Io non appartengo…..

20 Apr 2015 | 0 commenti

E’ sdraiato contro una porta laterale della chiesa, raccolto su se stesso, quasi si confonde.

Mi colpiscono i sandali che indossa, rabberciati col filo, le calze spaiate di lana grossa da cui sbucano gli alluci come rami contorti, i pantaloni laceri e macchiati.

Ha una barba rossiccia, gli infesta il volto, aggrovigliata come lana di materassi . Due occhi piccoli e affossati che appena si distinguono fra le orbite, una rete di rughe annerite dai peli e dallo sporco.

Gli allungo d’istinto quello che ho in tasca; lui, mentre alza il cappello mi guarda, sento il suo guardo scivolarmi addosso e fissarsi sui gradini.

Un solo soffio di voce: … io non appartengo… poi più nulla, già io proseguo per la mia strada.

 

Ho poi riflettuto: non ha detto ho fame, ho bisogno, mi aiuti. Ne’ ha sciorinato il solito calvario di invalidità, figli ammalati, disoccupazione, ecc. Anzi l’impressione che avevo ricevuto, a dispetto delle condizioni miserrime in cui l’uomo versava, era stata quella di grande dignità.

Io non appartengo è una frase forte e piena di significati. Non è l’ammissione di essere in stato di bisogno, né un preludio alla questua, non è nemmeno una richiesta, che in effetti non c’era stata.

Né tanto meno l’uomo ha esibita una pretesa, come succede spesso da parte di chi dice abbiamo fame, quasi a volere denunciare una condizione di per sé idonea.

Io non appartengo è insieme causa ed effetto di uno stato di indigenza che postula lo stesso come connaturato, più che ai propri demeriti o alle avversità della vita, ad una condizione sociale: c’è chi appartiene e chi no!  Visto così il problema, ne discende che radici e giustificazione di tale condizione esistenziale affondano nella società e nella sua organizzazione. L’appartenenza o meno è il discrimine fra chi ha o non ha diritti, dignità, opportunità.

Stare fuori, non avere cittadinanza, non godere di parrocchie o padrini, essere senza reti di protezione, legami di sangue e di connivenze, essere lì nudi senza potere vantare altro che il nostro esserci, questa è la condizione che ho avvertito per un attimo nelle parole di quell’uomo.

Relegati in questo stato di cose non ci si appella, che dico ai diritti, ai sacri princìpi, ma nemmeno al buon cuore, forse a quel medesimo che sopravvive di identità umana.

Il fatto che non gli abbia chiesto che cosa volesse dire dimostra quanta parte di realtà oggi sfugga al nostro sguardo pigro di persone abbienti, che invece appartengono.

 

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