LE CASE DELLA VITA, PALAZZO RICCI IN VIA GIULIA E PALAZZO PRIMOLI(OGGI MUSEO) IN ROMA, DIMORE DEL CRITICO MARIO PRAZ, NELLA DESCRIZIONE CHE EGLI NE FA, TESTIMONIANZA E GUIDA ERUDITA ALLA RICERCA DEL BELLO E DEL BUONGUSTO.
IL COLLEZIONISMO E’ UN VIZIO, SODDISFA L’ISTINTO DEL POSSESSO, ESSO SI SOSTITUISCE ALL’EROTISMO- AVERE UN CERTO MOBILE CHE HA ARREDATO LE STANZE DI MARIA ANTONIETTA PUO’ DARE UN BRIVIDO ANCHE AD UN ANIMO PIU’ DELICATO. PAGINE SCELTE DI LA CASA DELLA VITA, PRECEDUTE DAI RICORDI DI ALBERTO ARBASINO, MAURIZIO CALVESI E ALVAR GONZALES PALACIOS.
Nonostante l’età (sono state scritte nel lontano 1958) non annoiano, alla lettura, le oltre 400 pagine di La casa della vita, di Mario Praz.
Praz, nato a Roma nel 1896, da padre impiegato di banca e da madre nobile, laureato in legge e in letteratura, poliglotta, fu saggista, critico d’arte e appassionato collezionista, esperto di letteratura inglese dal 1600 alla fine del ‘800, ma anche di quella spagnola, russa e francese. Morì a Roma nel 1982. Non si impegnò nel dibattito pubblico, anche se viene ricordata la sua critica alle posizioni estetiche di Benedetto Croce. Dopo la guerra finì in parte emarginato, ad opera dei crociani e per la diffidenza nei suoi confronti degli antifascisti.
La Casa della vita è uno strano libro in cui, dietro il racconto delle magnifiche stanze addobbate secondo lo stile Impero, caro a Praz, emerge continuamente, dissimulata e reticente, la biografia intellettuale, e non solo, dell’autore. Già l’assenza nel titolo del possessivo mia è inusuale, non trattandosi di una “generica” vita, ma quella, unica e irripetibile, dell’autore. Sicché, oltre all’erudizione del fervente antiquario, l’obiettivo di descrivere minuziosamente, stanza dopo stanza, le case in questione, si trasforma inevitabilmente in rievocazione fra autobiografia e storia dei luoghi e dei tempi, in un affresco ancora ricco di fascino dell’Italia fascista e della ricostruzione post-seconda guerra mondiale. Ma chi era Mario Praz? Così lo descrivono tre illustri contemporanei.
ALBERTO ARBASINO: “Il Professore, così come noi l’ avevamo conosciuto negli anni Cinquanta, era un personaggio solitario ed estremamente gentile. Viveva, circondato di bizzarre leggende, in una casa che dicevano assomigliare ad un monumento funerario – si trattava del famoso appartamento di via Giulia, pieno di bronzi e di cornici dalle dorature lucenti, di mobili lustri, di quadri e acquerelli dai colori pastello, della ricchissima biblioteca dalle meravigliose rilegature, di incantevoli porcellane di un mondo di curiosità e di testimonianze appartenute alla vita elegante del XIX secolo, epoca che l’ esuberanza di Napoleone ha reso una tra le più ‘ giovani’ ! “La sua casa e i suoi saggi smentivano i fantasmi di quello stile Impero, ciarpame polveroso e sinistro, che fa da sfondo ai racconti della seconda metà dell’ Ottocento, soprattutto inglese: le case del mistero, abitate da vecchi maligni e bisbetici… Come se gli autori dell’ età vittoriana vivessero, dal canto loro, in ambienti gai, tra una mobilia ridente! “Il collezionismo del Professore non raccoglieva opere troppo importanti, che fossero oltre la portata delle possibilità offertegli dallo stipendio universitario e dalle scoperte presso gli antiquari fuori del circuito della moda. Ma le centinaia di oggetti in stile perfetto e di gusto squisito – frutto di un’ erudizione sterminata e di una vertiginosa preveggenza – creavano attorno al Padrone di Casa una atmosfera piena di fascino, e costituivano un degno parato per l’ arte infinita della sua conversazione.
MAURIZIO CALVESI: “… Fisicamente, Mario Praz era un uomo molto brutto. Zoppicava leggermente. Era cupo, con un viso tetro e molto sinistro. In più, era contraddistinto da una celebre nomea: gli si attribuiva un potere malefico. Ancor oggi nessuno, qui a Roma, pronuncia mai il suo nome, perché tutti sono persuasi che questo nome potrebbe provocare una catastrofe. “Egli era perfettamente consapevole di questa diceria e, in un certo senso, ne era contento. Se ne serviva. Gli piaceva essere temuto e coltivava la leggenda che gli attribuiva la facoltà di gettare il malocchio e di portare sfortuna. Poiché era di natura assai lugubre ed aveva un temperamento aggressivo, aveva contribuito a rafforzare la sua immagine di uomo poco socievole e poco disposto alla comunicazione e alla convivialità.
ALVAR GONZALES PALACIOS: “… Tra gli antichi egizi, la casa della vita non era altro che la tomba. “Praz, io credo, avrebbe voluto morire come Sardanapalo, dando fuoco attorno a sé a tutte le cose care, sgozzando i più bei puledri, strangolando una dopo l’ altra le bellezze che lo circondavano, purificando tutte queste vanità in un rogo allegro e sinistro… “In un certo senso, fu quel che successe: pochi giorni dopo la sua morte, mi chiamarono per verificare, nei limiti dei miei ricordi, l’ entità del furto commesso da ignoti nel suo appartamento. Lo spettacolo era sconvolgente. Aperta la porta di mogano, si presentò ai miei occhi la vista di una stanza saccheggiata e profanata. “I ladri avevano portato via un centinaio di oggetti e lasciato uno spaventoso disordine. Dappertutto, brandelli di carta da imballaggio, mobili rovesciati, suppellettili sparpagliate in tutti gli angoli… Vidi i fiori di seta, che una volta ornavano le anfore di opalina e di bronzo dorato del camino presso il quale tante volte ci eravamo seduti a conversare, sparsi come il rito di una messa nera. Pensai che un simile spettacolo dovette offrirsi agli occhi di Carter quando fu abbattuta la pietra che sigillava la tomba di Touthankamon…”
Non essendo possibile sintetizzare la profusione di dettagli e osservazioni in tema di stili e arti minori, né della qualità di affreschi, consolle, soprammobili, busti marmorei e putti in silhouette, biblioteche Regency, armadi a losanghe e palmette, lampadari in bronzo o cristallo, vasellame, vassoi, carte da parati e tapisserie, ventagli, ecc. ecc. che Praz descrive con acribia, vi rimando volentieri alle numerose foto d’insieme dei diversi ambienti.
Leggo, infatti, nella versione accresciuta, edita da Adelphi nel 1979, arricchita da 27 tavole fuori testo, che riproducono le stanze delle case in cui Praz visse. L’indice delle persone e delle materie lungo ben 15 pagine dice della ricchezza, in poco caotica-né poteva essere diversamente,-dei fatti e dei ricordi che Praz restituisce, con uno stile per nulla pedante e un lessico corrente.
Nell’invitarvi alla lettura integrale del testo, mi limito a riportare, precedute o intercalate da un breve commento, alcune delle pagine che mi hanno particolarmente colpito, per il contenuto autobiografico e la vivacità delle descrizioni (fra parentesi il numero della pagina). Ho cercato, per quanto possibile, di dare un senso cronologico alla presentazione.
Due paia d’occhi azzurri (pagg. 121 e segg.)
Se gli occhi in questione sono quelli di una madre, è facile che il ricordo si trasformi in carezza. Qui però essa si carica di un contenuto metaforico che è la promessa di quell’erotismo che poi Praz troverà nelle donne della sua adolescenza, con quella bellissima immagine delle donne liberty che chiude il brano.
“Erano i primi anni del secolo, e la vita sembrava allora molto lieta; o forse era così lieta solo nel ricordo, perché è il ricordo che crea il tempo felice. Sua madre gli dava la buonanotte, a lui coricato, e con un bacio si faceva perdonare lo svago che si prendeva senza la compagnia del figliolo (davvero stavano troppo insieme); e nel curvarsi su di lui, la luce della lampada sul comodino le aveva colto gli occhi nel suo alone, e gli occhi avevano scintillato come le gemme della parure, erano apparsi come pietre preziose che pensassero.
La straordinaria qualità di quegli occhi era d’unire due virtù in apparenza opposte, la morbidezza del velluto e o scintillio prezioso, adamantino delle gemme. Lui, di quegli occhi, sentiva solo la carezza e la luce; apprese poi che altri ne sentiva il fuoco….. Chinava la fronte su di lui già invaso del primo sopore; egli ricordava la magnifica acconciatura, le perle morbide come lo sguardo, i brillanti pieni di scintille come quello sguardo, e la veste magnifica di danza, come calice di quel fiore che emergeva con bianche spalle e candida fonte; quella veste che più tardi aveva veduto sgualcita e impallidita in un armadio, e poi era rinata improvvisamente alla sua vista nei quadri di Boldini o di Sargent, chè le donne dell’epoca liberty eran tutte come dondolanti fiori sui prati d’un mondo sereno.”
Conoscenza con Croce (pagg. 136 e segg.)
Il tono ironico e un poco beffardo del brano svela un aspetto del carattere di Praz, non certo propenso alla adulazione, e piuttosto scettico nel riconoscere prestigio o ascendente a chiunque. C’è da dire che, come ogni ricostruzione a posteriori, la natura del suo rapporto col filosofo napoletano va presa col beneficio di inventario. Purtuttavia, essa è degna di nota, perché, più che confermare la nota diversità di opinioni estetiche fra i due, Praz insiste per ribadire la lontananza da un mondo che non è mai stato il suo, nemmeno in gioventù, sotto l’ombra del più autorevole e riverito filosofo italiano del ‘900.
Nell’aprile del 1925 feci conoscenza personale di Croce a Napoli, nel suo palazzo di Trinità Maggiore 12: ricordo un cortile un po’ fatiscente, dove un pittore di angoli pittoreschi d’Italia, nei secoli scorsi, avrebbe trovato il fatto suo, tanto più che, se la memoria non m’inganna, c’era anche una capra. O forse la capra ce l’ha messa a mia immaginazione, ma non era certamente immaginaria la pittoresca schiera di “vaccarielli”, ossia di seguaci e ammiratori del Croce che mi presentò al lavar della mense: napoletani entusiasti e trasandati, alcuni dei quali forse erano giovani, ma l’abito filosofico o filo-filosofico conferiva a tutti un aspetto uniforme di gente grigia, occhialuta, brizzolata, scalcagnata e fervida. Tutti pendevano dalle labbra di Croce, che raccontava aneddoti spiritosi. La sera, dopo cena, seguivano Croce nella passeggiata costituzionale che gli era prescritta dal medico; s’arrivava zampa zampa (come si dice a Firenze, ossia a passi lenti e gravi) fino a San Francesco……Forse Croce mi vedeva già membro a vita di questa masnada d’ammiratori e clienti, alcuni dei quali poi apostatarono; né è da dire che il filosofo avesse per tutti qualche stima, ma molti non allontanava perché lo divertivano come (per usare un termine cinquecentesco) “nuovi pesci”, altri ne doveva tollerare per indulgenza e bontà; …..
Forse anch’io passai più tardi per apostata, ma Croce avrebbe avuto torto a credermi uno dei suoi; del resto allora le mie tendenze così poco crociane, non erano ancora apparenti. Forse ero stato crociano solo quando ero studente a Roma, prima del 1920…. Ma nel 1925 e per qualche anno ancora il Croce poteva immaginarsi che io fossi uno dei promettenti discepoli della sua scuola.
Parigi, oh cara! (pagg. 248-249)
L’occasionale visita a Parigi nel 1930 permette a Praz di rievocare il fascino della città, di ironizzare con mano lieve e toni amichevoli sulla coppia di amici che lo ospitano ma, soprattutto, sulla loro casa e sullo stile dell’arredamento. La casa è quella di Charles Du Bos, in rue des Duex Ponts, strada posta proprio al centro dell’Ile St. Louis, sulla Senna, fra pont de la Tournelle e pont Marie. Charles Du Bos scrittore e critico cattolico francese strinse col coetaneo Praz un forte legame di amicizia.
“Era un appartamento incantevole con una camera d’angolo simile alla prora di una nave in mezzo al fiume grigio-glauco; a destra si vedeva la riva dell’isola dagli alberi con le foglie verniciate di fresco verde primaverile, uno spicchio di Notre-Dame e le torri di Saint-Sulpice goffe come tubi, la cupola del Panthéon e le case del Lungosenna color zinco contro il celeste del cielo. La camera era parata di tela dorata con cineserie; i libri eran disposti in scaffali di lacca a fiorami; c’era un’aria di chiesa parata a festa ed era assai civettuola anche nelle altre stanze…… La camera da letto era colore argento si cui spiccavano le tinte vive delle grandi conchiglie collocate sui mobili; era questa la stanza aux coquillages (conchiglie, ma qui per stile roccocò, ndr), e ci si domandava se non fosse in onore d’una famosa poesia di Verlaine (poesia Conchiglie, di cui do la traduzione del frammento citato di Praz, n.d.r.):
……
un’altra imita la grazia Celui-ci contrefait la gràce
del tuo orecchio ed un’altra ancora De ton oreille,et celui-là
la nuca rosa, corta e grassa. Ta nuque rose, courte et grasse;
Ma una sola mi ha turbato. Mais un, entre autres, me troubla.
Ma sul tavolino c’era una riproduzione della castissima Madonna di Alessio Baldovinetti (pittore fiorentino del Rinascimento n.d.r.). E del resto Madame Du Bos, che si occupava di decorazioni interne e probabilmente aveva decorato così la sua casa come un campionario della sua abilità, non aveva nulla di troublant (cioè che potesse turbare, n.d.r)…. Certo un ambiente deliziosamente artificiale e calcolato come una composizione, come i discorsi di Charles Du Bos che conferiva un aspetto profondo anche alle cose più semplici, e parlava insomma come un libro stampato”
Gli incontri con Montale (pagg. 252-253)
Praz riflette su come il tempo cancella i ricordi, anche di coloro coi quali abbiamo avuto frequentazione abituale o cospicui scambi epistolari. “Quando incontro costoro, anche dopo lunghi intervalli- scrive Praz-: “ non scambio che poche parole indifferenti, come se non avessimo più niente da dirci”. Era il suo carattere, ma anche l’effetto dei lunghi soggiorni all’estero, e, forse, dell’epoca piena di sommovimenti, che lo allontanarono da affetti duraturi o amicizie non contingenti. La stessa sorte succede nel suo rapporto con Eugenio Montale, pure assai stimato, e la cui rievocazione è partecipata, ma mai proprio commossa.
“Eppure ci fu un tempo, tra il 1927 e il 1934, che nei miei soggiorni fiorentini non passava giorno che non incontrassi Eugenio Montale, ci trovavamo al caffè o in trattoria, e, a giudicare dalle lettere di lui che mi rimangono, avevamo da dirci moltissime cose. Ammiravo totalmente la poesia di Montale che m’era riuscito di tradurre Arsenio (poesia contenuta nella raccolta del 1928 di Ossi di Seppia, n.d.r.) in versi inglesi, che avevano incontrato l’approvazion3 di T.S. Eliot da farglieli pubblicare nel “Criterion-vol. VII n. 4)…..
Il tono del nostro epistolario era piuttosto faceto, ci scambiavamo poesie in inglese maccheronico parodiato da quello dei versi di Pound e di Eliot.”
Il tono faceto, Montale lo estendeva (forse scaramanticamente) anche alla narrazione di propri casi, non molto allegri, in verità. Il poeta soffriva infatti di esaurimento nervoso, aggravato dalle ristrettezze finanziarie, perché lo stipendio che gli passava l’editore Bemporad era assai misero. Su questo, ecco ciò che riporta Praz, prendendolo dalle lettere rimastegli di Montale:
“ In cure svariate ho perso anni e speso migliaia di lire. Ho consumato centinaia di ricostituenti, preso molti inefficaci Fellow,s , ho fatto almeno tremila iniezioni di glicerofosfati, cacodilato, forgenina, formiati vari, valerofosfer, ecc.ecc., senza nessun risultato. Dunque? Dunque non c’è che da aspettare un miracolo e da rassegnarsi a quest’inferno. Mi diceva Sbarbaro che varcati i 30 anni si guarisce di questi mali: ne ho 31 e due mesi e sto peggio….”
Nel libro, osserva Praz, che c’era dell’esagerazione in quelle parole, ma non troppo:
“ Quando Montale passò da casa mia in piazza Dei Nerli prima di recarsi al Gabinetto Vieusseux dove dovevano intervistarlo per assumerlo al posto di Tecchi (il direttore uscente), egli era così prostrato e tremante dall’agitazione che poteva a malapena reggersi in piedi, e dovette prendere una carrozza. Mi pareva quasi incredibile che potesse agitarsi tanto per una circostanza così poco solenne, e non riflettevo che per lui quell’impiego, sia pure modesto, voleva dire una certa indipendenza finanziaria”
Nel rievocare il suo rapporto con Montale, Praz si abbandona poi al pettegolezzo sentimentale, ricordando l’insistente corte cui il poeta fu oggetto da parte di Giulia Celenza, traduttrice di valore dei capolavori della letteratura inglese, da Rudyard Kipling a W. Shakespeare. Il poeta di Ossi di Seppia non ne voleva sapere, nonostante la Giulia, donna dal senso pratico, gli vantasse un suo “gruzzoletto”. Ciò che pone fine alle avances della traduttrice, secondo quanto scrive Praz, fu quando: “salendo lei dinanzi a lui per una scala, egli vide spuntare sotto la sua sottana una sottoveste di flanella rossa”. A pensare che, sempre attorno ad una scala, anche se in discesa, Montale scriverà poi una delle sue più commoventi poesie, dedicata alla moglie:
“Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale/e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio./Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,/le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede./Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più./Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,/erano le tue. ”
Tornato Praz dall’Inghilterra nel 1934, riflette amaramente sul tempo che passa e le amicizie che si dissipano, il tono è autocritico, anche se fatalistico. Quando scrive questi ricordi Praz ha 62 anni, quindi relativamente giovane, ma il tono è di chi oramai accetta le cose e se stesso così come sono.
“quel alone leggendario in cui mi vedeva Montale, di amico di T.S. Eliot e di apostolo della cultura italiana all’estero che pure se ne infischiava del fascismo, si dissipò alquanto…. I nostri incontri e i nostri rapporti epistolari si diradarono… Eppure tra noi non c’era stato nessun screzio, nessuno di quei dissapori comuni tra letterati. Ci eravamo passati accanto, per un momento avevamo creduto di camminare insieme, poi ciascuno aveva voltato le spalle all’altro e proseguito per la sua strada. E’ quello che mi è capitato con tante, con troppe persone nella vita. Forse è colpa mia, forse è dalla natura stessa della cose….”
Preraffaelliti, i fantasmi di un tempo che fu. (pag. 273)
Praz capita a Londra nel 1923 in tempo per assistere alle scene di vita degli ultimi circoli che spingevano per il rifiorire dell’epoca del Preraffaellismo. Vi arriva indirizzato dalla vecchia amica Vernon Lee e durante un thè entra in contatto con un cenacolo morrisiano (William Morris era stato un pittore aderente al movimento). Questa è la descrizione che fa Praz di un mondo oramai concluso, estetizzante e vuoto.
“Vecchi dall’aria di artisti, uno con la barba e candida chioma, alla Mazzini, occhi celesti sognanti e camicia azzurra. Tipi di ratés (falliti, perdenti, n.d.r.) allampanati, con vestiti sciatti e facce pallide di sognatori dispeptici. Vecchie zitelle. Una signora australiana molto provinciale a cui pare d’essere in paradiso per trovarsi in un ambiente preraffaellita. Nel salottino all’ingresso un magnifico ritratto rossettiano di Mrs Morris, blu e rosso cupo dominano nelle pesanti pieghe delle vesti e dei cortinaggi. Al piano di sopra una vecchia damigella ossuta e vestita in modo grottesco canta Lieder con voce sfiatata.
La stanza ha una magnifica vista sul fiume che passa sotto le finestre, l’altra riva è quasi pastorale, prati e poche case, bellissimo pomeriggio fresco e dorato…. E’ una stanza piena di quadri disegni… Ci sono pure oggetti curiosi, estetizzanti, cuscini dai colori vivaci, ninnoli dall’aria medioevale; un piccolo virginale che a un ceto punto Miss Morris si mette a suonare, accompagnandovi un canto incredibilmente stonato… a tutta quella buona, ingenua gente, questi ninnoli falsi e antiquati, questi canti stonati, quell’ambiente artiste paiono un sogno. Credono di rivivere i bei tempi della Brotherhood la fratellanza preraffaellita, n.d.r.). E forse queste donne brutte e ridicole, e Miss Morris baffuta, raggiante, vestita d’impossibili merletti e bigiotterie (ma sul petto ha un medaglione colla testa della madre dipinta da Rossetti) sembrano un’accolita di giovani muse a questi uomini mancati, e disillusi, o rimasti fanciulli, ma tutti certo logorati da lavori ingrati e meschini? Come sembra lontano, frusto e buffo il preraffaellismo stasera! Sul pianerottolo una serie di fotografie, in varie pose, di Mrs Morris: in esse ella sembra un’ebrea o una romana del popolo, mora, ricciuta, olivastra, sgraziata. In una sembra una selvaggia della Papuasia”
Chi era il vero Praz nelle parole di Vernon Lee (pagg. 274 e segg.)
Per capire un po’ più a fondo la personalità di Praz durante gli anni della sua formazione, il documento più convincente è la lettera che nel gennaio del 1924 da Firenze gli invia Vernon Lee, e che lo stesso Praz riporta nel libro. Vernon Lee è lo pseudonimo di Violet Paget, scrittrice inglese da molti anni residente a Firenze, in una dimora storica, il Palmarino, fra Fiesole e Maiano, dove i due si erano conosciuti. All’inizio del 1924 Praz, lasciata Londra, è ora a Liverpool, come senior lecturer in italian; sono per lui giornate tristi e la lettera di Vernon Lee vorrebbe essere consolatoria. Riporto alcuni passi dai quali emergono alcune acute considerazione della scrittrice su Praz, che lei tratta un po’ come un nipote da esortare e indirizzare nella vita.
“Avrei da lavorare, ma la Sua lettera sembra richiedere una risposta senza troppo indugio. Sebbene io non sappia se potrà esserle di alcuna validità, e creda e speri che a quest’ora Lei abbia dimenticato… il Suo momento di spleen….
Lei soffre…. degli anni di incertezza, di compressione, quasi di irreparabilità attraverso i quali è passato, e passato a questa buona fortuna assolutamente inattesa. Lei era così assolutamente senza speranza, e pareva che ne avesse tanta ragione obiettiva, che il solo pensiero di Lei soleva deprimermi negli intervalli dei nostri incontri…..penso che Lei possa soffrire di quello attraverso cui passano molti giovani: la depressione del “mezzo del cammin”…. Nei tre anni durante i quali L’ho conosciuto prima che si recasse in Inghilterra mi capitava spesso di provare noia al pensiero che il Suo vero io non c’era ancora, che Lei era fatto tutto di letteratura. Forse mi sbaglio, ma le Sue allusioni a Madame Bovary, alle etère e alla fanciulle-fiori da Parsifal nella Sua ultima lettera sono un residuo di questo. Ciò che mi ha fatto piacere nelle nostre ultime conversazioni era il fatto che mi sembrava che la prosperità L’avesse fatto crescere, che una reale personalità, una personalità interessante e spontanea stava emergendo da quel patetico fascio d’impressioni libresche che fin allora era stato ai miei occhi Mario Praz…. [credo che] Lei sta sviluppandosi in un essere umano maturo e che il suo speen.. sia in parte causato da questa penosa e lenta trasformazione dell’io irreale della prima giovinezza nella realtà, prosaica e confortevole e, speriamo, utile dell’età matura… sospetto che Lei abbia bisogno di innamorarsi…. Purché non conduca ad un dongiovannismo che sarebbe estremamente grottesco e probabilmente ignobile nel Suo caso… Naturalmente prima o poi dovrà sposarsi, e dovrà vivere e lavorare e avere coraggio con questa prospettiva… .. sono sempre stata colpita del fatto che Lei soffre della esilità di interessi delle persone che sono puramente dei letterati a meno che non siano geni creatori….
Sia pieno di curiosità distinte dalla letteratura; le quali faran sì che la letteratura apparirà quale dovrebbe essere, non un compito, ma una gioia. E anche, per l’amor del cielo, balli, vada ai ritrovi anche se la annoiano… si rassegni ad esserlo per un paio d’anni .. e si proponga di mettere qualcosa di piacevole e d’interessante in ciascuno di essi, se Le riesce. Lei è un giovane molto fortunato; si proponga di non demeritare della Sua fortuna. Cresca, caro Praz. E col crescere uscirà dal Suo spleen ! “
L’ubriaco sotto la finestra (pagg. 117 e segg.)
Roma, tempi di Trilussa, anche se oramai malato, anche se in libreria oramai non “Te portavi via n’ libbro c’un baijocco.” Ma l’aria strapaesana è la stessa decritta del poeta romanesco, anche se illuminata dalle fosche tinte dalla guerra. La piazza di cui parla Praz è quella de’ Ricci.
Ora nella piazzetta l’oste dispone in fila i tavolini e la sera, soprattutto la sera del sabato, i popolani s’attardano a bere e a conversare sotto la viva luce d’una forte lampada elettrica, e sovente c’è chi canta accompagnandosi sulla chitarra, e certe sere, come presi da frenesia, gruppi di giovani si siedono sui banchi di pietra del vecchio palazzo nell’angolo morto della piazzetta, e seguitano a cantare a scquarciagola…… Ma per anni la piazza è rimasta, a sera, silenziosa, deserta e buia, se non quando l’illuminava la luna che qui si specchiava come in un pozzo cupo, e non si sentiva che il lontano passo cadenzato di qualche rara pattuglia…
Fu appunto una notte di luna del maggio 1943 che venni svegliato da una voce che declamava rauca e ineguale: “ Dio solo può piegare l’Italia, gli uomini e le cose mai”: spiccava le sillabe, tuonava la sentenza come a un’adunata; ma subito dopo la voce proseguiva con un commento rotto, disordinato, calava di tono, si perdeva in un farsetto, in un pigolio. Era un ubriaco sotto la finestra…. Ecco la guerra, tuonava ogni tanto; poi tutto d’un fiato: Dio solo può piegare l’Italia, gli uomini e le cose mai; e subito dopo, scandendo le sillabe: Centomila, duecentomila prigionieri, contadini, operai, un tozzo di pane.. ora non sarai nemmeno questo. Abbracciare tutto. Tutto il mondo contro.. Dio solo può piegare…. “Ecco la guerra”, come un urlo di spavento, s’inalberava come un fantasma di Goya. “I discorsi sono immensi, grandiose sono le promesse. Abbiamo combattuto, abbiamo amato la patria. Ci hanno fregato con una medaglia d’oro (sì, diceva fregato non fregiato). Quarantaquattro medaglie d’oro, duecentootto d’argento. Solo Dio…. Gli uomini e le cose mai. Il tono scendeva bruscamente poi risaliva: “L’immenso condottiero”- e dopo una breve pausa, quasi sottovoce: “Quel porco”…….
Null’altro accadde nella piazza fino alla mattina del 26 luglio, quando dalle finestre della sede dell’Istituto di Cultura Fascista invasa dal popolo piovvero sul selciato miriade di fogli di carta, suppellettili, mobili, ritratti, e macchine da scrivere.
Roma sotto le cannonate ( pagg. 138 e segg.)
Praz, nei “tristissimi mesi” dell’occupazione di Roma da parte dei tedeschi e dei bombardamenti Alleati tenne un diario di guerra.
“Come angusta e meschina, irrespirabile s’era ridotta la vita! Le mie note, a rileggerle, mi sembrano quelle d’un’altra persona, … mi sembra d’essermi adeguati allora alla folla anonima, che freme, paventa, guarda verso terra come un animale in cerca di cibo, e qualche volta si ricorda della sua umanità.. e guarda vrso il cielo come a una lontana speranza”…
Distruzione e lutti dopo un bombardamento, Praz gira inquieto in bicicletta in compagnia della moglie. Mentre il disordine pare infastidirlo e la vista dei cadaveri lo lascia inerte, l’emozione sgorga irrefrenabile solo davanti ai ruderi di San Lorenzo. Seguendolo nel suo pensiero verrebbe da pensare: di San Lorenzo c’è n’è una sola, di uomini invece…….
Ricordo come un sogno una sera, la sera dell’invasione della Sicilia (10 luglio 1943 ndr)…eravamo stati invitati a casa di un giornalista tedesco.. Languiva la conversazione… venivano riferiti particolari raccapriccianti dei bombardamenti di Colonia: il fosforo liquido ardeva per le strade; si parlava di gente carbonizzata nei rifugi, di uomini grossi che si mummificavano e rattrappivano come macabri trofei dei cacciatori di teste; c’era che lodava il discorso del Duce per il suo equilibrio, e quello di Giovanni Gentile per la sua sincerità….. Pochi giorni dopo, il 19 luglio, mentre correggevo le bozze di Fiori freschi, vidi alla finestra della camera di pranzo le fusoliere oro e argento d’una formazione di bombardieri, alta sui tetti, e i pennacchi di fumo dell’antiaerea. Si udivano esplosioni, seguite da pause tra ondata e ondata di aerei. Nel pomeriggio io e mia moglie ci recammo in bicicletta al quartiere Prenestino che era stato colpito. Abitava da quelle parti un antiquario, Borelli, di cui avevo spesso visitato le collezioni; la casa che sorgeva nel suo giardino, il “rustico”, era stata centrata da una bomba. Borelli in gabardina e berretto, tutto coperto di polvere e come inebetito, andava attorno raccogliendo con gesti incerti e meccanici quel che si poteva estrarre di sotto le macerie. Rientrando a casa aveva trovato sotto l’arco del suo portone un operaio morto, col basso ventre squarciato. Per tutto il quartiere s’aggiravano come sonnambuli gli abitanti delle case sventrate; povere famiglie che trascinavano via quel che avevan potuto salvare, materassi, valigie e involti trasportati su biciclette; e guardavano in su verso le stanze che fino a ieri erano state il loro nido appartato, ora esposte agli occhi di tutti, spesso rese grottesche dal capriccio del bombardamento: così ricordo una fila di cravatte che pendeva del vuoto. Dietro Porta Maggiore, in uno spiazzo, una tela copriva i morti, vigilati dai carabinieri. Ma fu soltanto alla vista della basilica di San Lorenzo che mi vennero le lacrime agli occhi; quella facciata distrutta, quell’opera d’arte scomparsa che era durata secoli da identificarsi per me quasi con l’eternità, mi commuoveva più della morte degli uomini.
Ecco la pagina conclusiva del diario di guerra “quella lunga agonia d’umiliazione” che Praz intese inserire in La casa della Vita (pagg. 142-143):
“4 giugno 1944- La mattina cannonate a regolari intervalli, come quando ci fu il combattimento dell’otto settembre. Pare che sparino da dietro il Gianicolo. La mattina e il pomeriggio seguitano a sfilare soldati tedeschi, stanchi, sudati, ma armati fino ai denti, pel Corso Vittorio, pel Lungotevere, tra la gente seduta sulle spallette, allineata lungo le strade, gente scamiciata, sporca, silenziosa. Non ridono, non disprezzano, non commiserano. Vecchia civiltà. L’antica folla romana , tra gli antichi monumenti, vede ancora una volta un esercito in rotta, se e tace. Aeroplani in picchiata fanno un gran chiasso verso le due. Mitragliamenti. Vibrano le finestre semichiuse. Buffi autoveicoli di tutti i generi: alcuni paiono ciabatte su ruote, come in un quadro di Bosch. Uno enorme, come un carro carnevalesco a gradinate, con soldati scamiciati e scomposti: un cannone è nascosto sotto le frasche. Un’aria di carnevale macabro. Con Giuliano [Briganti ndr] vedo sul lungotevere una circolare interna carica di soldati tedeschi abbattuti, cionchi. Passiamo pel Corso Vittorio. Proprio qui, quattro anni fa, la folla tornava da Piazza Venezia, atterrita dal discorso del Duce che voleva la guerra, volti disfatti contro il sole che calava. Quando passarono le Giovani Fasciste, qualcuno aveva osservato: “Non troverete marito”. Oggi ci si avvicina un vecchio dall’aspetto piuttosto degno e chiede l’elemosina: “ Sono uno sfollato”. La sera tra le otto e mezzo e le nove si sa da quelli che hanno la luce della Tiburtina (noi della Società Romana siamo al buio) che gli americani sono a San Paolo. La gente alle finestre e sui poggioli si agita ed è contenta. Poi nel crepuscolo-ancora si odono colpi di cannone- il pianista che abita di faccia in Via Monserrato, suona le battute della vecchia Marsigliese, il vecchio inno dell’uomo libero, che sempre dà un tuffo al cuore.”