Quando Oliver Stone decide di scrivere un libro (si intitola Cercando la luce, ma potrebbe anche avere come titolo I miei primi quarant’anni, visto che è concentrato soprattutto su quel periodo della sua vita), è logico aspettarsi qualcosa di simile alle storie che ha scritto per la regia di altri ( Fuga di mezzanotte, il suo primo Oscar) o che ha poi diretto di persona (Platoon, Wall Street): vicende dure, giudizi taglienti, capacità di provocare, ritmo serratissimo. Ebbene, le aspettative sono state davvero mantenute. Chi cerca i giudizi forti e irrevocabili ha pane per i suoi denti.
Westmoreland, il generale che ha guidato gli Stati Uniti in Vietnam verso l’unica sconfitta militare della loro storia, è indicato senza mezzi termini come «uno che aveva lo sguardo più stupido del mondo».
Non va molto meglio a Henry Kissinger, il potentissimo diplomatico che sostenne il conflitto in Vietnam e il golpe di Pinochet, considerato una specie di dottor Stranamore. Gilles Jacob, lo storico direttore del festival di Cannes, viene liquidato come «il mandarino francese» per aver rifiutato il film Salvador.
Se poi si va indietro nel tempo, il generale Patton (eroe nazionale USA) è considerato il vero ispiratore di Natural Born Killers. Insomma, ce n’è per tutti, e senza mezzi termini, senza sfumature. Per fortuna, però, il racconto è molto piu ampio, gli orizzonti sono diversi, il cinema e lo spettacolo prevalgono rispetto alla vis polemica.
Sembra quasi che Oliver Stone si prepari a mettere in scena la propria vita, tanto è attento ai dettagli, preciso nelle descrizioni, affascinato dai sottotesti. A iniziare dalla famiglia: il padre ebreo non praticante, la madre francese (i due si sono conosciuti nella seconda guerra mondiale, il padre vide una ragazza francese in bicicletta, le andò addosso con il suo velocipede e le chiese di uscire con lui: poco dopo si sposarono).
Una famiglia in apparenza perfetta, benestante: ma a 14 anni Oliver scopre che padre e madre stanno divorziando, che lui accusa lei di averlo tradito con un amico di famiglia e di aver fatto debiti per 100.000 dollari, mentre la madre ribatte che da tempo il padre ha amanti di ogni tipo e che se gli affari vanno male la colpa è soltanto degli affari che non ha saputo gestire e della sua visione ridotta e meschina del mondo della finanza. Il colpo è grande, e Oliver reagisce a modo suo.
Va in Vietnam prima come insegnante in una missione cattolica, poi come volontario nell’esercito americano. È il 1968, l’anno della grande offensiva che sorprese gli americani facendo presagire la loro sconfitta. Secondo Stone, c’erano molti indizi dell’offensiva del Tet (dal nome del capodanno buddista che diede il via all’offensiva Vietcong) ma furono volutamente ignorati dai generali USA. In compenso, in meno di un anno di permanenza in Vietnam Stone conosce orrori di ogni tipo che lo segnano profondamente.
Quando torna viene arrestato, ha fatto uso di droga, finisce in carcere senza un soldo e senza possibilità di difendersi. Tutto cambierà grazie al padre, che trova i soldi per pagare un avvocato e che riesce a farlo uscire di prigione. Stone torna a New York, ma vive come un hippie e parla come un nero degli slum facendo arrabbiare il padre. Ma ormai ha scelto la sua vita, e vuole raccontare quello che gli è successo. L’esperienza carceraria gli è utile per Fuga di mezzanotte, che lo porterà a essere uno degli sceneggiatori più richiesti.
Ma il suo vero obiettivo è di realizzare Platoon. Sembra facile, ma ci vorrà ancora molto, molto tempo. Oliver Stone racconta con grande cura tutto l’iter che lo porta a realizzare Platoon, in origine pensato per William Friedkin ma proposto anche a John Frankenheimer, a Clint Eastwood, a Sidney Lumet.
E, come un fiume carsico, appaiono qua e là i suoi incontri e i suoi giudizi sulla gente di cinema che ha incontrato. Andiamo da un Marlon Brando deluso perché Stone non è interessato a un suo progetto, Sand Creek, che mette in scena la strage dei pellerossa raccontata in note anche da Fabrizio De Andrè, a un Billy Wilder ironico e geniale che è il primo destinatario del progetto destinato poi a essere intitolato Wall Street.
Si parla anche della sua formazione cinematografica e delle appassionanti lezioni ricevute da Martin Scorsese su Robert Bresson e Joseph von Stenberg, fa inoltre capolino la sua passione cinefila per Sam Peckinpah, per Jean-Luc Godard, per Luis Bunuel (anche se dissente dai francesi Nouvelle Vague che consideravano la sceneggiatura una gabbia dalla quale occorreva affrancarsi).
E Stone inoltre si sofferma su un progetto folle ma geniale che per adesso non ha realizzato: un giovane Tom Mix che, prima di diventare la prima star del western, ha combattuto in Messico tra le fila dei rivoluzionari di Pancho Villa. Speriamo che ci ritorni, sarebbe davvero un regalo straordinario.
Steve Della Casa per Tuttolibri – La Stampa