fatti della storia con le nostre più intime scelte personali.
L’esordio esplosivo di una nuova grande voce letteraria internazionale, un romanzo incontenibile e struggente che, di fronte alla nostra irriducibile solitudine, suggerisce le uniche possibili risposte: accettarsi, perdonare, amare.
RISATE CHE SONO PUGNI
Da Londra, dove vive da quindici anni, Katharina Volckmer ci spiega al telefono cosa intende, quando scrive che i suoi connazionali sono stati abituati solo agli ebrei morti o disperati: «Direi che è una sintesi. Sono cresciuta in Germania, sono andata a scuola lì. Gli ebrei sono onnipresenti, ma non come qualcosa di vivo, bensì come qualcosa di museale, di morto. La vita ebraica non è presente in Germania come lo è ad esempio negli Stati Uniti. È tutto molto astratto, e ha poco a che fare con la vita quotidiana. Anche quando si piange per la Shoah, la si piange non come una perdita mostruosa per la collettività, ma come un lutto per qualcosa che è “altro da sé”».
Il romanzo è un lungo sfogo che avviene in uno studio psicanalitico londinese, è un monologo perturbante con un dottore ebreo, Seligman. Un flusso di coscienza senza tabù – cosa più unica che rara per una scrittrice tedesca alle prese col passato nazista – in cui la protagonista oscilla tra il rifiuto del suo corpo e di una femminilità imposta, il lutto per un amore finito con un certo “K” e le proibite fantasie sessuali con il Führer.
Il romanzo strappa spesso risate che sono pugni. «Si è mai immaginato Hitler in pigiama, dottor Seligman, che si sveglia con i capelli arruffati e inciampa in camera sua mentre cerca le pantofole?».
È ironico, audace, esplosivo. Ma anche arguto, profondo, geniale. Gli aggettivi andrebbero dosati con parsimonia e prudenza, ma di fronte al romanzo esordio di Katharina Volckmer, “Un cazzo ebreo” (La Nave di Teseo), sia la prima che la seconda risultano inadatte. Il suo libro è già stato classificato come il più provocatorio del 2021, il suo flusso di pensieri, che scorrono ininterrotti pagina dopo pagina disturba e coinvolge. È un capolavoro? Si è già detto anche questo.
Dalla recensione apparsa su Linkiesta a firma di Dario Ronzoni
COME SAMUEL BECKETT
Volckmer si è ispirata anche a Thomas Bernhard, forse lo scrittore più implacabile sulla grande rimozione del nazismo nel suo Paese, l’Austria. E la scrittrice trentatreenne ha deciso di scrivere il suo romanzo in inglese.
Non tanto per ottenere l’effetto di straniamento di Samuel Beckett, il grande genio irlandese che scriveva in francese, quanto «per impormi dei limiti. Quando non scrivi nella tua lingua madre tendi a disciplinarti, a misurare le parole, a tagliare gli aggettivi, a semplificare. E su di me il fatto di scrivere in inglese ha anche avuto un effetto creativo».
Leggendo Un cazzo ebreo si fanno scoperte strepitose che riguardano l’identità tedesca. In Italia siamo ossessionati dal fatto che in Germania “debito” e “colpa” siano la stessa parola, Schuld. E siamo ormai sepolti da dotte riflessioni sulle ragioni di quell’indistinguibilità. Ma Volckmer ci insegna anche che non esiste una parola tedesca per “desiderio”, inteso in senso sessuale. Esiste la lussuria, la parola Lust, e il sesso dunque legato a un vizio capitale.
Colpa di Lutero? Volckmer ride di gusto: «Non so, forse sì, anche. I tedeschi sono persone molto, molto serie. Qui a Londra racconto sempre che in Germania c’è questa difficoltà a ridere, questa diffusa pesantezza. Ma mi chiedo anche se sia legato alla storia».
«L’ANTISEMITISMO NON È SPARITO»
Volckmer non è sorpresa per quello che viene definito un “ritorno” di antisemitismo in Germania: «Non è un ritorno. Io penso che non sia mai sparito. Nonostante la meticolosa analisi storica, l’indubbio sforzo di fare i conti con la Shoah, a un certo punto c’è anche stato il tentativo di archiviare quel capitolo della storia. Come se non ci fosse stata una continuità col nazismo, dopo il 1945. E ho anche l’impressione che non se ne parli volentieri, di quella continuità, neanche oggi. Il risultato è che indossare una kippah in Germania è ancora pericoloso, e questo è davvero tristissimo. A pensarci bene, in Germania si è cominciato anche tardi a fare un’analisi seria del nazismo, con la generazione del ’68, con il processo Eichmann».
C’è una terza generazione di tedeschi, come Nora Krug o Géraldine Schwarz, che hanno cominciato a interrogare la storia delle proprie famiglie per sollevare il velo di ipocrisia che ha resistito per decenni attorno ai presunti tedeschi che non sapevano o che si sentirono costretti a obbedire. In realtà, molti di essi erano convinti adepti di Hitler, ma nelle storie tramandate da figli e nipoti si trasformarono in nazisti riluttanti, costretti alle atrocità dalla ferocia della dittatura. «A me fanno persino arrabbiare frasi come “Hitler invase la Polonia”», riflette Volckmer. «Non era Hitler, erano cittadini tedeschi che invasero la Polonia».
«NOI SIAMO EREDI DELL’ORRORE»
La scrittrice ricorda che ai tempi in cui andava a scuola, a Berlino ci fu una famosissima, contestata mostra sulla Wehrmacht: «Fino ad allora, per decenni, si era raccontata la favola di un esercito di bravi tedeschi obbligati a combattere. Quando venne fuori che erano stati anche criminali di guerra, che avevano commesso immense atrocità, ci furono addirittura delle proteste. Il tema del libro è questo: noi siamo gli eredi di quell’orrore. È doloroso, ma è così».
Il romanzo uscito ora in Italia è già stato pubblicato nel Regno Unito, negli Usa, in Spagna e in altri paesi. Mentre la storia della sua pubblicazione in Germania è stata lunga e faticosa. Certamente non è un caso, vista la sua stupenda ferocia.
«Sì, il libro uscirà in Germania in estate, ma è stato un percorso accidentato e tormentato. Non lo voleva fare nessuno. E gli editor erano estremamente irritati. Non lo trovavano affatto divertente. Sembrava davvero che nessuno avrebbe avuto il coraggio di farlo. Poi ho trovato un editore che ha fondato una casa editrice per pubblicarlo».
E Volckmer ha anche parlato nel frattempo con la traduttrice, Milena Adam. «Le ho detto, ma sei sicura di volerlo tradurre? E lei mi ha detto una cosa molto intelligente. Che la destra non avrebbe mai potuto metterci il cappello».
Un altro tema fondamentale del libro è il rapporto della protagonista con la sua femminilità. Anche lì Volckmer rompe molti tabù, tematizza la masturbazione, lascia spazio a sfrenate ed esilaranti tirate sul sesso, riflette del significato di una fellatio in un bagno pubblico, si esercita estesamente su argomenti sui quali alle donne viene insegnato ancora oggi che sia più opportuno tacere.
«Sì, è vero, è l’altro grande tema del libro: come suddividiamo i corpi. Lo schema binario dell’uomo o della donna è troppo fisso. E la protagonista tenta di scapparne. Ma è stata educata così, alla femminilità come dovere, schiacciata da un’immagine molto prepotente imposta alle donne, e ai loro corpi. Bisognerebbe cominciare dalla prima infanzia, quando sarebbe importante dire alle bambine che sono intelligenti. E non solo che sono belle».
Tonia Mastrobuoni per “Il Venerdì – la Repubblica”