WALTER VELTRONI INTERVISTA MORANDI- SCOPRITE UN GIANNI MORANDI INEDITO, TENERO E FRAGILE- UN TUFFO NEGLI ANNI DEL CANTAGIRO, PRIMA CHE ARRIVASSE LA MUSICA UNITED STATE, PRIMA DEL SESSANTOTTO- UNA BRUSCA USCITA DI SCENA A 27 ANNI, POI IL CONSERVATORIO E LA RISALITA, GRAZIE A MOGOL E AGLI AMICI CANTAUTORI
Conobbi personalmente Gianni Morandi, che da ragazzo era il mio beniamino, un giorno del 1981. Stavo raccogliendo contributi per un libro che si chiamava Il sogno degli Anni 60. E mi sembrava che quel racconto non avesse senso, senza di lui. Lo incontrai in un bar, poco lontano dal Conservatorio dove studiava contrabbasso. Il risultato di quella conversazione è nel libro. Tornai con una sensazione mesta. Mi sembrava che, tra il divo che all’improvviso aveva cambiato la musica italiana e il ragazzo dimesso e un po’ malinconico che avevo conosciuto, in mezzo ci fosse un dolore. Ma non è così.
Oggi tutto è parametrato al successo, specie, si crede, la felicità di chi lo raggiunge. Morandi, in questa intervista, racconta i pochi anni in cui è stato lontano dalla ribalta come, invece, un tempo di rinascita, di rigenerazione.
Partiamo da quel giorno al Conservatorio, che giorni erano, per te? «Erano i giorni in cui pensavo che non avrei più fatto questo lavoro. Volevo diventare un musicista, un produttore, addirittura mi immaginavo direttore d’orchestra. Sì, la verità è che avevo le giornate abbastanza vuote. Non c’era molta possibilità di lavorare. La musica era cambiata, erano arrivati gli americani, i gruppi, i cantautori impegnati. E poi era un tempo cupo, il tempo del terrorismo. Io avevo rappresentato gli anni Sessanta, la loro leggerezza. L’Italia delle copertine di Sorrisi e Canzoni Tv, di Sogno, Grand Hotel… Io e la mogliettina, il successo, insomma ero un simbolo da cancellare. Tutti noi, di quella generazione, abbiamo patito questa specie di damnatio memoriae. Come se il Sessantotto avesse tagliato in due la storia. C’era un prima e un dopo. Noi eravamo il prima».
Ricordi il momento in cui percepisti che le cose stavano cambiando?
«Nel ‘71 la follia di Radaelli aveva portato i Led Zeppelin a Milano, insieme al Cantagiro. Lì ci fu uno scossone drammatico, capii improvvisamente tutto. Mi davano del vecchio, urlavano che ero finito. Avevo solo ventisette anni, ma sembrava, dopo quegli anni fantastici, che avessi già fatto tutto. Io non capivo quello che stava succedendo. Ma anche i miei produttori erano smarriti. Tutto era tremendamente veloce, tremendamente radicale.
Negli studi Rca, dove Rita Pavone, Paoli e tanti altri erano trattati come degli dei, arrivarono i cantautori. Per me, per noi, sembrava non ci fosse più spazio. Mario Gangi, che era stato un grande chitarrista, mi disse: “Ma studia musica, vai al Conservatorio! Fai qualcosa”. E io mi ritrovai lì, al Conservatorio di Roma, a studiare il contrabbasso.
Riempivo le giornate con la musica, però convivevo con la speranza di rimanere nell’ambiente e di fare il produttore discografico, oppure di arrivare a fare il direttore d’orchestra. Mi leggevo la biografia di Georges Prêtre, che prima faceva il pugile, un altro invece era stato medico. Poi, come una improvvisa vocazione che disvela il talento, erano diventati direttori d’orchestra. Facevo lo studente. Ma non era un periodo triste. Tutte le mattine ero motivato, andavo, riempivo le giornate, sentivo di non buttare via il tempo».
Quanti anni è durata questa situazione?
«È durata dal ’75-’76 fino all’ ’81-‘82 quando incontrai Mogol che, in realtà, mi cercò perché era appassionato di calcio e voleva fare una squadra. Ma poi scrisse una canzone per me e tutto ripartì». Tu eri in Italia, in termini di popolarità, ciò che i Beatles erano in Inghilterra. Cosa fu vedere precipitare tutto questo all’improvviso?
C’erano stati segnali?
«Sì, prima nel ’69-’70, quando andavo a fare le serate trovavo già fuori dei gruppi di ragazzi che dicevano “Vai a cantare per i borghesi! Tu sei un compagno, ma canti per i ricchi, noi invece non abbiamo i biglietti”. Una volta feci un concerto ad Aulla, c’erano fuori trecento ragazzi, sono dovuto uscire da un tetto. Erano anni difficili. Furono i primi segnali. Poi andai al Cantagiro. Era l’edizione in cui Radaelli, ogni sera, aveva un artista importante: Tina Turner, Donovan, Sam & Dave, una volta addirittura Aretha Franklin. Poi arrivarono i Led Zeppelin e successe l’inferno.
Quando arrivammo a Milano ero molto spaventato, perché sentivo che c’era qualcosa nell’aria. Era il 5 luglio, si vedevano fuori già da giorni dei ragazzi con il sacco a pelo che mi sembrarono improvvisamente sconosciuti, inediti. Io conoscevo la generazione beat, che comprava i miei dischi, conoscevo i ragazzi che avevano fatto il militare con me, tutta un’altra cosa. Ma questi erano i nuovi giovani, parlavano lingue nuove, volevano nuova musica, avevano voglia di cambiare il mondo. Ero terrorizzato, al momento di salire sul palco.
C’erano Milva, Lucio Dalla, persino i Vianella. Radaelli era stato un pazzo a pensare che potessero convivere i Vianella e i Led Zeppelin… Fischiarono tutti, anche Lucio. Quando arrivai sul palco esplose un boato, mai sentita una cosa del genere. Radaelli mi guardò sorridendo: “Vedi che accoglienza ? E tu avevi paura”. Non aveva capito. Era un boato al contrario: un gigantesco, stentoreo, definitivo, collettivo “ No”». Cosa cantavi lì? «Ti facevano fare un piccolo medley. Io avevo C’era un ragazzo, Here’s to you, pezzi che immaginavo in sintonia, anche politica, con quei ragazzi. Ma non bastò. Pensai di iniziare con C’era un ragazzo. Da sotto mi urlavano solo “ Vai via!”.
Cominciarono ad arrivare pomodori, di tutto. Distrussero il palco. Quaranta milioni di danni. Lì si capì che era cambiato tutto. Uno spartiacque. Dopo tentai di fare delle cose, ma non funzionavano. Migliacci, il mio produttore, aveva scritto delle grandi canzoni, ma ora era smarrito, indeciso. La stessa Rca si sentiva che non aveva più un grande progetto che mi riguardasse. Quando entravo negli studi sulla Tiburtina, prima, era come se entrasse una divinità. Ora mi guardavano come imbarazzati. Poi, dalle sale di registrazione, si sentivano note e parole nuove. Battisti, che in quegli anni alla Rca cominciava ad esplodere. E poi tutti gli altri: erano i primi anni di Renato Zero, di Cocciante e dei nuovi cantautori, Lucio, De Gregori, Venditti, Baglioni… Tutti lì, alla Rca. Celebrati come noi solo qualche anno prima».
Sono stati anni amari…
«Tentammo di fare un musical che si intitolava Jacopone da Todi, pensando che così avrei mostrato una mia nuova immagine. Peggio che peggio, ci rimisi anche un sacco di soldi. Intorno al ’74-’75 ero già in crisi con mia moglie, le cose non andavano. Sembrava ci fosse solo buio. Mi chiedevo: “Io adesso cosa faccio?”. Perché non sapevo fare niente, sapevo fare il ciabattino. Ma potevo rimettermi a fare il ciabattino? Quattro soldi ce li avevo perché mio padre mi aveva insegnato a metterli da parte. Sia per pagare le tasse, sia per il futuro, “perché tanto questa cosa finisce”.
Queste parole un po’ mi aiutarono, mi avevano fatto comunque stare con i piedi per terra, quando tutto sembrava in rosa. Aveva ragione mio padre, doveva arrivare quel momento. Ma, quando sembravo immerso in un gorgo, arrivò il Conservatorio. Mi ricordo l’esame di ammissione. Avevo solo la quinta elementare, così sostenni l’esame serale per prendere la terza media. Scrissi un tema su Beethoven, che mi ero studiato bene. Quegli anni difficili io li ho presi sul serio. Era un momento delicato per me, perché mio padre era morto, proprio nel ’71».
Morì durante una tua tournée…
«Quell’estate, a Ferragosto, Aragozzini mi chiese di andare a fare uno spettacolo a Caracas. Aragozzini ci aveva già accompagnato in Giappone nel ’64 insieme a Gianni Boncompagni, che faceva il fotografo. Eravamo un gruppo di italiani: Nico Fidenco, Jimmy Fontana, io, Michele, Jenny Luna, Gino Paoli, Gianni Meccia. Una tournée trionfale. Musica italiana con i giapponesi che cantavano i nostri testi. Aragozzini mi chiese di volare in Venezuela a fare un mio spettacolo.
Andammo. Io però avevo una serata il 21 agosto in Sicilia, a una festa di patrono. Avevo due biglietti a disposizione. Decisi di portare mio padre. Lui non era mai andato in aereo, mai andato in America. Per lui era una curiosità. Voleva vedere com’era la culla del capitalismo. Prima di partire, l’11 agosto, venne Stefano Bonaga. Lui, tra l’altro, era nipote di Enzo Biagi. Venne a Monghidoro a parlare con mio padre. Discutevano fitto di politica, Bonaga era più giovane, fresco, frizzante, mio padre invece era un conservatore, ortodosso, addirittura era stato stalinista. Questo mi viene in mente adesso, parlando con te. Partiamo, mio padre emozionato. Facciamo la serata, ma lui non era molto contento di come mi avevano accolto. Era stata una serata strana, c’erano un po’ di italiani, un po’ di venezuelani, ma freddini. Papà non era contento.
Aragozzini gli dice “Io vado a New York, perché non vieni con me ?”. Rassicurai mio padre: “Vai, io devo tornare perché ho questa serata a San Salvatore di Fitalia”. Così lui rimase e io tornai in Italia. Adriano e mio padre dovevano salire su un aereo il 17 mattina. Mio padre non lo prese. Morì di infarto nella notte. Cazzo, sono a casa mia a Tor Lupara con i musicisti a provare il concerto e arriva questa telefonata.
Mi è crollato il mondo. Aragozzini lo ha riportato, fu molto gentile. Quando ho visto il volto di mio padre, la bara si apriva all’altezza del viso, ho ripensato ai suoi sacrifici e ai suoi sogni. Tutti e due grandi e belli».
Quindi nello stesso periodo muore tuo padre, ti separi da tua moglie e conosci una crisi professionale. C’era motivo di sbandare…
«Niente alcol, niente droghe. Magari giocavo a carte, in quel periodo difficile».
Per cercare di vincere, almeno al tavolo verde?
«Probabilmente sì. C’era un gruppo, a Roma. Un ristoratore, uno della Lazio e giocavamo. E mi ero fissato, pensavo davvero di fare il giocatore. Sai, quei momenti di sbandamento. Perché era troppo. Era stata una cosa così netta, così violenta, improvvisa che, pur avendo le spalle da contadino piantato coi piedi per terra, anche io vacillavo…».
Però avevi anche 27 anni…
«Ma era da quando avevo tredici anni che giravo e avevo cominciato ad essere autonomo. Non dovevo sbagliare. Per fortuna quel momento durò poco, perché poi mi capitò una disavventura sul gioco: mi misero in mezzo, persi una cifra notevole, mi spaventai e riuscii a smettere. Forse il Conservatorio mi ha aiutato, anche in questo».
Abituato a fare tutti i giorni delle serate, cosa facevi quando finivi di studiare ?
«Dovevo studiare: lezioni di teoria, di contrabbasso, di storia della musica, di solfeggio… E, minimo, dovevo stare due ore sul contrabbasso. Il contrabbasso, se tu lo senti nella grande orchestra è fondamentale, ma da solo… Mi facevano fare questi esercizi, poi le scale, infinite volte, e non veniva mai, non sembravi mai intonato. Io lì mi sono affinato proprio nell’intonazione. Grazie anche a Quinzio Petrocchi, un professore di canto corale appassionato di Bach che poi morì assurdamente in India, schiacciato da un elefante.
Quando cantavamo insieme Lucio mi diceva “Ci hai rotto i coglioni, sei troppo intonato”. Lucio ha eseguito Vita insieme a me. Gli dissi: “Lucio, ma così è stonato!”. Lui mi rispose: “La gente vuole anche le cose sporche. Non gliene frega nulla dell’intonazione”. Io ero preciso, persino troppo. L’ho cantata dieci volte, ma non avevo il feeling. Ero intonato, ma lui le dava anima. Anche nella tournée con Baglioni ho pensato: questo me lo mangio. Invece siamo arrivati sul palco. Micidiale. Ha una potenza vocale invidiabile. Ogni volta che facevamo una nota acuta io lo sfidavo tenendola al massimo della lunghezza. Lui mi guardava per dire: dove vai? E se io smettevo, allora dopo due secondi smetteva anche lui. Claudio mi diceva: io ti invidio l’intonazione. Anche lui. Il merito era del contrabbasso…».
Ricordi il primo concerto che hai fatto nella nuova vita?
«Era al teatro Aurora a Roma. Fausto Paddeu, un impresario, un giorno mi disse: “Facciamo questi spettacoli, invitiamo un po’ di gente, poi d’estate le feste de l’Unità”. Mi dispiaceva lasciare il Conservatorio, avevo acquisito conoscenza, sicurezza e anche i professori ora mi salutavano col sorriso. I soldi erano sufficienti, non sono uno che spende tanto, la casa l’avevo già pagata. Insomma, resistevo. Ma cantare era la mia passione.
Al teatro Aurora facciamo questa serata che si chiamava Cantare. Paganti ottanta. Allora io chiamo tutti i miei amici di Tor Lupara, loro vengono in massa. Avevo un mio amico che mise un banchetto con le cassette degli Anni 70 e 80. Le vendeva a cinquemila lire. Ne smerciò due. Dovevamo stare due settimane, la seconda serata avevamo cinquanta paganti. Facevamo molta fatica, però fu una bella esperienza. Facevo questi concerti, vedevo la gente per strada che mi riconosceva, però avevo la sensazione che mi guardassero non dico con commiserazione, ma quasi. Come a dire “ma questo, che fine ha fatto?”. Avevo questa sensazione, ma forse ero io, ero io dentro. Però mi sentivo vivo».
Poi arriva Canzoni stonate…
«Tra una partita e l’altra Mogol scrive questo testo. Aldo Donati aveva una melodia e andammo da Melis, il geniale patron della Rca, con la canzone. Per dirti com’era feroce Melis… Ascolta, dice che è bellissima, e poi, guardando solo Mogol “allora: la passo alla Ferri, ti faccio sentire io come viene”. Melis era brutale, ma lo apprezzavo. E spesso aveva ragione. Rimasi molto male e Mogol disse “ma è un bravo ragazzo… rifacciamo l’arrangiamento, proviamo”. Chiamò Shel dei Rokes a lavorarci. Lui l’ha ammorbidita e l’ha fatta diventare una bella canzone. Però non succedeva niente, dal punto di vista delle vendite.
Mogol poi scrisse qualche altro pezzo e cercammo di mettere insieme un album. Mimma Gaspari, allora capo ufficio stampa, tifava per noi e caldeggiò la promozione del disco. Melis disse: “ Va bene, ci lavori, se vende ventimila copie le diamo un premio”. Diciassettemila, ne facemmo. Renato vendeva un milione di copie, Lucio lo stesso, Baglioni non ti dico, io diciassettemila copie. Però fu un piccolo segno. Cantavo alle feste de l’Unità, ma quando cominciavo Canzoni stonate, la gente restava incerta perché era delicata, diversa da quello per cui ero conosciuto. Mi urlavano sempre “Facci La fisarmonica!”».
In quel periodo inizia la prima serie televisiva… «Era la storia di un uomo separato dalla moglie con i figli che rimangono a vivere con lui. Il regista, Murgia, cercava il protagonista e una segretaria della Rai disse “prendete Morandi: è separato, i figli sono con lui. È la sua storia”. Il regista insistette. Ma io volevo ancora diplomarmi, anche se poi sono arrivato a un centimetro ma non ce l’ho fatta, e stavo ricominciando a cantare. Alla fine mi convinse e firmai un accordo per farlo in due mesi. Voglia di volare andò in onda ed ebbe un grande successo. La gente, a casa, probabilmente mi ha rivisto lì e ha pensato fossi tornato, come Ulisse. Poi girammo il secondo, Voglia di cantare. Era la storia di un cantante in crisi che ritornava. Usammo Uno su mille. Musica e televisione, intrecciati, mi fecero ritrovare un pubblico largo». Quanto vendette ? «Vendite enormi, no. Tre, quattrocentomila. Non un milione di copie, ma neanche le diciassettemila dell’album precedente o le due cassette del teatro Aurora…».
Nella prima fase quanti dischi hai venduto?
«Penso tra i ventotto e i trenta milioni, ma anche di più. Poi c’è tutto l’estero che sfugge al controllo. Io ero fortissimo in Sudamerica. Una volta io e Jimmy Fontana, lui con Il mondo e io con Non son degno di te, arrivammo in Argentina. Ci accolsero come due star. E così in Brasile, Perù, Venezuela. Poi tutti i Paesi dell’Est, come la Russia, la Bulgaria. Anche lì stampavano milioni di dischi, ma non pagavano nessuno». Torniamo agli inizi. Quando hai capito che potevi farcela? «Mah, intanto io non ho mai avuto la fiamma della musica. Un po’cantavo con mio padre, mio padre era un canterino».
Cosa cantava?
«Gli piaceva moltissimo Solo me ne vo per la città. Poi un po’ di Fred Buscaglione, Natalino Otto che cominciava a fare lo swing. Lui batteva sempre il cuoio, perché prima di risuolare le scarpe la pezza di cuoio va indurita, e quindi, mentre batteva, cantava. Avevamo un libretto con i pezzi di Sanremo e li cantavamo insieme».
Com’era Monghidoro allora ?
«Era uno dei quattro comuni emiliani amministrati dalla Dc. In piazza c’era sempre conflitto, specie con il macellaio fascista. Erano quegli anni… Il prete una volta mi mandò via dalla processione, il venerdì santo. Non andavo a messa, mio padre non mi mandava. Mentre la nonna era supercattolica. Mi portava sempre la dottrina e mio padre la nascondeva. E lei me ne portava un’altra. È andata avanti così, per anni».
Tuo padre com’era ?
«Un uomo rigoroso e generoso. Mi mandava a fare la spesa e mi dava i soldi contati. Centosettantacinque lire per sette etti di pasta, venticinque lire l’etto. E cento lire per il macinato. Erano le monetine da cinque lire, quelle con il pesce sopra. Papà era il responsabile della diffusione de l’Unità. E di nove testate del partito. Aveva sempre tutto scritto, su un quadernetto. Serissimo, era fantastico. Mentre andavo a fare la spesa fischiettavo per strada e c’era il barbiere, Lino Lanzoni, che mi ascoltava. Ogni tanto mi metteva sul seggiolino e mi faceva fischiare. Cominciai così».
“C’era un ragazzo” come ti arriva da Mauro Lusini?
«Venivamo da successi enormi. In ginocchio da te vendette un milione e quattrocentomila copie, Non son degno di te più di un milione, Se non avessi più te settecentocinquantamila. Riunione: “Dove abbiamo sbagliato?”. Pensa oggi se uno vendesse settecentocinquantamila copie di un disco, fiumi di champagne… Era troppo raffinata. E quindi avevo fattoMa quando si fa sera grande successo anche quello, Notte di Ferragosto. Arriva Migliacci: “Sai che oggi ho sentito una canzone fantastica? Ho scritto i testi in cinque minuti”. L’autore era Mauro Lusini, da Siena, e la cantava in inglese maccheronico. Le parole non avevano senso, ma Rolling Stones ce l’aveva già messa lui.
Migliacci scrive il testo di getto: C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones, girava il mondo veniva da. Mogol dice sempre che, quando la musica è giusta, le parole sono già dentro. Mi vengono i brividi ad ascoltare questa canzone: “La devo cantare io”. Ma Franco mi ricorda che io cantavo In ginocchio da te e La fisarmonica.“Non puoi parlare di un morto nel Vietnam.! Stiamo scherzando?”. Io mi impunto: “La devo fare a tutti i costi”. Mauro Lusini, giustamente, voleva inciderla. Decidiamo di farlo tutti e due. Arriviamo a questo compromesso. È stata la prima volta che mi sono impuntato, prima avevano fatto tutto loro. Poi ci sono state le censure, dovevamo dire ta-ta-ta invece di Vietnam…».
Qual è il giorno della tua vita che vorresti rivivere ?
«Ne ho vissuti talmente tanti… È difficile sceglierne uno. Quando prendevo la corriera da Monghidoro per andare a Bologna, anche se mi faceva male allo stomaco, con tutte quelle curve. Il giorno che è nata Marianna o quello in cui ho conosciuto mia moglie Anna. O la maratona di New York. Ti sembrerà strano, ma, quando sono arrivato, ho avuto un attimo di esaltazione».
E qual è il giorno che invece non vorresti rivivere?
«Il giorno della morte di mio padre, sicuramente. Il primo choc grande della mia vita. Anche, professionalmente, la serata dei Led Zeppelin mi ha ferito. Però ho capito che nella vita serve anche il dolore».
Tu, in questo tempo livido, dai l’impressione di essere una persona felice, anche nell’uso dei social.
«Sono sempre stato abbastanza ottimista, positivo, ho sempre trovato del buono, anche nei momenti meno felici. Adesso con i social non ho fatto altro che essere me stesso. Quando ho messo la prima foto, in cui sbucciavo i fagioli, è successo un casino. Ne ha parlato persino il telegiornale. Allora mi sono accorto che la gente ha talmente voglia di sorridere… Quando io in teatro non voglio cantare Fatti mandare dalla mamma, le persone ci rimangono malissimo. Tu la canti e loro sorridono. Se puoi dare allegria, perché non farlo?
La gente ha bisogno di leggerezza. Forse perché è appesantita da tanti problemi. Vivere oggi è difficile, la vita di ognuno è impegnativa. Io mi ritengo un fortunato. Il treno è passato molte volte per me. Se anche ho perso il primo, poi è passato il secondo e il terzo. Rimango diciotto anni senza essere sposato, poi incontro Anna, che mi dà un entusiasmo enorme. Di cosa posso essere invidioso o deluso?».
Che cosa non ti piace del tempo che stiamo vivendo?
«La maleducazione. Il non rispetto dell’uno con l’altro. Cristo diceva ama il prossimo tuo come te stesso. Basterebbe, ma non ce la facciamo. Mio padre mi diceva sempre che io dovevo lavorare, perché il lavoro nobilita, e dovevo lottare, essere una persona onesta e soprattutto rispettare il prossimo. La maleducazione lui non la sopportava. Oggi vedi troppa gente egoista, capace solo di pensare al proprio giardino. È così bello aiutarsi, sentirsi squadra. Invece non sappiamo ascoltarci. Mentre io parlo con te non ti ascolto, sto già pensando a quello che ti voglio dire io, è tremendo. Invece se ti abitui ad ascoltare, è molto più bello. Io ho sempre fiducia che i nuovi ragazzi ci salvino. La speranza arriva sempre da loro».
Qual è la canzone che ti sarebbe piaciuto scrivere?
«Canterò Futura, nello spettacolo a Bologna. Mi sembra enorme, quella canzone. Mi commuove, ogni volta».
Intervista a cura di Walter Veltroni per Sette – Corriere della Sera