Il poeta e la scrittrice. Lui italiano, scomparso da poco. Lei ungherese, ma da quasi sessant’ anni stabilmente in Italia.Vive in un’ ampia casa nel cuore di Roma. Lui è Nelo Risi (fratello del più celebre Dino). Lei Edith Bruck: la sola che è rimasta di sei tra fratelli e sorelle. Edith è una donna straordinaria. Intensa come poche. Bella, come se il tempo l’ abbia ripagata per tutto quello che ha dovuto subire. Ha scritto un libro notevole su Nelo, La rondine sul termosifone edito da La nave di Teseo.
È un titolo strano. Bizzarro. Come fa una rondine a posarsi su un termosifone? Ma nella visione alterata di un malato di Alzheimer tutto diviene plausibile: poetico a volte e terribile più spesso.
Negli ultimi anni della sua lunga vita a Risi fu diagnosticata una progressiva degenerazione cerebrale. Un viaggio, senza ritorno, nelle oscurità della mente. Che cosa ha rappresentato quella esperienza agli occhi di una donna che decise, nonostante il parere dei medici, di affrontarla, anzi di immergersi fino alla disperazione più pura in quell’ anfratto di follia? Ho letto con pietà e commozione questa vicenda scritta da una persona che nel corso della sua vita si è portata sulle spalle il tremendo carico dei campi di concentramento nazisti, di cui è diventata un’ imprescindibile testimone. Ecco la sua storia.
Perché ha voluto scrivere un libro così privato e intimo, tanto da apparire a volte brutale?
« Perché la vita sa essere brutale, feroce, iniqua. Ma anche con delle sorprendenti aperture alla luce. L’ ho scritto totalmente di nascosto. Mentre lui dormiva. È stata la sola libertà che ho davvero provato in questi anni di oltraggio e bellezza che la malattia scatenava. La mia fuga da un vissuto estremo. Un vissuto da cui a volte saliva una strana fragranza».
A un certo punto lei chiese a Nelo se poteva scrivere intorno alla storia che stavate vivendo.
«Mi sembrava moralmente importante chiederglielo in un momento di lucidità».
Cosa ha risposto?
«Che era giusto, che potevo farlo. Poi è caduto in una specie di silenzio turbato».
Quando scoprì la malattia di suo marito?
«Il primo segnale fu durante un viaggio ad Assisi. Perse l’ equilibrio, svenne. Era il 2004. Imputò l’ episodio al caldo eccessivo e alla stanchezza. Solo qualche anno dopo cominciai a rendermi conto che qualcosa non funzionava. Nel 2007 ebbi le prime evidenze della malattia».
In che modo?
« Aveva girato un documentario su Andrea Zanzotto, del quale era molto amico. Quando lo visionai percepii che non era più lui. In alcune parti il film era sconclusionato. E più glielo facevo notare più si intestardiva. Non riconosceva di aver sbagliato. Quando da Pieve di Soligo tornammo a casa, in treno si fece la pipì nei pantaloni. Lì cominciò la discesa».
Suo marito è morto l’ anno scorso.
«Il 17 settembre mi è scivolato esanime dalle mani».
Come è stata la quotidianità di questi anni?
«Un misto di sensazioni anche contrastanti. A volte la notte mi cercava urlando il mio nome o chiamandomi mamma. E io ero a pochi centimetri da lui, con il cuore che mi batteva fortissimo. In balia delle sue cellule impazzite. Sembrava un uccellino malato con il capo chino e gli occhi semichiusi».
Quando vi conosceste?
«Incontrai la prima volta Nelo il 9 dicembre del 1957. Restai incantata da quel volto mite e aristocratico. Venivo da una storia un po’ tumultuosa e deludente con un uomo che era stato ricco e si riempì di debiti. Lo scoprii dopo un paio di anni adagiati in una vita lussuosa».
In che modo lo scoprì?
« Mi telefonò un creditore e seppi che era assediato da persone che volevano essere pagate per tutto quello che Geo, era il suo nome, aveva acquistato con l’ incoscienza del dissipatore. Gli dissi che la nostra storia finiva lì, che non sopportavo l’ idea che dopo mio padre anche la persona con cui convivevo dovesse farmi vivere in preda a quell’ ansia».
E lui?
«Mi guardò smarrito e poi rabbioso. Minacciò di spararmi con la pistola da partigiano che aveva conservato. Gli dissi che volevo essere libera, libera, libera. Glielo urlai e al suono di quella parola abbassò l’ arma».
Perché scelse di venire in Italia?
«Giunsi nel 1954. La verità è che doveva essere solo una tappa di passaggio. In realtà ero preparata a raggiungere la mia sorella più grande in Argentina. Le scrissi da Napoli chiedendole i soldi del viaggio. Era una donna benestante e fui sorpresa quando mi rispose che i centociquanta dollari necessari avrei dovuto guadagnarmeli. E che lei non mi avrebbe dato niente».
La ferì?
« Sì, ma non ho mai provato risentimento nei suoi riguardi. Ricordo che prima di morire mi disse una cosa che mi sconvolse: ” Edith sarei campata dieci anni di più se tu non fossi mai tornata dai lager”».
Forse era il senso di colpa per qualcosa che non visse direttamente.
« Forse. La verità è che temeva e si vergognava della povertà. Quando un giorno incrociò mio padre tornare stanco e misero dal lavoro, cambiò marciapiede. Come se davvero la miseria fosse un’ onta e non una colpa dei ricchi».
Lei come ha vissuto la povertà?
« Guardavo alla dignità di mio padre, al suo candore, e penso che, grazie al suo comportamento, gli stenti che abbiamo provato siano stati meno umilianti. Una volta il babbo tornò senza cappotto. Era inverno e lo aveva regalato a una persona più bisognosa di lui».
Dove vivevate?
<All’ estremo Est dell’ Ungheria, quasi al confine con la Slovacchia, in un villaggio di cinquemila abitanti. Le famiglie ebree erano in tutto una quindicina, quindi una netta minoranza. Ma già alla fine degli anni Trenta si percepiva l’ antisemitismo. Abitavamo in una casa di due stanze. Il tetto era di paglia. Con mia sorella e uno zingaro riuscimmo a sostituire la paglia con le tegole. Finalmente avevamo un riparo come tutti gli altri».
Il villaggio come si chiamava?
« Tiszakarád. Prendeva il nome dal fiume Tibisco. Ricordo che nella parte vecchia delle anse andavamo d’ estate a nuotare».
Quando ebbe inizio la tragedia della deportazione?
«I gendarmi – ungheresi che collaboravano con i tedeschi – arrivarono. nel 1944. Era l’ inizio di aprile, subito dopo la Pasqua ebraica. Bussarono all’ alba. Ci trascinarono fuori. Ci fecero salire su un camion e ci portarono nel ghetto del capoluogo. Quasi immediatamente si creò una strana atmosfera nel ghetto».
Ossia?
« I più poveri al villaggio erano discriminati, anche dagli ebrei ricchi. Ma trovarsi improvvisamente nello stesso spazio coatto produsse una insolita forma di democrazia, di solidarietà. Non c’ erano più i ricchi e i poveri. Non c’ erano più privilegi. Eravamo tutti gettati nello stesso destino. Mi stupì che potessi per esempio giocare con il figlio del dottore. Ma è ciò che in quel momento avvenne».
E dopo?
«Finimmo ad Auschwitz. Avevo quasi tredici anni. Ci divisero tra donne e uomini, e poi tra coloro che erano in grado di affrontare i lavori forzati e quelli che direttamente erano destinati alla camera a gas. Si sentiva un puzzo asfissiante. Molte volte sono stata sul punto di essere eliminata. Mi sono salvata per miracolo. Una volta dissero a un gruppo di noi ragazze che ci avrebbero dato una razione doppia di cibo se avessimo portato dei giubbotti ai soldati che stavano alla stazione in partenza per il fronte. Dovevamo percorrere otto chilometri a piedi. Non ce la feci a sostenere il peso dei giubbotti. Mia sorella si offrì di portarne una parte e un’ altra parte la gettai nella neve. Anche le altre a quel punto cominciarono ad alleggerirsi del carico. Un tedesco se ne accorse e ci fece fermare».
Cosa accadde?
«Chiese chi era stato il primo a buttare quegli indumenti. Nessuno rispose. Gridò ancora. Poi, non ottenendo risultato, minacciò che avrebbe ucciso una di noi ogni minuto trascorso. A quel punto feci un passo avanti. Lui venne verso di me e cominciò a picchiarmi. Mia sorella gli si gettò contro, gridando basta, basta. Il soldato cadde nella neve. Si alzò a fatica. E pulendosi i pantaloni avanzò minaccioso verso di me. E mia sorella. Eravamo a terra. Ci abbracciammo, convinte di essere ormai morte. Il soldato si fermò davanti a noi e disse: “Se oggi due puzzolenti e schifose ebree hanno il coraggio di mettere le mani addosso a un tedesco, allora solo per questo coraggio meritano di sopravvivere”. Mi allungò la mano e mi fece alzare».
E’ stata soltanto ad Auschwitz?
« Passai sei mesi a Dachau. In quel periodo lavorai nelle cucine di un castello dove si erano insediati gli ufficiali richiamati. Pelavo rape e patate. Era proibito mettersi qualunque cibo in bocca e se provavi a nascondere qualcosa si vedeva immediatamente. Sotto un rozzo pastrano eravamo nude. Non avevamo calze e portavamo zoccoli. Un giorno il cuoco mi chiese come mi chiamavo. Lo guardai sorpresa. Risposi con il numero che avevo inciso sul polso: 11152. No, il tuo nome voglio sapere. Edith, risposi. E mi sembrò che quella voce fosse la stessa di un Dio che ti dona una nuova esistenza. Aggiunse che aveva una bambina della mia età. Mi regalò un pettinino. In quel momento compresi che quel gesto mi restituiva tra gli umani. Era la luce che si faceva strada dentro il buio».
Quando fu liberata?
« Il 15 aprile del 1945 a Bergen- Belsen dagli americani. Pesavo venticinque chili. Faticosamente ripresi a vivere».
C’ è una qualche relazione tra quello che ha sofferto allora e quanto ha raccontato in questo nuovo libro sulla malattia di Nelo Risi?
«Sono due grandezze non commensurabili».
Questo lo immagino. Ma è come se ogni volta la sua scrittura diventi una testimonianza diretta del dolore.
«È il solo modo che conosco di scrivere, dentro un qualche estremo. Si chiami Shoah, che pure ha una irriducibile unicità, oppure malattia. Per me scrivere era e resta una forma di terapia. La carta sopporta parole che neppure lontanamente immaginiamo».
E anche qui, in questo buio, ha trovato momenti di luce?
« Sì, anche se diversi. Ho sentito qualcosa che non ha niente a che vedere con la fede. Ma con la speranza certo. Durante la malattia di Nelo ci sono stati momenti straordinariamente luminosi. A volte mi guardava dicendomi cose che non mi aveva mai detto: “Ti amo”. Diceva cose anche importanti: ” Il tuo palmo è la mia fondamenta”. Prima fuggiva. Timido. Poi si è come liberato dall’ introversione. Occupandomi di Nelo, tenendolo in vita, nonostante ciò che consigliavano i medici, ho riportato alla vita tutti i miei cari tragicamente scomparsi».
E’ servito scrivere?
«Sì, è servito. È stato il ponte tra il silenzio e il mondo. Ho sempre amato e ascoltato il silenzio del mondo. E da ultimo pensavo al silenzio muto e sordo di Nelo cui dover dare una forma. Un’ etica».
È un altro modo di dire “testimonianza”?
«Sì, e a volte mi veniva in mente quella altissima di Primo Levi».
Lo ha conosciuto bene?
« Come un fratello, se veniva a Roma dormiva spesso da me. Quattro giorni prima di morire mi telefonò».
Cosa le disse?
«”Non ce la faccio più, Edith. Non ce la faccio più. Ormai scrivo al buio, accanto a mia madre cieca e riversa nel letto”. Era dolorosamente colpito dalle affermazioni negazioniste. Di chi diceva che c’ eravamo inventati tutto. ” Capisci?”, diceva. ” A che serve tutto quello che abbiamo testimoniato?”».
Che cosa pensa della sua morte?
« Non aveva il diritto di suicidarsi. Io penso che la nostra vita non appartiene solo a noi ma anche alla nostra storia. A coloro che ci sono accanto. Quando il cognato mi diede la notizia per telefono, smisi di mangiare e cominciai a urlare. No, non aveva il diritto. Ero disperatamente arrabbiata».
Le è restata questa rabbia?
«Verso chi?».
Non verso Primo Levi, ma nei riguardi di tutto quello che le è accaduto?
«C’ è una rabbia profonda e impotente verso Dio. Dov’ era quando accadeva l’ orrore estremo? E provo rabbia per tutto quello che sta accadendo oggi. L’ uomo non impara dai suo errori e questo mi fa impazzire. Cosa deve ancora succedere? Possibile che siamo così ottusi e incorreggibili? Diventiamo nuovamente razzisti, fascisti, nazisti! A cosa serve la memoria in un mondo smemorato?».
Dio è un orizzonte totalmente precluso?
« No, le mie origini non sono passate invano. C’ è un Dio tutto mio che prego cercando le risposte che non ho avuto. È anche quello un modo di tornare alla fonte dei miei pensieri mai espressi, e desideri mai realizzati».
È un’ interrogazione che l’ ha portata dove?
«A non odiare. L’ odio chiama solo odio».
Antonio Gnoli per Robinson- la Repubblica