IL CINEMA QUARTO POTERE? – GIANNI CANOVA SCRIVE UN SAGGIO SUL POTERE VISTO DA DIETRO LA CINEPRESA– DA ROSSELLINI A FELLINI E PASOLINI, DA SCOLA A MORETTI, FINO A SORRENTINO- PERCHE’ BEPPE GRILLO, CHE SUL SET NON CI SAPEVA FARE, SI SCOPRE PROFETA DELLA DEMOCRAZIA DIRETTA. COSI’ LA PENSA GEPPETTO.
Vedendo al cinema Darkest Hour (L’ora più buia) riflettevo sul fatto che gli autori stranieri hanno del potere un’idea diversa dalla nostra. Da una parte Churchill che impersona la politica come servizio e missione, dall’altro la maschera che Toni Servillo fa di Andreotti (prossimamente di Berlusconi, c’è da scommetterci): il ritratto archetipo dell’italianità triviale, melliflua, viscida addirittura.
Sul tema del potere, Gianni Canova ha di recente pubblicato il saggio Divi, duci, guitti, papi, caimani -L’immaginario del potere nel cinema italiano da Rossellini a The Young Pope. La tesi di fondo è che nel cinema italiano il potere non può essere buono, ma sempre misterioso, occulto, ingannevole, complottista. Sostiene Canova che si tratta oramai di una ideologia di fondo, una religione laica, una visione del mondo.
Scrive Andrea Minuz, commentando sul Foglio il saggio di Canova: “Bisogna partire dai registri narrativi principali con cui il cinema italiana ha messo in scena il potere: il grottesco da un lato, e la denuncia, l’indignazione dall’altro. In entrambi i casi, prende forma un’idea negativa del potere: il potere come colpa, o vergogna, o delitto, un’idea divorata da uno schematismo ideologico che appare indifferente alle trasformazioni sociali, culturali, politiche. Settant’anni di vita repubblicana non hanno minimamente scalfito un immaginario del potere ancora legato all’idea di malvagità, di cospirazione, con tutto il lessico dell’intrigo e della sopraffazione che ne deriva- “il Palazzo”, “le segrete stanze”, i “poteri occulti”, i “poteri forti”, la “casta”..
Scrive Canova; “ L’idea che il potere possa avere a che fare con la democrazia, cioè possa consistere prima di tutto nel governo delle istituzioni in vista del raggiungimento del bene comune, non ha avuto mai una grande presa su registi, sceneggiatori e produttori, che hanno preferito raccontare il potere come arbitrio, controllo, dominio, un potere che nasconde quasi sempre qualcosa, spietato feroce, malvagio, oppure viscido, mellifluo, felpato” appunto.
Il vate e profeta di questa lettura ripugnante del potere, per quanto attiene casa nostra, è stato Pier Paolo Pasolini di cui Canova cita gli scritti: “ nulla è più anarchico del potere”, “il potere fa quello che vuole e sfugge alle logiche razionali”, il potere “è completamente arbitrario e manipola i corpi in modo orribile, che non ha niente da invidiare alla manipolazione fatta da Himmler o Hitler”.
Scrive ancora Minuz: “Il cinema italiano ha dato forma a questa cosmologia apocalittica del potere in tutte le possibili variazioni: l’impunibilità del potere (“Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”), la corruzione del potere ( “Il portaborse”, “Il caimano”), il trasformismo del potere (“Il gattopardo”, “I Vicerè”), l’oscenità del potere (“Salò o le 120 giornate di Sodoma”), la malvagità del potere (“Buongiorno notte”, l’arbitrarietà del potere ( “In nome del popolo italiano”).
Scrive Canova, commentando The Young Pope di Sorrentino che il punto di forza della serie: “ sta nell’avere intuito che per raccontare le strategie del potere, in Italia, bisogna rinunciare alle ambizioni dell’affabulazione per calarsi piuttosto nella dimensione del cerimoniale e della liturgia”. Il potere si mostra come affresco e rifugge lo storytelling; nel palcoscenico del paese funziona di più l’immaginario, il cerimoniale, la teatralità diffusa, la caricatura dello spettacolo, il “bagaglino”.
Non ci interessa il potere ma la “scenografia del potere”, il film diventa una macchina processuale, sostituendosi alla giustizia incapace di arrivare alla Verità. “Grillo fa teatro, Santoro fa teatro, Travaglio fa teatro, Floris si aggira per lo studio a forma di teatro elisabettiano”.
Il cinema americano o inglese (si pensi a King’s speech, Il discorso del re) mette in scena il potere come fatto politico e etico, narrativo. Quello italiano proietta una immagine del potere come una entità astratta, invisibile e inafferrabile, poco esprimibile attraverso l’affabulazione. Per riuscire a raccontarlo bisogna corrispondere alla sua natura invisibile e misteriosa. Così come fece Fellini in Prova d’orchestra, potente apologo che in pieno ’68 mostra la deriva del disordine anarcoide e gli esiti del capovolgimento definitivo del mondo. La cultura del narcisismo, l’insofferenza delle regole e di ogni principio di competenza, a favore di una “democrazia diretta” stanno tutte in questo film, vero e proprio avvio della deriva che oggi chiamiamo populismo.
.Non poteva, perciò, mancare nel saggio un capitolo dedicato alla deriva populista del nostro sistema dei media. Il personaggio analizzato è Beppe Grillo. Dalla coralità del gruppo si passa al monologo, adattissima forma per la “dittatura della semplificazione, l’invettiva, l’urlo anti casta, la lotta della piazza contro il Palazzo perché la verità apparterrebbe alla piazza, le menzogne solo al Palazzo.
Grillo, afferma Canova a conclusione del suo escursus, “ ha portato a forma di spettacolo assoluta e totalizzante il monologo.. Lui parla da solo, gestisce il flusso della comunicazione in modo verticale, diffondendo il Verbo dall’alto del suo assolutismo enunciatario…. L’idea che tutto ciò abbia a che fare con la “democrazia diretta”, qualsiasi cosa voglia dire, è la beffa più grande che poteva rifilarci”.