STORIE DI SPORT. NE «LA CADUTA DEI CAMPIONI» LE TRAIETTORIE DI DIECI ATLETI DESTINATI AL SUCCESSO CHE COME ACROBATI SUL FILO, TRA LA GLORIA E L’ABISSO, SONO CADUTI O HANNO SCELTO DI CADERE
A dispetto di tutte le apparenze, un evento sportivo è un prodotto a lunga conservazione. A prima vista effimera come la cronaca, una volta evaporata l’adrenalina la gara lascia in eredità una scia di fenomenologia umana tutta da studiare. Sono i talenti più puri dello sport, i funamboli alla George Best, gli asceti alla Marco Pantani, i giocolieri alla Antonio Cassano a farci interrogare sui misteri più insondabili che legano insieme sport e zone d’ombra della nostra esistenza. Si tratta infatti di atleti che madre natura ha dotato di capacità sportive rare e raffinate, ma che alla lunga hanno perso il contatto con la realtà, fino ad autodistruggersi o a cambiare radicalmente, spesso in peggio, la traiettoria della loro scintillante carriera.
l’Ultimo Uomo (sì, con la l minuscola), rivista online di sport con licenza di escursione nella letteratura e nella sociologia, ha ripercorso le traiettorie di dieci grandi talenti dell’agonismo sportivo, alcuni noti, altri meno, sospesi, come acrobati sul filo, tra la gloria perenne e l’abisso. Fondata nel 2013, l’Ultimo Uomo racconta lo sport con un taglio originale. C’è spazio per narrare anche le storie dei piccoli protagonisti, di chi lotta per non retrocedere e poi soccombe con onore, di chi tiene un piede sui campi di gara e uno ancorato all’esistenza dei comuni mortali.
La caduta dei campioni, prima raccolta di racconti targata l’Ultimo Uomo, è il frutto del lavoro di una squadra piuttosto eterogenea: giornalisti, economisti, storici dello sport, romanzieri che non vivono solo di cronaca, tattica e statistica, ma che amano intingere la penna nell’inchiostro della bella pagina letteraria, e indossare le vesti degli esploratori dell’animo umano. E cosa c’è di più interessante, da indagare, di gente che dissipa il proprio talento in maniera assurda, come se non gliene importasse nulla? Oppure di atleti che hanno avuto in dono il talento sufficiente per arrivare alle massime competizioni internazionali, ma che poi non hanno avuto l’ossessione di competere?
Negli occhi di chi legge si specchiano dieci storie di uomini di sport, scritte con dieci stili diversi. C’è Adriano, il gigante buono dell’Inter, il centravanti di sfondamento che all’ossessione del denaro e della fama preferì il ritorno alla vita con gli amici nella favela, e il non doversi più sbronzare a Milano per ingannare la nostalgia. Un brasiliano tutto sommato anomalo, Adriano, che preferiva la potenza al dribbling, la vecchia arma sviluppata dai calciatori neri per evitare tackle violenti che l’arbitro non avrebbe fischiato a loro favore. Si trattava di aggirare simbolicamente ma anche praticamente, ricorda Daniele Manusia, autore del capitolo, le regole che impedivano la scalata sociale ai discendenti degli schiavi. Adriano era soprannominato Dinamite e Imperatore, era forte e potente, si muoveva con l’agilità dell’orso polare che scivola sul ghiaccio, non aveva bisogno di ingannare se stesso con falsi stili di vita.
Per raccontare Marco Pantani, e spiegare gli abissi dell’animo del ciclista di Cesenatico, Matteo Nucci ricorre invece all’epos tragico, al paradigma antico, a Omero e Platone. Rispetto, dignità e onore sono necessari alla gloria. Allo scalatore che ci ha fatto sognare davanti a ogni montagna mangia-ciclisti, rispetto, dignità e onore sono all’improvviso venuti meno. E allora ecco Marco che, lucidamente, dall’esterno, diventa testimone consapevole della propria corsa verso l’abisso. Agli antipodi rispetto alle vette dove, in prossimità del traguardo, sembrava volersi confondere, dissolversi negli elementi, nelle nuvole, nel sole, nella pioggia.
E poi ci sono le tristi traiettorie dei predestinati traditi dal destino, che il tempo ha seppellito nell’oblio. Chi si ricorda di Bojan Krkic, il ragazzino che lasciò la cantera (fucina, ndr) del Barcellona con il record di 900 gol segnati tra partite ufficiali e amichevoli, più di Messi, più di tutti nel settore giovanile blugranata? Sembrava avere l’arroganza dei grandi giocatori e invece, scrive Emiliano Battazzi, lasciato il Barcellona inizia l’esodo verso la normalità. La svolta verso il basso arriva ad appena 17 anni, quando, in vista dell’esordio in nazionale A, ha un attacco di panico. «Ero un ragazzo molto sensibile. La pressione, giocando in una grande squadra, mi ha sormontato. Nel calcio non c’è spazio per le debolezze». È così che Bojan Krkic diventa la storia di un enigma. La storia di un bambino prodigio, e del trascinatore di tutte le nazionali giovanili spagnole. Poi, il nulla.
Alcuni atleti, già di fama mondiale, o che sembravano predestinati a esserlo, oggi vivono solo nella memoria degli appassionati di sport. Come la nuotatrice lituana Ruta Meilutyte . «Sono pronta a un nuovo capitolo della mia vita: voglio studiare e vivere di cose semplici. Crescere, conoscere, conoscere me stessa e il mondo» ha detto al momento del ritiro, a 22 anni, la ragazza che a 17 anni nuotava più veloce di tutte al mondo. «Improvvisamente – scrive Giuseppe Pastore – l’armonia psicofisica in cui ha galleggiato per 3 anni sparisce e non torna più, come un supereroe senza più il mantello».
E poi c’è Marat Safin, tennista russo, numero uno al mondo per tre mesi all’inizio del millennio, grande, isterico massacratore di racchette dopo ogni errore sotto rete. Un’eleganza innata, la sua, che nascondeva la violenza dei colpi. «Un talento fragile come un’orchidea, bello e triste» lo definisce Emanuele Atturo. Safin si ritira a 29 anni, per lui si aprono le porte del Parlamento russo. «Non sono pazzo, è solo che vivo ogni minuto» ama dire. E poi: «La felicità è non pensare alla felicità». Forse ha ragione lui.
Alfredo Sessa, Domenicale del Sole 24 Ore