Quando la fotografia conquistò la libertà– La Magnum dedica il cinquantesimo anniversario del Sessantotto agli scatti e ai fotografi che, sfidando le narrazioni univoche, elaborarono un nuovo modo di raccontare il mondo.
Quando la fotografia era ancora amica, e non sospetta di tradimenti. Nell’aprile del 1968, sul numero uscito subito dopo gli scontri di Valle Giulia, l’edizione italiana di Popular Photography si stupiva di un curioso fenomeno. Nelle facoltà occupate, gli studenti universitari cacciavano fuori i giornalisti con penna e taccuini perché “servi della stampa borghese”. Ma lasciavano entrare i fotografi perché “le immagini non si possono falsificare”. Ahiloro, non era proprio così. Ma in quell’anno in cui le cose più solide si scioglievano nell’aria, tra la rivolta e la fotografia scoppiò davvero una love story rivoluzionaria, che fra delusioni e contraddizioni conserva ancora una scintilla di vita.
A Magnum, che ebbe suoi cavalieri fotografanti su tutti gli scenari, non era possibile fare altro in questo cinquantenario se non dedicare la sua ormai tradizionale Magnum Square Print Sale (vendita a tempo limitato e a prezzi accessibili di stampe moderne firmate o autenticate, tratte da celebri scatti dell’archivio), al concetto di libertà. Quella parola, Freedom, che rimbalzava allora dai titoli dei libri a quelli dei brani di jazz, non solo negli slogan delle piazze.
Non solo immagini dal ’68, come la battaglia sui boulevard del maggio francese raccontata dal bianco e nero di Bruno Barbey “con il giubbotto che puzzò per settimane di gas lacrimogeno”.
Non solo eventi, ma anche simboli, rimandi, suggestioni. La schiena della ragazza vestita di cotonina che balla sul palco del Venice Beach Rock Festival, fermata per sempre senza volto da Bruno Barbey.
Ed eroi. Il sigaro di Ernesto Che Guevara issato come una bandiera nel ritratto-icona di René Burri (1963). Il sorriso di Martin Luther King quasi strattonato dalla gioia dei suoi sostenitori dopo aver vinto il Nobel per la pace (Leonard Freed, 1964).
E dunque non solo ’68, ma settant’anni di immagini appese a quel filo incerto di significato, la libertà. Libertà da: dalla guerra, dal nazismo, negli Champs Elysées in festa che accolgono i liberatori di Parigi, e Robert Capa, il 26 agosto 1944. Libertà di: parlare, pensare, anche consumare, perché no, nel tuffo a torno nudo di un ragazzo bloccato dal clic di Stuart Franklin in piazza Tian An Men, 1989, prima dei carri armati. Libertà per: per votare, come si è dipinto in fronte il ragazzo nero nella marcia antirazzista di Selma, nell’inquadratura di Bruce Davidson, 1965.
Libertà da leggere sui volti, essendo gli animi inaccessibili alla lente: quello con i baffi a manubrio di un pastore del Rajastan minacciato dall’urbanizzazione (Steve McCurry); quello di un bambino cileno seminascosto dai fili dei metaforicissimi palloncini che tiene in mano (David Alan Harvey, 1987).
Libertà nei luoghi: la vastità delle savane africane in cui George Rodger trovò pace dopo gli orrori fotografati nei campi di sterminio nazisti. Libertà negli oggetti simbolici, allusivi, nelle fotografie quasi astratte di Christina De Middel, di Harry Gruyaert, di Matt Black.
Nessuna di queste fotografie conquistò la libertà. Tutte assieme in qualche nodo lo fecero. La libertà di sfidare le narrazioni univoche. Nel ’68, ha scritto un critico severo della comunicazione visuale, Fred Ritchin, le fotografie furono messe come non mai alla prova della loro funzione sociale. Quella di essere dei relais di senso. “Interpretavano eventi e, mostrandoli e confermandoli, producevano reazioni” che a loro volta innescavano eventi.
La fotografia è stata, nel Novecento, anche questo. Potrebbe addirittura esserlo ancora.