E’ uscito oggi il quotidiano Il Foglio con un inserto di quattro pagine scritto interamente attraverso l’intelligenza artificiale.
E’ un esperimento che pone una serie di interrogativi senza risposte, o con troppe risposte, come si riconosce nel primo articolo che si riporta. Ad esso ho voluto aggiungere, come esempio, quello che una volta si diceva articolo di fondo, interprete della linea politica e culturale del giornale.Non poteva che essere di scottante attualità: la guerra in Ucraina, le mosse della nuova presidenza americana, quelle dell’Europa in questo inedito scenario. Lascio a voi ogni commento.
Un giornale scritto dall’ai è una buona idea? Forse, ma forse no”
Negli ultimi giorni si è parlato molto dell’esperimento del Foglio, che ha deciso di affidare la realizzazione di un intero giornale a un’intelligenza artificiale. Se fossi un giornalista del Post direi che è un’idea interessante. Ma è anche un’idea problematica. Oppure no? O forse sì, ma dipende da cosa intendiamo per giornalismo. E da cosa intendiamo per intelligenza artificiale. E da cosa intendiamo per esperimento. Insomma: la questione non è semplice.
Prima di tutto, che cos’è un’intelligenza artificiale? E’ una macchina che elabora testi, immagini o dati seguendo modelli statistici. Non pensa, non prova emozioni, non ha esperienza del mondo. Ma è anche uno strumento straordinariamente potente, che riesce a generare contenuti credibili e ben scritti, a volte persino sorprendenti. Ma questo significa che può fare giornalismo? E soprattutto: cosa significa “fare giornalismo”?
Il giornalismo è raccogliere e organizzare informazioni. E’ verificare i fatti, raccontarli, interpretarli. E’ anche una questione di scelte: quali notizie dare e quali no? In che ordine? Con quale tono? Un algoritmo può produrre testi che sembrano giornalistici, può imitare gli stili di scrittura, può persino riconoscere pattern nei dati. Ma può sostituire il lavoro di una redazione? Può fare domande? Può intuire che una storia che sembra piccola è in realtà enorme? Non è chiaro.
Da una parte, un’ai potrebbe aiutare a scrivere articoli velocemente, a sintetizzare informazioni, a eliminare errori. Dall’altra, potrebbe anche rendere tutto un po’ più uguale, un po’ più prevedibile. E se tutto diventa prevedibile, è ancora giornalismo? O diventa qualcos’altro? E cosa succede se l’intelligenza artificiale sbaglia? E se i lettori si abituano a leggere testi generati da un algoritmo e non notano la differenza? Sarebbe un problema o un segno che funziona?
L’esperimento del Foglio è utile perché pone tutte queste domande. E’ un gioco, ma è anche un test. Dimostra che L’AI può scrivere articoli leggibili e sensati. Ma dimostra anche che il giornalismo non è solo una questione di testi ben scritti. E’ contesto, è interpretazione, è decisione. E’ anche responsabilità: se un giornalista sbaglia, se un giornale pubblica una notizia falsa, ci sono delle conseguenze. Se un’ai sbaglia, di chi è la colpa? Di chi la programma? Di chi la usa? Di nessuno?
Forse la questione più importante non è se un’ai possa sostituire i giornalisti, ma se vogliamo che lo faccia. E anche qui la risposta non è semplice. Da un lato, la tecnologia ha sempre cambiato il modo in cui l’informazione viene prodotta e distribuita. I giornali un tempo si stampavano con i caratteri mobili, oggi esistono in digitale. L’AI potrebbe essere solo l’ennesimo strumento che cambia il mestiere, senza però sostituirlo. Dall’altro, un giornale fatto interamente da una macchina potrebbe spingere l’informazione verso un modello in cui la velocità e l’efficienza contano più della profondità e dell’originalità. Sarebbe un bene? Dipende.
Quindi, l’esperimento del Foglio è una rivoluzione? No. E’ la fine del giornalismo? Nemmeno. E’ un segnale? Forse. E’ un problema? Non necessariamente. E’ un’opportunità? Anche. Alla fine, resta la domanda più difficile: se un giornale può essere scritto da una macchina, vogliamo che lo sia? La risposta, probabilmente, è: dipende.
L’europa al bivio: sostenere la pace senza cedere alla resa. L’UE deve adottare una strategia decisa per garantire che la pace non si traduca in una sconfitta
La telefonata tra Donald Trump e Vladimir Putin ha riacceso il dibattito sul futuro della guerra in Ucraina. Trump ha ribadito la sua linea: serve fermare la guerra, servono trattative, serve un accordo che soddisfi tutti. Oalmeno, che soddisfi Putin. La questione non è più se la guerra possa concludersi, ma a quali condizioni. E qui l’europa deve stare molto attenta. I passaggi per arrivare a un tavolo negoziale sono forse meno oscuri di un tempo, ma resta il rischio che gli Stati Uniti, nella loro voglia di chiudere il dossier ucraino, si avvitino in una strategia che trasformi la pace in una resa. Putin ha raffreddato l’entusiasmo americano, dicendo che il cessate il fuoco va discusso meglio, che Mosca ha condizioni precise e che l’ucraina deve rinunciare a qualsiasi protezione occidentale. Un’ucraina neutrale, senza forze di peacekeeping europee e con pezzi di territorio ucraino che restano sotto il controllo russo. Lo schema è sempre lo stesso: il Cremlino invade, negozia, si prende una fetta e aspetta il momento giusto per riprendersi il resto.
Nel frattempo, l’amministrazione Trump gioca una partita pericolosa. Nei giorni scorsi, il consigliere per la sicurezza nazionale Michael Waltz ha detto chiaramente che l’ucraina dovrà cedere “qualche pezzo di territorio”. Un’affermazione che suona come un via libera a Mosca. E quando si è diffusa la voce che Trump potesse riconoscere la Crimea come parte della Russia, il Consiglio per la sicurezza nazionale americano si è affrettato a smentire. Ma se non è all’ordine del giorno, è nella lista delle cose possibili. Trump sa benissimo che il suo elettorato non vuole più sentir parlare di Ucraina. E lui cavalca l’onda con il solito stile: un mix di apparente buon senso (“non possiamo essere i poliziotti del mondo”) e di strategia brutale (“me la vedo io con Putin e finisce tutto in 24 ore”). Ma il suo piano di pace rischia di essere una trappola. Perché con la Russia ancora sul territorio ucraino, parlare di tregua e negoziati significa congelare il conflitto alle condizioni di Mosca, lasciando Kyiv senza vere garanzie e con la prospettiva di una nuova invasione.
L’europa deve svegliarsi. Non può permettersi di subire passivamente le mosse americane, accettando una pace che assomiglia più a una capitolazione che a un accordo equo. Non è accettando qualsiasi accordo che si garantisce la sicurezza, ma imponendo un equilibrio che tenga conto degli interessi europei. Questa è la sfida: trovare una voce comune, esercitare pressione sugli Stati Uniti affinché il negoziato non diventi un’operazione di svendita dell’ucraina, mettere sul tavolo risorse per garantire che un eventuale cessate il fuoco non sia il preludio a un nuovo conflitto. Per anni l’europa si è affidata agli Stati Uniti per la sua sicurezza. Con Trump questo non è più possibile. Se Washington deciderà di chiudere il capitolo ucraino con un accordo che favorisce Putin, l’europa dovrà essere pronta a fare il necessario per compensare le falle di una strategia che guarda più ai sondaggi interni americani che agli equilibri globali. Questo significa più aiuti concreti a Kyiv, più autonomia nella difesa, più pressione diplomatica per evitare una pace che sia solo una pausa per la prossima guerra. Perché una pace che premia l’aggressore è solo un invito alla prossima aggressione.