Una scelta coraggiosa dell’ editore Rubbettino propone finalmente ai lettori italiani la traduzione del volume Nazionalismo banale, scritto dallo psicologo sociale britannico Michael Billig più di due decenni fa. La pubblicazione colma una lacuna nello scaffale degli studi più influenti prodotti in quegli anni attorno al fenomeno storico delle nazioni, assieme alle opere di Eric Hobsbawm, Benedict Anderson, Ernest Gellner tra gli altri.
La tesi di Billig, esposta con buona dose di provocazione e humor, è che la persistenza del nazionalismo nella storia non sia da addebitare tanto alle fasi in cui esso è più rumoroso e distinguibile nel dibattito politico, quanto a quelle in cui la sua riproduzione quotidiana è affidata a simboli e rituali talmente innocui e abituali da passare ormai inosservati. È questo, conclude Billig, che fa considerare implicitamente il «mondo di nazioni» nel quale siamo abituati a vivere come un ordine naturale senza alternative.
Uscito a metà degli anni Novanta in piena dissonanza con la retorica della «globalizzazione» come cifra della storia, Nazionalismo banale acquisisce una valenza persino profetica ai nostri giorni, in cui preoccupanti espressioni di un nazionalismo oltranzista, ancorché declinato in termini differenti a seconda dei contesti, tornano a condizionare il dibattito e le scelte della politica. Dell’ attualità delle sue tesi e della nuova ondata nazionalista «la Lettura» ha discusso con l’autore.
Professor Billig, quando «Banal Nationalism» fu pubblicato più di vent’anni fa, Francis Fukuyama e altri come lui presentavano la «globalizzazione» come fine della storia, e dunque anche del nazionalismo. Il suo libro al contrario avvertiva non soltanto come quest’ultimo stesse sopravvivendo sotto la superficie, ma che proprio le nuove divisioni sociali generate dalla globalizzazione rischiavano di alimentarlo. L’attuale rinascita del nazionalismo conferma la sua tesi o siamo di fronte a un fenomeno nuovo e imprevedibile?
«La tesi di Banal Nationalism era che, finché continueranno a esistere gli Stati nazionali, esisterà anche il nazionalismo, perché l’ideologia del nazionalismo include quelle credenze e pratiche che fanno sembrare il mondo degli Stati nazionali come assolutamente normale. Quel mondo ha continuato a esistere; di conseguenza, non dovrebbe sorprendere che altrettanto abbia fatto il nazionalismo.
Certamente quest’ ultimo può assumere forme diverse, dai movimenti improntati a un “nazionalismo caldo”, votati a cambiare le frontiere o a perseguire un’ interpretazione aggressiva dell’ interesse nazionale, alle forme “fredde” che all’ apparenza sembrano meno ortodosse, ma si fondano comunque sugli interessi degli Stati nazionali.
Dunque non direi che il fenomeno sia rinato, dal momento che non è mai scomparso. È sempre stato sul punto di erompere, ad esempio durante l’invasione statunitense dell’Iraq o nei conflitti per dar vita a nuovi Stati nazionali in seguito al crollo dell’impero sovietico. Donald Trump può aver guadagnato elettori con lo slogan make America great again, ma i suoi predecessori, incluso Barack Obama, hanno normalmente definito gli Stati Uniti come “una grande nazione” e hanno appuntato piccole bandiere sulle loro giacche. Indubbiamente la situazione odierna è imprevedibile, ma questo non significa che siamo di fronte a qualcosa di interamente nuovo. Di certo possiamo prevedere che lo Stato nazionale non sia destinato a scomparire. vent’anni fa alcuni “globalisti” ci credevano: oggi sono davvero in pochi».
Lei insiste sull’origine dialettica del nazionalismo, sulla «tradizione dell’argomentare» che lo sostiene, sul discorso politico come elemento fondamentale della sua riproduzione quotidiana. I nuovi media e l’informazione digitale hanno cambiato questi processi di costruzione dialettica e in generale l’espressione del nazionalismo?
«Ogni ideologia si fonda su una tradizione dell’ argomentare. Nel caso del nazionalismo, ciò include una fede professata apertamente nel carattere della “nostra” nazione come delle altre. Il nazionalismo include anche assunti che sono dati talmente per scontati da venire raramente giustificati o criticati.
Oggi il mondo degli Stati nazionali è considerato normale, “naturale”. I movimenti politici possono dichiarare che alcuni specifici Stati nazionali debbano esistere o meno, ma raramente oggi qualcuno sostiene che non debbano esistere gli Stati nazionali in quanto tali. Questo è il contesto nel quale operano i nuovi media.
Certamente essi hanno un’influenza enorme sulla comunicazione moderna e ne hanno promosso il carattere transnazionale. Tuttavia, non credo che essi stiano erodendo gli stessi confini nazionali e che stiano favorendo l’emersione di un tipo completamente diverso di universo politico, fondato su comunità globali. Certamente non si può escludere che in futuro le comunicazioni globali spingano gli Stati nazionali a scomparire, ma al presente i due fenomeni sembrano coesistere».
«Populismo» è la categoria oggi più discussa da scienziati politici ed esperti in generale per inquadrare l’ ascesa in Occidente di nuovi movimenti fondati su una retorica identitaria, etnica ed escludente («noi contro loro»). Che rapporto c’è tra il nazionalismo tradizionale e il populismo odierno?
«È facile considerare il populismo come qualcosa di completamente nuovo, ma ci sono continuità con il passato. Trump, ad esempio, sembra avere uno stile molto diverso dai predecessori e fa appello a chi si sente escluso dalle cosiddette élite. Eppure ha dei precedenti. Per esempio Trump condivide molte caratteristiche personali e politiche con Silvio Berlusconi.
In Europa abbiamo visto una crescita di antieuropeismo, ma certamente in Gran Bretagna ce n’ era molto anche cinquant’ anni fa, soprattutto a sinistra. Ciò a cui assistiamo può essere pericoloso, ma non interamente nuovo, almeno nello specifico dei singoli casi. Tuttavia, ciò che può essere diverso è la crescita simultanea di politiche populiste in così tanti posti diversi – Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Svezia, eccetera. Ovunque volgiamo lo sguardo nel mondo economicamente sviluppato, vediamo l’ esistenza di movimenti populisti che danno voce ostentatamente a richieste nazionaliste».
Lei esorta il lettore a notare «lo sbandieramento costante del nazionalismo», anche in tempi in cui il fenomeno è dissimulato. Oggi i simboli del nazionalismo sono mostrati in modo aggressivo contro l’immigrazione, la «tecnocrazia europea», i complotti di nemici invisibili e quant’ altro. Quale dovrebbe essere l’atteggiamento delle élite culturali o semplicemente dei cittadini consapevoli per affrontare questa tendenza?
«In realtà, la tesi di Banal Nationalism non è che i simboli del nazionalismo siano dissimulati, ma che al contrario essi siano sempre apertamente visibili – come lo sono sugli edifici pubblici, sui francobolli, sulle banconote che spendiamo. Questi simboli sono talmente evidenti da non essere nemmeno più notati, in quanto costituiscono lo scenario comune del mondo in cui viviamo indipendentemente dalla nostra appartenenza nazionale. Oggi le forze populiste sventolano consciamente e deliberatamente le bandiere nazionali, specialmente quando fanno campagna contro immigrati e stranieri.
Chiedersi cosa possano fare le “élite culturali” ci porta forse a confrontarci con una parte del problema: forse le élite non possono risolverlo perché potrebbero essere parte del problema stesso. Il senso di disaffezione di chi si sente trascurato è reale. Talvolta la disaffezione ha una dimensione regionale, in quelle aree in preda al declino industriale e agricolo che si sentono dimenticate dalle cosiddette élite metropolitane.
Potrebbe non essere un caso che la crescita del populismo e il nazionalismo apertamente aggressivo prendano piede in una fase di incremento delle diseguaglianze sociali ed economiche. Le nazioni dell’ Occidente sono sottoposte a tensioni nel momento in cui i super-ricchi lo diventano ancora di più mentre i poveri vivono tempi di crescente insicurezza. È un processo che non sembra limitarsi a poche nazioni».
Esistono soluzioni praticabili per uscire da queste difficoltà delle democrazie contemporanee?
«Se questa analisi è corretta, allora possiamo concludere che il neoliberismo globale sta producendo la reazione del populismo nazionale. La soluzione è almeno in parte economica. Il divario tra ricchi e poveri dovrebbe essere fortemente ridotto, innanzitutto con la tassazione, con una distribuzione più equa della proprietà e con una sicurezza lavorativa ben maggiore per chi è più indifeso. Se questo dovesse accadere, allora le società o piuttosto gli Stati nazionali diventerebbero più omogenei economicamente e quindi socialmente. A quel punto, le tensioni che oggi sembrano così pericolose potrebbero iniziare a scemare».
Articolo di Giovanni Bernardini per “la Lettura – Corriere della Sera”