IL LABIRINTO DI FORME E COLORI NELLE OPERE DI ANNALISA MAROTTA-MISURA ED EQUILIBRIO CEDONO DI FRONTE ALLE SUGGESTIONI FANTASIOSE DELLA MENTE- QUANDO L’ARTE SERVE PER DARE UN SENSO ALLO SCORRERE DEL TEMPO E ALL’EVANESCENZA DELLE COSE.
La storia è lunga parecchi anni, ed è difficile riassumere un percorso in cui le opere sono lasciate lì, a segnare il sentiero, quasi fossero necessarie a raccapezzarsi nel labirinto quotidiano. Un filo di Arianna che, guardato a ritroso, è forse la trama su cui si dipana una vocazione tradita. E’ il destino di chi non si fa travolgere dall’arte ma dalla vita, non distinguendo in fondo fra l’una è l’altra. E’ il destino di Annalisa Marotta, artista fine, sensibile e appartata, ma sempre accordata col mondo e le sue vicende. Dove per sue intendo sì quelle di tutti, ma in cui spiccano le vicende personali, che l’hanno distolta di un impegno più costante e proficuo, anche se la scarsità ha giovata alla qualità del lavoro.
Sono gli anni ’70 del secolo scorso, che qualcuno ha voluto definire magnifici. Certo, sono stati ricchi di stimoli e di novità; addirittura, per alcuni, anni febbrili di crescita e di esperienze. L’Italia, dopo avere arrancato per ricostruire le basi di un minimo di convivenza civile è in pieno boom economico, s’innamora dell’America, scopre il misticismo asiatico, i giovani di Erasmus sentono l’Europa come la nuova patria.
Sono gli anni di formazione per Annalisa Marotta, che guarda a mode e tendenze con un certo scetticismo, maggiormente attratta dalle idee e dalle opere di una serie di artisti e intellettuali, che formeranno il suo Pantheon personale e saranno fonte di ispirazione negli anni a venire. Singolare, ma non troppo: fra essi nessun italiano. Sono figure eclettiche, impegnate in diversi campi, personalità attive fra fine ‘800 e metà del ‘900: il filosofo Beltrand Russel, lo psicanalista C.G. Jung, i pittori Paul Klee, Juan Gris, Pablo Picasso, Marcel Duchamp e F. Hundertwasser , ma anche architetti come Mies van der Rohe, o le coreografe e danzatrici Madeleine Delbrel o Marta Graham.
E’ facile pensare che, se non avesse scelto l’insegnamento in storia dell’arte, facilmente Annalisa Marotta avrebbe fatto di mestiere l’architetta. Già Juan Gris aveva detto di considerare la pittura una architettura piatta e colorata. Spesso forme e colori nelle opere di Annalisa si modellano secondo schemi minimalisti attenti non alla descrizione della realtà, anche quando è interiore, ma a far prevalere il significato sulla forma. Forse tale prevalere ha consigliato ad Annalisa di non progettare, sulle orme di Mies van der Rohe, palazzi fatti di acciaio e vetro, ma di occuparsi di luci e ombre, sulla più leggera carta, friabile com’è friabile la vita.
Non a caso, le sue prime opere sono ispirate alle tavolette orfiche con le istruzioni per l’anima del morto sul modo di trovare la strada nell’altro mondo di cui parla Beltrand Russel nella sua Storia della filosofia occidentale. Si tratta per lo più di lamine o placche d’osso, con incisi messaggi sotto forma di preghiera o esortazione e, più raramente, disegni schematici di oggetti o ambienti. La più vecchia è stata ritrovata nel sito dell’antica Hippónion (oggi Vibo Valentia, in Calabria), databile al 400 circa a.C. E’ tanto bella che vale la pena qui riportarla, nella traduzione di G. Pugliese Carratelli:
A MNEMOSYNE APPARTIENE QUESTO SEPOLCRO.
Appena sarai venuto a morte,/andrai alle case ben costruite di Ade. V’è sulla destra una fonte,/accanto ad essa s’erge un bianco cipresso:/lì discendono le anime dei morti e cercano refrigerio./A questa fonte non accostarti neppure;/ma più avanti troverai la fresca acqua che scorre/dal lago di Mnemosyne: vi stanno innanzi custodi,/i quali ti chiederanno, con sicuro discernimento,/che mai cerchi per la tenebra di Ade sonnolento (?)./Rispondi: Son figlio della Greve e del Cielo stellato,/di sete son riarso e mi sento morire, ma datemi presto/la fresca acqua che scorre dal lago di Mnemosyne./Ed essi saranno pietosi per volere del sovrano di sotterra,/e ti daranno da bere l’acqua del lago di Mnemosyne;/e poi che avrai bevuto procederai sulla sacra via su cui anche gli altri/mystai e bacchoi si allontanano gloriosi.
Le “tavolette” di Annalisa Marotta sono acqueforti, acquetinte, xilografie che elaborano in chiave astratta l’argomento escatologico, interrogandosi sul significato della vita e della morte. Più che all’antecedente iconografico Annalisa è interessata ai contenuti esoterici e magici della prassi mortuaria, in voga negli ambienti orfici fra IV e V secolo a.c. Il rito di passaggio viene interpretato con moderna sensibilità, troviamo la linea spezzata, i segni graffiati su superfici prevalentemente monocrome; la prima “tavoletta” che vedete qui sotto è invece policroma, ma come racchiusa in un diffuso alone un poco stinto che rende le superfici estenuate e sfuggenti. Guardarla trasmette un senso di silenzioso equilibrio, la precarietà di qualcosa che sta sfumando sotto i nostri occhi, come l’arco che sembra librarsi nel vuoto.
Il terzo lavoro della serie sotto riportato è conturbante. Dietro due superfici apparentemente piatte, color grigio e prugna, si cela l’inganno e il travisamento. In due zone chiare prendono forma inconfondibilmente delle mani, non sai se in esortazione o pronte a ghermirti, o nell’atto di sorreggere qualcosa. Anche in alto, nella zona grigia, sembra apparire un volto che ti guarda. Il mascheramento è un elemento che appare più volte in queste opere introspettive.
Può apparire strano che una giovane donna si avventuri su un simile percorso, ma rielaborare quegli antichi segni mostra che l’artista intuisce che alla base di una vita serena sta la consapevolezza della fragilità umana.
Annalisa mostra di conoscere queste parole, incise come epigrafe sulla tomba di Klee: “”Non posso essere capito appieno su questa terra. Abito bene con i morti come con i non nati. Sono in qualche modo più vicino al cuore della creazione. Eppure non abbastanza. Sono calore o gelo? Al di là di ogni fervore questo è inspiegabile. Quando mantengo la distanza sono il più devoto. Nell’al di qua talvolta sadicamente felice…”.
I lavori sono tutti su supporto cartaceo, ma laddove necessita dare corposità, precisare i contorni e definire i volumi, la grana scelta del foglio si fa spessa, rugosa quasi la pennellata si stendesse su una pelle. Sotto luce appropriata, ne risulta allo sguardo un piacevole effetto di diffuso, impercettibile chiaroscuro. Una delle tecniche preferite da Annalisa Marotta, imparata alla scuola del libro di Urbino, è quella dell’acquatinta, proprio fra le più adatte a conferire all’opera l’effetto chiaroscurale voluto.
L’aspetto introspettivo è costante nell’arco di tutta la produzione di Annalisa Marotta. Nell’opera sopra riprodotta, dal titolo Melanos, sembrano riecheggiare le parole di Victor Hugo: “la malinconia è la felicità d’essere tristi”, una tristezza dal sorriso mesto, senza strepiti, densa di riflessioni capaci di arricchire Sul nero color bile ecco emergere il colore, o meglio il formarsi del bianco in un movimento ascendete, lanuginoso, che sembra accarezzare lo sguardo, mentre al centro campeggia un labirintico affacciarsi di colori, un insieme di linee ricurve che attrae come un gorgo. Il motivo della spirale non è originale; nell’astrattismo cromatico di Hundertwasser esso ritorna insistito per rappresentare la ricerca di una impossibile continuità, nonché il desiderio di una esplorazione interiore.
Dichiaratamente introspettiva, quasi una biografia nel suo formarsi, l’opera Resto nascosta, che vedete qui sotto, tra le più intense della sua produzione, fra le più vere. Siamo nel 2011.
In primo piano la linea è oramai spezzata. Il filo di Arianna non porta da nessuna parte e, prima di dissolversi, assume le sembianze di un filo spinato, che lascia una macchia rossa, sangue rappreso trasformato in un’orma. In alto, nella tripartizione della superficie pare emergere il ricordo di una vegetazione sbiadita e sotto una rete confusa di radici, quasi una radiografia del sottosuolo. Ciò che rende metafisico il lavoro è la figura posta al centro. All’inizio è un enigmatico oggetto scuro, sagomato, indecifrabile. Nelle sue macchie pare di poter indovinare i lineamenti di un viso, una maschera deformata dalla paura. Poi ti accorgi, sotto un insolito copricapo tipo dark navy o yankee, che si tratta di un viso scorciato a metà, un occhio sgranato ti guarda, mentre l’altro è oscurato dalla lente degli occhiali sorretti dalle mani in primo piano. C’è tristezza, anzi saudade, ma anche spiazzante autoironia in questo quadro.
Appena l’anno prima, nel 2010, la malinconia scava nel profondo, perde le residue luci e ogni vitalità. Ora le distese sono monocrome, piatte, il gesto è ridotto all’essenziale, il labirinto della mente non ha inizio né fine, l’esistenza sembra appesa ad uno dei suoi capi avvolta in un daimon che non si può più ostacolare,ma solo seguire, senza più capire o domandare. Guilty, uno dei più pessimistici quadri fatti da Annalisa è un omaggio bizzarro e amaramente triste alla moda dell’800 del self portrait. Ma questa volta da dietro il cavalletto, per ritrarsi ancora nascosta, scorciata, intenta a cancellare più che ad aggiungere tratti in un opera che non riconosce. Il titolo è più che allusivo: una colpa misteriosa, ma incombente, deve essere cancellata, ma l’arte ha questo potere? No!, ma può filtrare l’esperienza e farla diventare maschera, dietro la quale nascondere se stessa, apparire per non esserci, falsificare e confondere chi guarda.
Nei lavori di Annalisa Marotta periodicamente affiorano “suggestioni fantasiose”, come lei li chiama, ispirate da temi su architettura, musica e danza.Nelle sue ultime opere l’acquerello ha preso il sopravvento sulle altre tecniche, perché permette l‘immediata resa espressiva di trasparenze e forme, riducendo il gesto pittorico al minimo indispensabile, secondo quanto esortava Mies van der Rohe: Less is more.
La serie dei portali, di cui sotto vedete due esempi, è esemplare per equilibrio dei volumi e raffinatezza tonale. Sono lavori, grazie anche alle piccole dimensioni, che hanno la freschezza di bozzetti preparatori di opere più impegnative. Con essi Annalisa Marotta sembra in grado di recuperare appieno la felice ispirazione e il tratto leggero già appartenuto al Klee migliore. Dopo il mascheramento, il gioco, il fantasioso e libero sovrapporsi di macchie e trasparenze, per suggerire architetture solide e precarie ad un tempo, sospese eppure corpose, attraversate da ombre incombenti che portano a altre scale o interni indefiniti.
L’ispirazione kleemtiana nei lavori di Annalisa Marotta è disseminata sapientemente qua e là, come nel sottostante Senza titolo, per commentare il quale ben si attaglia quanto scritto da Wedderkop sempre a proposito dell’opera di Klee: “Tanto più quest’arte è lontana dall’usuale, quanto più è vitale nel proprio mondo. Qui forme e colori si scompongono ininterrottamente a vicenda. Le immagini divengono tanto più vitali quanto più le usuali leggi dell’inerzia sono sospese. E tuttavia tutto si adatta. In realtà, non vi è un singolo punto che riposi in questi quadri, ma vi è invece un eterno andare e venire dei colori e delle forme. Klee ama la linea infinita, la sua continuazione eterna, il suo attorcigliamento, la sua ramificazione ed infine il suo ritorno, per chiudere il cerchio e tener a distanza ogni rapporto con i vivi.”
Nella serie Castelli, è più l’astrattismo di Hundertwasser a entrare in gioco. La tavolozza, pur conservando preziose sfumature e delicatezze ignote al pittore e architetto austriaco, si arricchisce di colori, con felice libertà espressiva. Siamo di fronte ad un gioco, ad uno sguardo finalmente ludico e sereno sul mondo, ma, com’è nel temperamento artistico di Annalisa Marotta, senza lasciare cadere misura ed equilibrio. Alla spirale, alla linea curva spezzata o interrotta da cromatismi diversi, ora si sostituiscono campiture di colori accostati come in una variopinta scacchiera, in bilico fra illustrazione favolistica e pedine di un puzzle didattico. Ancora una volta dobbiamo rifarci a Klee e rubare le parole ad uno dei primi critici dell’artista tedesco, Leopold Zahn: ” La saggezza mistica guida l’artista all’astrazione. La fantasia infantile compone, in una lingua astratta, affascinanti e mai udite favole, ancor più fantastiche perché trascendenti, di ogni sherazad orientale. Questo libro del cosmo illustrato potrebbe essere anche chiamato un libro mistico di favole.“
Ogni tanto l’artista si lascia andare a rivisitazioni in chiave visionario-nostalgico di alcuni angoli della sua città. Ancora una volta un pretesto per stendere le arcate di un ponte del tempo che fu sulla memoria di un inquieto verde-blu di inesistenti fiumi; sommergere di fulgore la facciata della vecchia chiesa di San Rocco, scomposta in una miriade iridescente di tasselli che si rincorrono sotto il sole; oppure cogliere, inondata da un sole perlaceo, la Piazza Grande, con la verticale della torre dell’orologio e, sullo sfondo, il simbolo della Serenissima repubblica, il leone alato. Lavoro questo fra i più naturalistici, privo di ogni dimensione sociale, essendo ancora tutto un gioco di memoria, un rievocare senza tempo che, evitando i rischi del soliloquio, riesce a dare un senso allo scorrere del tempo e all’evanescenza delle cose.
Grande freschezza e vitalità, uniti ad un dinamismo sconosciuto nelle precedenti opere, caratterizzano i lavori che concludono questa presentazione. Si tratta di soggetti attorno al tema della danza, una passione giovanile di Annalisa Marotta. In quanto alla musica pare quasi di sentirla, in particolare nelle due prime Danze Macabre, che rimandano, presumo, a Saint-Saëns. Ma non si vedono morti che risuscitano o sudari volteggianti. Anzi, all’opposto, tutto è brillante, deflagrante, ondeggiante, mosso da un ritmo che appare essere più quello di un sabba di streghe sotto l’occhio della luna piena. La resa è molto sapientemente costruita, le linee ricercate, l’equilibrio fra eleganza formale e dinamismo è molto raro e difficile da realizzare, eppure in questa serie di opere ad Annalisa Marotta il gioco riesce. Sicché si perde quel calligrafismo che a volte si intravvede pedante, facendo apparire fredde decalcomanie decorative alcuni dei suoi lavori.
L’invenzione di più fulminante sintesi di un’idea di movimento e musica (forse qualche lontana reminiscenza degasiana è stata utile) è lo strepitoso monocromo Étoile ( il proscenio rosso serve solo per allontanate la figura, senza farne parte). Opera molto recente, mostra la oramai consolidata capacità di Annalisa Marotta di lavorare con esisti assai convincenti con il minimo dei mezzi, una parsimonia che nulla toglie alla potenza dell’immagine, anzi la isola in una sintesi simbolicamente definitiva.