LA MÌ LAVRA

20 Lug 2018 | 0 commenti

 

Roma sud. Odore di mare. Estate in tournée, concerti al Circo Massimo, stadi pieni, deliri popolari. Tra cornici alla parete, televisori accesi, caffè sul fuoco, tavoli larghi, giochi infantili sparsi a pioggia, aria di tribù, la voce di Laura. Il suo accento. La sua risata larga.

 

Eredità di Laura Pausini: «Vivo di contraddizioni e sono testarda come mia nonna. La madre di mio padre si chiamava Maria. Era la meravigliosa pazza di casa, accoglieva in un giardino grande come un fazzoletto tutti i gatti e i cani randagi del paese, ce l’aveva con gli uomini e non si radeva da quando, dopo quattro anni di matrimonio, suo marito era morto all’improvviso.

Non l’aveva assolto per l’abbandono prematuro: “Sono cattivi i maschi, finiscono per lasciarti sempre da sola” e non l’aveva perdonato per quell’antica promessa: “Ti porto a ballare” che aveva finito per non mantenere. Con i suoi baffi e il suo volto rugoso, con la sua voce roca, la sua forza straordinaria e il suo grande culone, l’unico della famiglia, che chissà perché, tra tutti i Pausini, ho avuto in sorte soltanto io, nonna Maria sognava di andare al Dancing Pamela, in balera, a bordo del suo motorino. Ci era arrivata, non si sa come, in sella al suo Ciao. Ogni tanto me lo prestava e tra un’imprecazione agli dei e l’altra era agli antipodi dell’altra nonna, nonna Norma, la madre di mia madre.

Con il suo vestitino blu, l’uncinetto sempre in mano e la pacatezza come secondo abito naturale, Norma era una donna gentile, timorata di qualsiasi esagerazione, nemica delle parolacce e, proprio come Maria, aveva seguito la mia carriera passo dopo passo. Le ho amate molto e sono state entrambe importantissime. Quando sono volate via, sono corsa al loro capezzale. Norma è morta nel 2007. L’ho raggiunta da Milano in fretta e furia. Non apriva gli occhi da due ore. Li ha spalancati, mi ha preso la mano, ha detto: “La mì Lavra” ed è spirata.

La seconda, invece, stava male da 8 anni, ma continuava a radunare animali nel cortile, a imprecare verso il cielo, ad andare in minigonna sulla pista e più d’uno pensava fosse immortale. Quando arrivò il momento mi chiese la playlist per il suo funerale. Una canzone di Giorgio Consolini, Tango delle Capinere e Parlami d’amore Mariù. “La voglio a tutto volume, Laura, che la sentano tutti”. Andò proprio così e Solarolo, con le sue 3.500 persone, finì per considerarci eccentrici come era sempre avvenuto: “Quelli fanno musica, vanno persino a cantare a Faenza in piazza, che vergogna!” una volta di più».

Roma sud. Odore di mare. Programmazione in vista di tournée, concerti al Circo Massimo, stadi pieni, deliri popolari. Tra cornici alla parete, televisori accesi, caffè sul fuoco, tavoli larghi, giochi infantili sparsi a pioggia, aria di tribù, la voce di Laura. Il suo accento. La sua risata larga.

Quando parla della caparbietà legando il sentimento al passato remoto e al futuro prossimo, alla famiglia di ieri e a quella di domani, ai casolari della campagna romagnola e a un altro tipo di campagna con orizzonti diversi, Laura Pausini scopre che il tempo non è passato invano: «Nei cambiamenti che pure sono avvenuti, in fondo sono rimasta la stessa di prima. Dico che sono testarda non a caso. Uscire adesso con Fatti sentire, il mio nuovo disco, non è stato facile».

Perché?

«Perché? Perché marzo è un periodo anomalo. I discografici nicchiavano. Mi dicevano: “Che problema c’è? Esci a Natale del 2018” ma mi sono imposta perché le canzoni non sono comandabili e non volevo tenerle ferme nel cassetto. E se poi a settembre avessi voluto scriverne delle altre?».

Quindi uscita irrituale.

«Nel disco ci sono 14 canzoni e per una volta non parlo molto di me. È il secondo lavoro, dopo Simili, in cui cerco di non essere autobiografica. Di me avevo raccontato quasi tutto e temevo di essere ripetitiva. Sono canzoni, queste, che parlano di delusione, di malinconie, di amarezze. Non è detto, il primo singolo racconta di una coppia in cui uno dei due sta per lasciare l’altro.

Del coraggio che richiede questa scelta. Del rischio di ferire. Di quanto sia pericoloso dare per scontate le cose, smettere di comunicare e di come tutto possa cambiare all’improvviso, sorprendendoci. Di solito le mie canzoni sono profetiche. Le cose che canto spesso si avverano. Spero non sia il mio caso, e comunque allontano il pensiero con tutta me stessa».

In primavera, apprestandosi a comporre, aveva confessato di aver paura.

«Ero preoccupata. Nel corso di questi mesi ho pensato intensamente a quale direzione prendere e ho viaggiato molto osservando realtà molto diverse. Avevo voglia di scrivere canzoni che assecondando una tradizione europea lontana da quella americana dessero importanza più al testo che al divertimento fine a se stesso».

E la preoccupazione è passata?

«Il disco mi piace molto. È un vestito che sento mio. Ora tocca al pubblico. Temo sempre di non essere all’altezza di quello che la gente si aspetta da me».

Possibile che dopo 80 milioni di dischi venduti abbia ancora timore?

«Ma sono proprio quegli 80 milioni a bloccarmi. So che devo ringraziare ogni giorno chi mi segue, ma la paura di deludere il pubblico non mi abbandona mai. Ormai sono abituata male. So che non posso fermarmi, so che devo inventarmi ogni volta qualcosa che sia più forte della volta precedente. Soffro all’idea di non avere idee nuove e quindi me le faccio venire, poi però soffro anche all’ipotesi di snaturarmi».

Non dev’essere semplice essere nei suoi panni.

«Evidentemente ho dei tratti da Psycho e devo avere una componente folle e masochistica».

Se arrivasse un insuccesso soffrirebbe?

«Senz’altro. Sono molto competitiva, ma solo con me stessa. La competizione con me stessa è la mia paura, il mio dolore, la ragione che mi spinge a stilare il calendario della mia vita».

Com’è questo calendario?

«Quando mi sveglio devo avere un obiettivo. E una volta individuato, raggiungerlo».

Da cosa nasce questa urgenza?

«Dal senso di responsabilità che sento verso il pubblico che mi ha permesso di avere successo. I miei non sono d’accordo e pensano che debba tutto a me stessa, ma io so che hanno torto e che la vita che vivo non me la sono costruita da sola. Se nel 1993 a Sanremo non mi avesse seguita nessuno, oggi non sarei qui. E magari, invece di avere la vita rosa che vivo, avrei una vita diversa.

Ma io conosco questa. So cosa significa un disco che va bene o meno bene, quando funziona o non funziona e conosco le reazioni delle persone che lavorano con te. Sono molto lucida e questa lucidità non è dovuta solo a me. Una volta avuta l’opportunità ci ho messo del mio, ma senza gli altri l’opportunità non si sarebbe neanche presentata».

Lei canta per noi quindi?

«Mi spiace deluderla, ma io non ho mai cantato per voi né per me. Ho cantato e canto per la musica, per le sensazioni che provo sul palco, perché mi diverto, perché se intono La solitudine, anche oggi, io penso davvero a Marco. Sul palco penso, a volte anche troppo».

Pensava anche agli inizi?

«Esiste un prima e un dopo. Esiste un tempo magico in cui canto con mio padre We are the world inventando le parole a 8 anni e poi il tempo del primo successo che mi travolse e mi stravolse».

Ma desiderava ottenerlo e fece di tutto per raggiungerlo?

«Io non ci avrei provato. Era mio babbo che ci provava. (Laura dice proprio così, «In Romagna non mettiamo l’articolo il» specifica, ndr). Mi diceva: “Se canti qui con me al Piano bar perché non puoi farlo anche lontano da qui?”».

Come fu l’impatto con il successo?

«Devastante. Per molti anni non sono più riuscita a essere me stessa. Era tutto gigante e tutto eccessivo, ma io non avevo alcuna voce in capitolo. Nessuno mi consentiva di parlare con i miei musicisti o con i discografici».

Le imponevano pezzi che non le piacevano?

«Quello per fortuna non è mai accaduto, ma in un certo senso mi sentivo una bambolina trascinata qui e là. La svolta accadde in America. Mi ero trasferita lì per qualche mese nel 2001 e venni trattata, salvo rare eccezioni, come quella che non volevo essere e men che mai diventare. Non avevo un manager e dovetti fare di testa mia».

Cosa fece?

«Mandai a fare in culo un grande capo delle major Usa e scoprii una parte di me che non conoscevo. La parte della ribellione».

Fu importante?

Fondamentale. E mi rese molto orgogliosa. Non ero più un’adolescente ma vivevo come tale. Ero molto protetta dalle persone che avevo intorno fino quasi a esserne soffocata. Permettere agli altri di non farmi crescere nel momento in cui era necessario farlo restava una mia precisa colpa, ma dire il primo no fu importantissimo. O reagivo e mi assumevo delle responsabilità, o cadevo per sempre. Scelsi di reagire e da allora sono diventata una decisionista. Prendo tutte le decisioni, quasi sempre in modo drastico. Perché le decisioni non sono mai morbide, le decisioni non possono accontentare tutti né pretendere consenso».

Fatti i conti, sono 17 anni che fa come vuole. Si sente una persona migliore?

«Migliore non so, più giusta senz’altro».

Cosa ha perso nel frattempo?

«Un po’ di dolcezza. Mi preoccupavo sempre e solo degli altri. Piangevo spesso da bambina, ero super felice o super riflessiva. Molto simile ad adesso. Piangevo per paura di sbagliare, non piacere alle persone a cui tenevo, al fidanzato, ai compagni di scuola o ai miei genitori. Fino al 2001 ho pianto per moltissime cose. Ci ho ripensato poco tempo fa e mi sono detta: “Cavolo quanto era bello saper piangere”. Piango ancora ogni tanto, ma una volta accadeva anche se avevo paura. Ora non più».

La nuova Laura l’ha liberata?

«Ha liberato me e anche gli altri. Mio babbo mi vedeva chiusa in una bolla e soffriva nel non vedermi reagire. In un certo senso, a rivedermi oggi nelle vesti di ieri soffro anche io. Ogni tanto recupero un frammento tv di allora e riguardandomi mi sembra di vedere una rincoglionita».

Non sia così dura con se stessa.

«Non avevo 14 anni, ne avevo 20. Ero naïf, troppo naïf. Mi intervistò Mentana e mi disse: “Sei zuccherosa”. Non era un complimento, ma aveva ragione. Non avrei potuto rimanere così per tutta la vita, non avrei potuto vivere serena, avere un uomo al mio fianco, costruire una famiglia. Forse chi è naïf vive con più leggerezza, ma io non sempre so coltivare una leggerezza interiore».

Come difende sua figlia dalle durezze della vita?

«Ogni tanto, se se lo merita, con un rimprovero. Non sai mai come educarli, i figli. Ma non voglio che lei si senta migliore perché viaggia, vive in una bella casa o perché sua mamma è riconosciuta per strada. Voglio che impari a dormire in un sacco a pelo come in una reggia».

Un giorno Totti disse: «Sogno di fare una passeggiata in via del Corso senza essere fermato dalla gente». Capita anche a lei?

«Mi capita, ma l’anno scorso, per fare i regali di Natale, mi sono travestita. Di solito li accumulo durante i mesi, piano piano, stipando tutto in una valigia chiamata regali. Ma ero in ritardo e mi sono ridotta all’ultimo momento. Così mi sono infilata una parrucca bionda, un paio di occhialacci, una gonna che non metto mai e sono andata alla ventura. A far doni in giro per la città camuffata».

È passata nei negozi in incognito senza che nessuno la riconoscesse?

«Per tre ore non mi si è filato nessuno. Poi alla cassa ho detto grassie e la cassiera ha detto: “Ma lei è la Pausini?”. Prima ancora di poter rispondere ero accerchiata. Mi sono vergognata come una ladra. Non solo avevo la parrucca bionda e gli occhiali, ma abbigliata così era chiaro che mi ero travestita apposta. Ho fatto una figura di merda e mi sono sentita una vera cretina».

E adesso quando deve uscire?

«Non mi travesto più. Scelgo orari meno affollati. L’altra sera sono andata a vedere il film con Paola Cortellesi alle 22.30. Occhiali, piumone, coda di cavallo. Non c’era uno che mi abbia detto buonasera».

Che cos’è l’amore per Laura Pausini?

«La possibilità di dire e sentirsi dire senza paura anche le cose sgradevoli. Paolo, il mio compagno, lo fa. E lo ha sempre fatto mia sorella. Quando nacque mi fece capire una cosa importantissima».

Quale?

«Che se uno ti ama, non esistono percentuali. Prima che arrivasse pensavo che l’amore dei miei genitori fosse soltanto mio. Poi ho capito che si può essere amati al cento per cento anche se il sentimento è diviso tra due figli. L’amore è l’unica cosa che non posso controllare. L’unica cosa che mi faccia impazzire di gioia all’improvviso. L’unica sulla quale le riflessioni sono inutili».

Di solito con chi parla di queste cose?

«Con Paolo. E forse da domani anche con la psicologa. Vorrei ricominciare ad andarci per capire meglio alcuni nodi ancora irrisolti».

Quali?

«Perché per esempio restare da sola sia stata una delle grandi paure della mia vita. Quando mio padre partiva in tournée estiva a Cervia, dopo lo aspettavano i suoi ammiratori da Piano bar, mia madre restava spesso sola. Mi sembrava che stesse male, forse ho proiettato su di me quel malessere. A volte le cose vanno elaborate, spiegate, analizzate. Se vai troppo veloce non c’è mai il tempo di farlo».

Che spiegazione dà al suo successo estero?

«Ne ho parlato a lungo con Andrea Bocelli. Siamo di estrazione simile, veniamo entrambi dal Piano bar, da un’idea del rispetto dell’altro che definirei contadina. Ci siamo confessati un po’ di dispiacere reciproco nel vedere che l’esperienza estera è minimizzata quando non avversata. Invece di essere considerati un orgoglio, a volte c’è stata ostilità. Sembrava che ce la tirassimo, quando volevamo soltanto condividere una gioia. Ora è passata. Una cosa però la so, se non avessi avuto successo in Italia non mi sarei mai azzardata a superare la frontiera».

Le dispiace essere considerata una brava ragazza?

«Assolutamente no. Sono una brava ragazza, ma resto un po’ pazza. La mia famiglia è una sit-com divertentissima. Si piange, si ride e ci si incazza. Siamo un po’ matti noi Pausini. E quella vena di follia mi ha salvato la vita».

Malcom Pagani per Vanity Fair

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