In concomitanza con l’Expo milanese dedicata al cibo, il tema degli stili alimentari ha avuto una sua rinascenza. Ma ben presto, sulle prime pagine dei giornali, il tema che avrebbe dovuto rimanere centrale, cioè quello di come fare ad assicurare ai milioni di poveri al mondo cibo sufficiente, è sparito a favore di campagne pro o contro quel alimento o quella dieta. L’articolo che pubblico, ripreso da Rivistastudio, si inserisce in questo dibattito in maniera documentata e con obiettività, esponendo i vari punti di vista e mettendo in guardia da eccessi totalizzanti che contraddicono una corretta prospettiva salutogenica.
Non molto tempo fa Report ha dedicato un servizio all’olio di palma. Gran parte del reportage era incentrato sull’impatto ambientale della coltivazione della palma da olio, responsabile della deforestazione dell’Indonesia e di altri Paesi del Sud-est asiatico, ma non mancavano riferimenti all’insalubrità di questo ingrediente, quasi onnipresente nei cibi industriali, e reo di essere ricco di grassi, povero di antiossidanti e spesso raffinato chimicamente. Colpiva il titolo del servizio, “Che mondo sarebbe senza…”, che oltre a fare il verso allo slogan di un noto prodotto dolciario contenente olio di palma, ha anche un sentore salvifico. Immagina un mondo senza olio di palma: sarebbe un posto migliore, senza deforestazione, e noi saremmo tutti più belli, più sani e più magri. Prendi un alimento, eliminalo del tutto, e vedrai che la tua vita cambierà. La carne, per esempio. Oppure il latte, i carboidrati, o i dolci. Meglio ancora: individua un ingrediente comune nei cibi di largo consumo, proietta su di esso tutti i tuoi malanni o disagi, e comincia la battaglia. Come l’olio di palma. Ma anche il glutine, il lievito, il glutammato di sodio. Più che perseguire il bene, si tratta di rifuggire il Male. Vegetariani (niente carne), vegani (niente cibi di origine animale), gluten-free (niente glutine), paleo-diet (niente di “moderno”, dove per “moderno” s’intende successivo alla Rivoluzione del Neolitico, quella che introdusse l’agricoltura 12 mila anni fa), gli anti Ogm (niente cibi geneticamente modificati) e, nel caso più estremo, i sedicenti brethariani (niente cibo, punto). Libera nos a malo.
All Candy Expo Sweetens Up Chicago Alan Levinovitz, studioso di filosofia delle religioni alla James Madison University, è convinto che tutte le mode alimentari contemporanee abbiano una componente di redenzione, e che quest’elemento messianico abbia molto a che vedere una certa tendenza totalizzante, che si concentra sull’eliminare, ergo a liberarci da qualcosa. Levinovitz attacca e analizza questi “mantra alimentari”, parole sue, nel suo ultimo libro The Gluten Lie: And Other Myths About What We Eat (Regan Arts 2015). Il mangiar sano – o, meglio, il convincersi di mangiare sano – è una nuova religione, sostiene lo studioso. In primis perché fa appello a un antico desiderio umano di purezza e leva sui nostri sensi di colpa – e sul desiderio di sentirci in colpa per qualcosa – e poi perché si tratta di credenze in larga misura irrazionali. Non a caso spesso i loro sostenitori utilizzano termini vaghi, e dalle esplicite implicazioni morali, come “naturale” e “innaturale”, “cibo chimico”, “additivi chimici” o “tossine”. Cos’è un “alimento chimico”? Una definizione certa non esiste, dal momento che ogni alimento, per definizione, ha una sua chimica. E cosa significa definire un cibo “naturale”? In natura (se per “natura” intendiamo lo stato di cacciatori raccoglitori antecedente alla Rivoluzione del Neolitico, ma anche qui si potrebbe obiettare che “natura” è un termine assai impreciso) l’homo sapiens non consumava alcun vegetale coltivato.
La realtà è che molte di queste buzzword stanno a significare due cose: “buono” o “cattivo”. «Tanti di questi mantra partono da una base di verità, incluso il movimento anti-glutine. Alcune persone sono celiache, mentre altre pur senza essere celiache possono comunque beneficiare dal non mangiare glutine. Ciò che è irrazionale è sostenere che se qualcosa nuoce a una piccola parte della popolazione, allora deve fare per forza male a tutti. È qui che entra in gioco l’idea di purezza religiosa», spiega Levinovitz in un’intervista via email. «Se una sostanza è “corrotta” per alcune persone, allora deve essere impura e corrotta per tutti, deve essere trasformata in un tabù. Che si tratti di [mettere al bando] il glutine oppure i cosiddetti “alimenti raffinati”, spesso esiste anche una dimensione di colpa, perché si tratta anche di cibi altamente calorici: in una cultura patologicamente spaventata dall’ingrassare, consumare cibi e bevande che contengono glutine, come il pane, la pasta o la birra, diventa un guilty pleasure, un atto che richiede penitenza». Levinovitz non è il solo a muovere critiche di questo tenore. Nel suo recente saggio Homo dieteticus (Il Mulino 2015) l’antropologo italiano Marino Niola definisce l’ossessione del mangiar sano «una religione senza Dio», una «pratica fisica, ma anche morale, che riguarda salute e salvezza, corpo e anima», fatta di «rinunce spontanee, penitenze laiche, sacrifici che hanno a che fare più con la coscienza che con la bilancia». Come Levinovitz, lo studioso delle religioni, anche Niola, l’antropologo, è convinto che il rifiuto dei chili di troppo non sia che una delle componenti che spingono molti ad abbracciare questa nuova fede: «Siamo tutti alla ricerca dell’alimento che ci rimetta in pace con noi stessi. Tutti alla ricerca del regime salvifico», scrive. Come Levinovitz, inoltre, anche Niola trova significativo che i mantra contemporanei nascano dal desiderio di escludere ciò che è corrotto, più che dalla ricerca di ciò che è sano. «Una volta si diceva che siamo quello che mangiamo», mentre oggi invece le tribù urbane tendono a identificarsi in ciò che non mangiano: «La nostra diventa un’alimentazione in levare. Senza uova, senza latte, senza sale, senza zucchero, senza carboidrati, senza lieviti […] È una sorta di esorcismo dietetico che espelle dalla tabella alimentare i cibi proprio come se fossero il diavolo». A quest’urgenza di purezza per esclusione, Niola cerca di dare una spiegazione con la necessità di ripristinare un rapporto con l’assoluto in assenza di una divinità: «In una società secolarizzata come la nostra, da cui è svanito ogni orizzonte trascendente, religioso o laico, la sacralità si è ormai trasferita al corpo, che è diventato il simulacro di Dio. Il tabernacolo di un culto a sé che ha messo l’Io al posto del Dio, rendendo nel contempo ciascun individuo responsabile della cura e della conservazione del simulacro», scrive. Inoltre, sostiene l’antropologo, il desiderio di rinunce alimentari potrebbe essere una reazione all’abbondanza di cibo, senza precedenti, di cui gode il mondo industrializzato: «Il fatto è che in una società come la nostra il grande nemico non è la fame, ma l’abbondanza. Che si porta dietro il suo minaccioso carico di sensi di colpa, fobie e idiosincrasie».
Quarant’anni fa lo psicologo dell’Università della Pennsylvania Paul Rozin ha coniato il concetto del «dilemma dell’onnivoro». Ogni animale capace di mangiare praticamente tutto per nutrirsi deve compiere delle scelte. I carnivori mangiano la carne che gli capita a tiro, gli erbivori l’erba. Gli onnivori tuttavia, avendo una scelta potenzialmente più ampia, devono fermarsi a pensare cosa conviene loro mangiare, a seconda della situazione (vale per gli umani, ma anche per i topi, soggetto originario delle ricerche di Rozin): vale la pena di allontanarsi dal branco alla ricerca dell’alimento più calorico, che però comporta rischi e un dispendio di energie, oppure meglio accontentarsi di cibo dall’apporto nutrizionale minore, ma più rapidamente disponibile?, è una domanda che gli animali onnivori si pongono quotidianamente. L’onnivoro deve scegliere. Per l’uomo, in passato, questa scelta è stata relativamente ridotta, data la scarsità del cibo. Nelle società benestanti, tuttavia, possiamo mangiare ogni cosa, perché il nostro corpo digerisce tutto, e possiamo mangiare ogni cosa perché tutto è a disposizione. La scelta diventa di fatto infinita. In alcuni individui, si sa, l’essere posti davanti a una scelta infinita genera ansia.
La mancanza di limiti si traduce nella necessità di imporre a se stessi dei limiti: mi impongo di non mangiare carne, mi impongo di non mangiare glutine, mi impongo di non mangiare latte, per esorcizzare il mio disagio. Alcuni psicologi riconducono l’“ortoressia nervosa”, termine coniato nel 1997 dallo psichiatra Steven Bratman per descrivere l’ossessione per le “diete sane”, a un disturbo dell’ansia, ergo alla necessità di esercitare controllo alla propria esistenza: «La necessità di eliminare certi tipi di cibo come la carne o il grano, o gruppi interi come i carboidrati e i grassi, ricorda i disordini dell’ansia e i disordini ossessivo compulsivi», spiega la psichiatra inglese Deanne Jade, presidente del Centro Nazionale per i Disturbi Alimentari, in un’intervista via email. «Ho incontrato molti pazienti che non mangiano proteine perché ‘sono vegetariano’, ‘sono allergico ai latticini’ oppure perché ‘i cereali mi fanno sentire gonfio’». Nei casi più estremi, seguire mantra alimentari può avere conseguenze nocive sulla salute fisica. Per esempio uno dei problemi, come faceva notare un’inchiesta del New Yorker, è che molti dei cibi senza glutine in commercio spesso sono insolitamente ricchi di sale, grassi e zuccheri: «Cos’è che vende il cibo. Sale, zucchero, grassi e glutine. Dunque se i produttori devono togliere un elemento, devono aggiungerne un altro per rendere il cibo appetibile».
Resta da chiedersi dove porre il confine tra chi, magari anche sbagliando, intende semplicemente seguire una dieta sana e chi è invece è guidato da un’ossessione: «Bisogna fare una distinzione tra le persone che mangiano i cibi sani, senza idee estreme, con chi invece segue regole rigide e immotivate», risponde Jade. Levinovitz, lo studioso di religioni, la mette giù in termini più esistenzialisti: «Fatti una domanda: alla fine della tua vita, ti renderà felice pensare al tempo che hai sprecato preoccupandoti di ciò che mangi? Al tempo che hai trascorso davanti allo specchio chiedendoti quale dieta ti avrebbe reso una persona migliore? Conosco persone terrorizzate dall’idea di partecipare a una cena o a una riunione di famiglia perché temono di entrare in contatto con cibi malsani o impuri. Questa è la mentalità dell’ortoressico».
Nell’estate del 2014 una delle più celebri blogger vegane degli Stati Uniti ha annunciato di essere ortoressica. Per oltre un anno Jordan Younger aveva spopolato su Instagram, sotto il nome di “Vegan Blondie” con immagini di frullati ipocalorici, insalate di quinoa e pietanze al tofu sapientemente impiattate. Con oltre 115 mila follower, aveva anche lanciato una sua linea di T-short, con slogan del tipo: “la vodka è vegana?”. Poi, una giornata di luglio e senza preavviso, il dietrofront: scusate tanto, m’ero sbagliata, pensavo di essere vegana invece ero solo ortoressica. Il problema è che Jordan questa ortoressia se l’era diagnosticata.
Proprio come molti suoi (ex) colleghi blogger ultra-salutisti continuano ad auto-diagnosticarsi intolleranze al glutine o al lattosio. Ad oggi l’ortoressia non figura nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali.
Anna Momigliano per http://www.rivistastudio.com/