Madre nostra che sei nel mare Mediterraneo- Che cosa ci attira delle acque che come ogni estate cerchiamo? Il mito, l’oriente, le radici liquide- O forse l’idea che dalle acque nacque Venere e in fondo al mare riposa ogni cosa. Il mediterraneo visto da Paolo Rumiz.
I primi sospetti sul sesso del Mediterraneo mi vennero nel porto di Bar, in Montenegro. Era appena finita la guerra dei Balcani e l’Adriatico era frequentato ancora da pochi. Ma quei pochi erano gente speciale. Come Slobodan, un serbo di terraferma. Era ormeggiato accanto a noi su un improbabile, grosso sloop
in ferro che era anche la sua casa. Con le anime slave si fraternizza presto e lui ci invitò a bordo per raccontarci una storia. Prima di diventare vela, la sua barca era stata scialuppa di salvataggio di una nave da guerra che la marina jugoslava aveva messo all’asta pezzo per pezzo.
Uno smembramento che era sintomo e allo stesso tempo metafora dell’imminente dissoluzione del paese. Anche il nome del serbo era metafora: Slobodan vuol dire Libero. E lui lo era. Anni prima, il nostro aveva caricato l’imbarcazione su un treno merci e l’aveva spedita a Belgrado, poi l’aveva trasformata nel giardino di casa e infine varata nel Danubio, per raggiungere il Mar Nero.
E così, mentre il suo mondo franava nel sangue, l’uomo libero prendeva la via dell’acqua, l’unico spazio franco che gli rimaneva. Passò il Bosforo e compì il periplo della Grecia fino alle coste del Montenegro. Quando arrivò, la sua patria già non esisteva più. Ma lui se n’era fatta una ragione. «Non ne potevo più di tamburi, di patrie e di eroi. Cercavo un’ecumene, un grembo capace di accogliermi e farmi muovere liberamente». Così disse, e ci mostrò una mappa del Mediterraneo appiccicata sopra il loculo della sua cuccetta. «La guardo ogni sera prima di dormire e sogno di viaggiare», ci confidò. «La vera ricchezza dell’uomo sono i sogni».
Il suo Mediterraneo era una madre. Anche la chiglia lo era. Il suo guscio materno era un grande orecchio che ci proteggeva dagli elementi e, in quel momento, captava e amplificava il rombo del temporale che andava addensandosi sopra di noi. Un sensore che auscultava i sommovimenti del meteo attraverso il liquido amniotico del mare. Eravamo sotto monti arcigni e cupi che confermavano l’intuizione dello storico Femand Braudel, secondo la quale il Mediterraneo è “un mare di montanari”. La durezza dei marinai adriatici, figli delle rocce e della bora, nasceva dalla loro intimità con le montagne più severe d’Europa. Anche la guerra appena finita era partita dalla montagna, dai primitivi, lunatici abitanti delle Alpi dinariche, per poi dilagare in basso. Verso i fondovalle, le città, i mercati, il mondo plurale delle coste. Una guerra altimetrica, assai prima che etnica.
Poco tempo prima avevo conosciuto Carlo Sciarrelli, il più famoso progettista di barche a vela in legno del Nord Adriatico. Attraverso le linee ricurve del fasciame, ogni suo disegno ricalcava la ricerca di un’unica barca.
La barca di Dio, così la chiamava. La chiglia in legno, mi aveva spiegato, intercetta le voci e le conserva; e, come Calipso con Ulisse, è in grado di affascinare il nomade più incallito, imprigionarlo e fargli passare la voglia di uscire da quel perimetro che riassume il mondo. Sciarrelli era un uomo ruvido, greco di cultura, e selezionava severamente i committenti. Potevano essere ricchissimi, ma se non conoscevano la musica, li mandava sarcasticamente a quel paese. Il Mediterraneo era suono, canto corale, che diamine. Era metrica, esametri. Mitologia. E se con lui non reggevi a un confronto nemmeno su Omero, eri cacciato via in malo modo.
Che il Mediterraneo fosse anche polifonia lo capii dall’incontro con un pescatore istriano, al bancone di un bar. Beveva il suo Malvasia con la “marenda” del mattino. Gli storici, disse, non avevano capito niente. Mica vero che ¡Veneziani non erano stati capaci di arrivare alle Americhe; la loro perizia nautica glielo consentiva.
La verità è che non l’avevano voluto. Non gli interessava navigare in un mare senza osterie. Bicchiere di vino, nel Nord Adriatico, si dice “ombra”. Che farsene, disse, di un mare senza “ombre”? Già, pensai, perché disertare 10 spazio intimo del periplo, l’arcipelago dove è cresciuta una civiltà unica al mondo, e nel quale la locanda, l’osteria o il caffè affacciato sulla battigia è il segno identitario che accomuna le sponde? Bevemmo un altro Malvasia e il pescatore cantò una vecchia canzone delle sue parti che sembrava ripetere 11 ritmo lungo del beccheggio. «In mezzo al mare / xe un’ostaria / È l’allegria / del marinar». Era la dimostrazione pratica della sua teoria. Disse: una cosa del genere non esiste in Atlantico. Questione di miglia. Troppa strada per arrivare a una taverna. Idem per la seconda strofa – «In mezzo al mare / xe tre sorelle / Una di quelle / vorrei sposar». In oceano non trovi né vino né ragazze da maritare. Passa per mare Gibilterra e capisci. Senti di lasciarti alle spalle una favolosa ricchezza di opportunità. Davanti a te hai solo banchi di sardine e solitudine. La monotonia di uno spazio senza isole. Nel periplo della vita la conoscenza si amplia spesso sul filo di incontri casuali, come in uno zig zag tra isole di un arcipelago. Accadde con Maurizio, un rappresentante di carte geografiche (può esistere un mestiere più controcorrente nell’epoca di Google Maps?) di etnia romagnola, dunque bizantina. In cima a una scala, stava disegnando minuziosamente la Scozia su un mappamondo di cinque metri di diametro, su commissione di un’officina. Ci lavorava da mesi. Su quella scala perdeva il senso del tempo. Con gli operai, affascinati, parlava di curvatura delle coordinate e sfumi altimetrici senza che intorno volasse una sola parola in italiano. Dialetto stretto. Era così preso dal lavoro, che immaginai abbandonasse all’alba il letto coniugale per finirlo in tempo. Sua moglie, disse, sapeva da sempre che lui guardava le mappe come le donne. Roba da farci un film. Da lì partì una colta disquisizione sulla femminilità della Terra, che Maurizio andava ad abbracciare ogni santissimo giorno. (questa pagina: mosaico romano con una varietà di pesci e molluschi, su fondo nero.
Non c’è nulla di più ipnotico e ammaliante di un profilo costiero, disse mostrando la linea frastagliata della Corsica occidentale. E poi, diamine, tutto ciò che è rotondo è femminile, poche storie. Gli antichi lo sapevano da sempre. Se oggi il mondo è diventato piatto e solo perché lo hanno schiacciato sullo schermo di un computer. L’uomo cosiddetto evoluto ragiona per superfici lisce, lineari e puntiformi. Ha perso il senso della complessità e della verticalità. Già quando Einstein esortò gli scienziati a sforzarsi di immaginare un universo curvo, quelli «nemmeno con l’uso di droghe ci riuscirono » . Delle acque non se ne parla, sono la cosa più femminile che esiste. Per questo il maschilismo imperante cerca di cambiare loro il sesso. Vedi parole come emissario, fiume, rivo, fosso, torrente, lago, canale. O la Piave che diventa il Piave.
Era vero. Dove se non in mare verifichi la rotondità del Pianeta? È per via della curvatura terrestre che, navigando, vedi isole emergere o affondare sull’orizzonte. Non lo verificai certamente in Atlantico, ma nel mio Mediterraneo, grazie alla costante vicinanza di coste montuose e arcipelaghi. Fu quando cominciai a navigare seriamente a vela, in tarda età, grazie a un nuovo incontro casuale: Piero, lo skipper di “Moya”, una severa barca inglese del 1910 dalla storia leggendaria. Parlava greco e latino, insegnava lettere classiche in un college di Cardiff, cantava gli Shanties dei velieri britannici, suonava bene il clarinetto e aveva dedicato al suo cane il portolano del Golfo di Trieste. Con lui la percezione del mare si perfezionò. Navigare in Grecia senza apparati elettronici, alla stessa velocità degli antichi, seguire le stelle leggendo Omero, e ascoltare le voci del profondo attraverso la risonanza di quel fasciame leggendario, era un’esperienza unica. Ti traghettava nel cuore del mito.
Già, il mito. Me lo chiedevo ogni inizio estate. Cosa spinge a cercare nel Mediterraneo, e non altrove, un luogo- rifugio dalla barbarie del saccheggio e del turismo dei selfie? Cosa porta tanti europei a mettere, anche per poco, la scia di un traghetto fra sé e il mondo? Avevo cercato di darmi delle risposte. Il sogno ormai impossibile di un’isola deserta dove abbandonarsi alla voce degli elementi. La presenza degli dei antichi, il politeismo che sopravvive al totalitarismo degli dei unici. La percezione di mille diversità. L’ostinato individualismo delle isole. L’esistenza di una linea di faglia sempre attiva, dove si sfogano immani tensioni continentali. Lepanto, Salamina, i naufragi. L’intima unione tra il sismico e il fertile, Persefone e Demetra. Hai mille ragioni, ma alla fine torni sempre lì. Alla risposta che racchiude tutte le altre. Al mito. Che, spesso, dice più della politica, dell’economia e della stessa geografia.
È stato grazie al mio skipper dell’anima che ho iniziato a riflettere su tutto questo, e sul mito di Europa in particolare. La storia è semplice: Europa è la figlia di un re della Fenicia, attuale Libano, che Zeus rapisce sotto forma di mansueto toro bianco e porta via mare fino a Creta, per consumare l’amplesso che darà vita alla nostra progenie. Questo ci porta davanti a evidenze lampanti. Per cominciare, Europa non è una continentale, ma è figlia del mare: ovvietà che andrebbe rammentata ai tristi abitatori delle nebbie, illusi di poter fare a meno del Mediterraneo. Secondo: Europa è donna. La sua è un’essenza materna e di accoglienza, perché la geografia la mette al capolinea dei popoli, ne fa lo spazio terminale di una migrazione costretta ad arrestarsi sul grande nulla dell’oceano. Terzo punto, il più importante: Europa è asiatica. Sembra una contraddizione in termini, ma non è così. La nostra gente viene da Oriente, come il troiano Enea, fondatore di Roma. Come Cristo. Come San Paolo e San Pietro. Come quasi tutti i popoli fra l’Oceano e gli Urali, Italiani compresi. Il che dice che tra i due mondi non vi è confine, e che esiste un solo mondo, l’Eurasia.
Quarto punto: Europa è una terra benedetta dagli dei. Nientemeno che un dio si fa carne nel suo grembo. In fondo, Zeus avrebbe potuto possedere la ragazza restando in Libano; e invece no, se la porta in Occidente. È qui che la giovane rapita e l’approdo del viaggio diventano una cosa sola. L’erba novella che cresce sotto la ragazza abbandonata tra le braccia di Giove, e l’immenso albero che la sovrasta (il famoso platano di Gortina cui le ragazze di Creta chiedono la promessa della fertilità), dicono tutto della bellezza della nuova terra, temperata, ricca di acque, intimamente compenetrata dal mare e ben più fertile delle terre che la circondano. Benedetta, appunto. Ma c’è una quinta evidenza. La meno ovvia. In tempo di esodi di massa, colei che nella notte dei tempi attraversa il mare con paura in groppa a una bestia selvaggia, può essere considerata la capostipite dei migranti. Di tutti coloro che, da millenni, cercano là dove il sole va a morire un approdo per sfuggire alla guerra e alla miseria.
Se il mito è ritmo e canto, la mappa mentale del Mediterraneo è pura polifonia, la quintessenza pelagica delle diversità concentrate in Europa. Un’esperienza acustica di prim’ordine. Ed ecco il tuono del Mare di Alboran contro i faraglioni spagnoli a Est di Gibilterra, le litanie dei monaci dell’Athos davanti alle loro Madonne nere, l’eco del temporale intrappolato nelle Bocche di Cattaro, il vento che sibila tra i ruderi delle fortezze di Caprera, il silenzio delle correnti dello stretto di Messina attorno a un misterioso punto- zero chiamato Anfidromico. Tutto ritorna: gli esametri del mio capitano e le note del suo clarinetto; la danza di Zorba sulla battigia (Antony Quinn era stato davvero su “Moya”!), l’urlo del mare indemoniato contro l’isola deserta di Lavezzi e il cimitero dei suoi seicento naufragati; la locandiera greca Irini che, sulla costa di casa mia, ascolta a giornata finita Itane mia fora di Xilouris. E ancora il canto dei galli evocati da Patrick Fermor, che si chiamano di isola in isola fino a svegliare il mondo intero; o il Meltemi che lambisce Cnido, promontorio ruggente che separa l’Egeo e dal Mar d’Oriente.
Ma c’è dell’altro. Il rombo delle eruzioni e dei terremoti. Il ronzio sinistro dei gommoni malandati delle mafie. L’ultimo richiamo di chi annega e grida al cielo il proprio nome per dire almeno “ sono esistito”. La bellezza del Mare Nostrum è compenetrata di tragedia. Puoi anche ignorarla: ma allora non ne comprenderai l’essenza, se è vero che il Tragos, il capro espiatorio, è un’intuizione greco-mediterranea. Non puoi turarti le orecchie. Devi ascoltare anche il crepitio del fuoco nei campi profughi di Lesbo, non lontano dall’isola di Patmos dove Giovanni scrisse l’Apocalisse. Sentire, nel silenzio di una sala buia dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, all’allerta sonora che su un grande schermo segnala ogni terremoto sulla spina dorsale del nostro mondo. E che dire dei rumori e delle voci sulle navi di soccorso tra Malta e Lampedusa: la babele di lingue, le liti, il tuono delle ventole e dei motori surriscaldati, l’agitazione nell’imminenza dello sbarco che si scioglie nei canti di preghiera o di ringraziamento delle donne davanti alla Terra promessa, un mantra che ti possiede per sempre.
Ma ci sono anche i suoni carichi di presagi della nave vuota, prima dei soccorsi. Ricordo le parole Alessandro Porro, anima di Sos Méditerranée Italia, la sua narrazione ad alta energia emozionale del silenzio carico di tensione che grava sulla ciurma quando scendono in acqua i gommoni di salvataggio. Attimi tesi, dove ogni sbaglio può costar caro e dove nessuno è autorizzato a parlare. I marinai conoscono quel cigolio degli argani, simile a quello di una ruspa, che si fa via via sempre più acuto, sottile, pungente. Un suono rituale, solenne, ouverture di una missione che entra nel vivo. E poi il gracidare del walkie talkie, che ciascuno dei trenta operatori a bordo deve tenere con sé per tre mesi ininterrotti, anche quando dorme, persino sotto la doccia. E le chiamate sul canale 16, quello delle emergenze, dove viaggiano la comunicazione tra navi civili e militari. Voci e richiami fra ignoti, raramente collegabili a un volto preciso. Ma quando, raramente, accade che quelle voci si materializzino in una figura in carne e ossa, ecco che la tensione rompe gli argini e libera un fiume travolgente di emozione.
Il Mediterraneo è un mitico spartito, di voci in prevalenza femminili. Con Piero, sulla vecchia “Moya”, facemmo un viaggio sulle rotte di Europa. Dovevamo farlo. C’era stata Brexit e, per polemica, egli aveva innalzato la bandiera stellata dell’Unione sopra quella britannica. Voleva poter narrare ai suoi allievi le terre del sole dalle quali Albione voleva separarsi. Mi parlò delle cartografie rinascimentali che raffiguravano l’Europa come una donna, e di quelle arabe dove le montagne, dalle Alpi all’Himalaya, erano la cintura tempestata di gioie di una veste femminile che nascondeva il premio per gli eroi puri di cuore. Ragionammo sulle Grandi Madri del Mediterraneo, su quella folla di Madonne nere, sibille, parche, menadi, prefiche, erinni, che affollano la sacralità del nostro Meridione e trovano la loro massima e vagamente inquietante espressione nelle Matres matutae di Capua. Sì, Europa era una femmina d’Oriente, e il Mediterraneo la sua culla. Quando, cinque mesi dopo, Pietro morì lasciando scritto, come Dylan Thomas, che la morte non l’avrebbe avuta vinta (« death shall have no dominion »), mi resi conto che nel Mare di mezzo egli aveva cercato nient’altro che sua madre. La madre dei popoli cui apparteneva. Sentii che avrei continuato a cercare le radici dell’Europa attraverso il mito e il sortilegio del verso che egli aveva cantato per noi. Fu come un ordine. Quel giorno, ricordo, i quattro venti si diedero appuntamento nel cielo di Trieste. Ma questa è un’altra storia.
Paolo Rumiz per Robinson di Repubblica.