LA GUERRA LINEARE

15 Feb 2022 | 0 commenti

RUSSIA Vs UCRAINA. E’ di ieri la dichiarazione del ministro degli esteri russo Sergej Viktorovič Lavrov dal tono distensivo: “possibile un accordo, intensificare la trattativa”. Apertura reale o solo melina? La storia militare russa insegna che i russi, quando si muovono, preferiscono la sorpresa. Vedremo,intanto questa l’analisi di un fine analista politico, Luca Caracciolo, direttore della rivista di geopolitica Limes

Dopodomani, mercoledì 16 febbraio, la Russia invaderà l’Ucraina. L’attacco partirà con bombardamenti aeronavali di preparazione dai distretti militari occidentale e meridionale russo – Crimea e Sebastopoli in prima linea – coinvolgendo probabilmente la Bielorussia (Lukashenka tiene molto al grado di colonnello dell’Armata russa promessogli da Putin). Fra oggi e domani, intanto, i ribelli delle repubblichine di Luhans’k e Donec’k scateneranno l’inferno. Nel giro di una o due settimane Kiev crollerà ai piedi di Mosca.

Luca Caracciolo

Da venerdì 11 febbraio questo scenario di produzione americana, diversamente dettagliato a seconda dell’affidabilità del ricevente, è sui tavoli dei trenta leader Nato e di selezionati partner.

Washington avverte che Mosca la pagherà carissima, a cominciare da devastanti sanzioni finanziarie ed economiche, fino all’esclusione dalle transazioni Swift – nervatura mondiale dei pagamenti elettronici – oltre al boicottaggio delle esportazioni dei suoi idrocarburi verso l’Europa e molto altro. La Federazione Russa verrà declassata dall’Occidente a Stato canaglia. Prima iperpotenza nucleare espulsa dalla “comunità internazionale”.

La Russia non attaccherà l’Ucraina con carrarmati e bombardieri. Lo dice l’analista Marta Ottaviani, che ha studiato a lungo Putin e la sua strategia e ha appena pubblicato il libro “Brigate russe. La guerra occulta del Cremlino tra troll e hacker” (pubblicato da Ledizioni, 213 pagine, 14,90 euro). Il che non significa che gli ucraini possano stare tranquilli. Le truppe schierate a ridosso del confine sono uno strumento di pressione integrato in una strategia più sofisticata rispetto all’aggressione nuda e cruda, che (oltretutto) non prometterebbe buoni risultati. Ottaviani racconta l’impianto teorico e le applicazioni che ha già avuto la cosiddetta “dottina Gerasimov”, dal nome del generale russo a cui viene attribuita, che ha cambiato il modo di fare la guerra: si tratta di «una strategia di guerra non lineare, che consiste proprio nel non attaccare direttamente un Paese, ma nel metterlo nella maggior difficoltà possibile, in modo tale da gettarlo nell’instabilità». Un grande ruolo ha l’utilizzo di Internet, delle nuove tecnologie e dei social network per manipolare l’opinione pubblica, usando l’informazione come arma. In questo libro Marta Ottaviani illustra come Mosca sia già riuscita a «influenzare alcuni grandi conflitti e appuntamenti internazionali attraverso attacchi hacker ai danni di molti Paesi europei e legioni di troll al soldo del Cremlino», che operano per accrescere la popolarità di Putin e screditare gli oppositori. L’obiettivo è quello di far filtrare la versione dei fatti russa.

Mosca nega di voler invadere il vicino. O meglio sé stessa, giusta la tesi di Putin per cui russi e ucraini – più bielorussi – sono il medesimo popolo. Russo. Intanto continua ad ammassare truppe e armi in prossimità della frontiera ucraina (russa).

Fra poche ore sapremo se l’intelligence americana avrà fatto il colpo del secolo, datando l’aggressione di Mosca, oppure no. Il problema, per Washington, è che sarà Putin a deciderlo. Biden gli ha alzato la palla, a lui schiacciarla dove meglio crede.

I casi sono due.

L’autocrate del Cremlino è un pazzo suicida e quindi marcerà su Kiev. Così si scaverà la fossa. Non solo l’Armata russa s’esporrà bersaglio perfetto alla guerriglia nazionalista ucraina, sostenuta ed equipaggiata da americani, britannici, polacchi e baltici.

Soprattutto, l’opinione pubblica russa non apprezzerà l’aggressione a un popolo comunque intimo, se non fratello. Un russo su tre ha parenti ucraini. Sommando questi fattori alla rappresaglia atlantica, il rischio per Putin è di aprire la crisi finale sua e del suo regime. Morire per Kiev?

Oppure il presidente russo conserva l’uso della ragione. Dunque manterrà la pressione sull’Ucraina finché non sarà sicuro di aver raggiunto lo scopo: riportare quella strategica marca nella sfera d’influenza del suo impero. Putin non vuole passare alla storia come lo zar che perse l’Ucraina. Ma sa che per recuperare Kiev deve prima neutralizzarla, inchiodandola nella terra di nessuno fra sé e la Nato.

Per poi riassorbirla, almeno in parte, una volta che gli ucraini si saranno resi conto che l’Occidente non intende morire per loro. Nel frattempo, Mosca vorrà approfondire le faglie nello schieramento atlantico, insanabili perché determinate dalle differenze di interessi e di memorie storiche dei suoi soci. Senza sparare un colpo, o quasi.

La prima opzione non si può escludere a priori. Anche i leader più scaltri commettono errori fatali, sotto pressione. Oppure qualcuno nelle Forze armate disobbedirà agli ordini o cadrà in una provocazione scatenando un incidente che obbligherà Putin all’offensiva. Contrariamente al cliché, l’autocrate non è onnipotente. Il suo Stato profondo può giocargli brutti scherzi. E’ lui stesso a confessare che l’80 per cento dei suoi ordini non viene eseguito.

La seconda ipotesi è invece svolgimento logico del piano russo. Putin vuole portare la Russia in un nuovo concerto europeo fondato sull’equilibrio delle potenze, sovvertendo il primato americano codificato nella Nato.

Congresso di Vienna 2.0. Il suo modello è Alessandro I. La neutralizzazione dell’Ucraina e l’assorbimento della Bielorussia ne sono precondizione, non fini in sé. Minsk è già tornata a casa. Successo tutt’altro che secondario. Per Kiev, ammesso sia possibile, ci vorrà molto più tempo, ma Mosca non è disposta a rinunciarvi. Né ha tanta fretta da imbarcarsi in un’offensiva controproducente.

L’attacco vecchio stile con bombardamenti, carri armati e stragi di civili porterebbe forse a un provvisorio successo militare, cui seguirebbe certamente la sconfitta strategica. La Nato spingerebbe basi e missili alla frontiera con l’Ucraina russa. Europei e americani metterebbero da parte le differenze, per un periodo. Svedesi e finlandesi, più antirussi di quasi tutti gli atlantici, entrerebbero di corsa nell’Alleanza e chiuderebbero a nord la morsa del più colossale cordone sanitario che storia ricordi. E chissà se Pechino, a quel punto, muoverebbe un dito per Mosca.

Putin ha sicuramente letto Sun Tzu. Sa che la vittoria vera si ottiene senza combattere. Semmai usando mezzi ambigui, oggi battezzati ibridi. La guerra attuale si fa alle società, non agli Stati.

Per esempio con attacchi cyber, capaci di infliggere danni strutturali al nemico senza che nulla si palesi prima, salvo constatarne poi i drammatici effetti. Quando è troppo tardi.

Con queste ed altre azioni coperte, tra cui disinformazione e guerra psicologica, è possibile rendere infernale la vita agli abitanti di Kiev e delle principali città ucraine. Costringendo magari il governo a trasferirsi a Leopoli, epicentro già polacco e asburgico dell’Ucraina russofoba. E impiantando un proprio governo civetta, per esempio a Kharkiv, capitale dell’Ucraina sovietica dal 1919 al 1934.

Finora Putin ha potuto contare su un alleato certo involontario, non inatteso: Biden. Gaffe a parte, colpisce come l’approccio del leader americano e dei suoi apparati alla crisi, sempre reattivo, spesso contraddittorio, abbia contribuito alla destabilizzazione dell’Ucraina.

Cioè allo scopo di Putin. Sono mesi che Zelensky segnala a Washington come l’enfasi sulla minaccia russa finisca per seminare panico in casa, spingere capitali e capitalisti (oligarchi) alla fuga, convincere i presunti amici a non impegnarsi troppo nel sostenere la causa ucraina. Salvo, al massimo, l’invio di armi non formidabili. Armatevi e combattete per noi. Non quel che ci si attende dagli amici. Ma in guerra, classica o ibrida, è già tanto poter contare su sé stessi.

Articolo di Luca Caracciolo, La Stampa

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