Un giorno d’estate i romani e i turisti della Grande Bellezza scoprirono che in una famosa piazza di Trastevere era stata eretta una statua alla porchetta. Un maiale di travertino scolpito sopra un piedistallo, già insaccato e pronto per l’uso. L’opera, uscita dai cantieri creativi della Rome University Fine Arts, (dove «fine» forse non è la parola chiave, e neanche «arts»), intendeva celebrare il cibo di strada e perciò aveva goduto di un solerte finanziamento pubblico. Gli animalisti furono i primi a sollevarsi, sostenendo che l’arte non poteva urtare la sensibilità dei vegetariani e tantomeno quella dei vegani. Poi arrivò la Lav e non si limitò a chiedere l’immediato abbattimento della porchetta, ma pretese la sua sostituzione con «un monumento dedicato all’olocausto animale». Un macellaio inginocchiato sarebbe stato l’ideale.
Non è facile essere artisti, oggidì, e mica solo di porchette. Se durante il Rinascimento si cercava l’universale in ogni individuo, nella nuova fase storica del Rincrescimento ogni sensibilità individuale si arroga il diritto di porre il veto sull’universo intero. Rimane il fatto che la statua della porchetta ha disturbato più in quanto carnivora, e meno perché sembra uscita da un catalogo di arredamento dei Casamonica. Ormai ci si indigna per tutto, tranne che per il cattivo gusto. Ma se la bruttezza è l’unica cosa che non offende più nessuno, gli amanti del bello esistono ancora?
Il Caffè – Massimo Gramellini, Corriere della Sera