Senza Strega, social network, “Ferrante fever” e promozione, Sveva Casati Modignani ha venduto oltre 12 milioni di copie ed è stata tradotta in venti paesi. Gli intellettuali la ripudiano. E lei ne ride
Noi quattro – intendo Verga, De Roberto, me e un po’ Capuana – accusati di scorrettezza, abbiamo un pubblico che ci segue e ci legge, perché dovremmo morire?”. Era il 1895 e Matilde Serao parlava così, in un’intervista con Ugo Ojetti, del successo. Era una bestsellerista – orrida parola che non conobbe mai, beata lei. Le venivano bene i libri e le venivano bene i giornali. Il pubblico l’amava, la critica molto meno: vecchia storia.
Insieme a Colette, Serao è una delle due scrittrici che Sveva Casati Modignani segnalerà a un giornale che le ha chiesto consigli di lettura per iniziare bene l’anno che verrà, il 2021 che tutti aspettiamo come s’aspetta una guarigione senza convalescenza. “Fondò giornali, scrisse romanzi strepitosi, era grassa ed esuberante, una lavoratrice pazzesca, un’entusiasta della vita”, dice al Foglio. “La Sveva”, così la chiamano i lettori, quest’anno ha pubblicato il suo trentatreesimo romanzo, “Il Falco” (Sperling&Kupfer), e come al solito è filata dritta in cima alle classifiche, per settimane. E’ una garanzia: esce un suo libro e il primo posto dei più venduti è suo, subito. Succede da molto prima che quella che il New York Times ha definito “Ferrante Fever”, la nouvelle vague delle scrittrici italiane molto lette e amate e tradotte, diventasse un fenomeno editoriale. Da molto prima delle destrutturazioni e rivendicazioni del nuovo femminismo. Da molto prima che s’acquisisse il fatto che letteratura femminile e letteratura rosa non coincidono, e si dibattesse poi dell’opportunità o meno di dare un genere alla letteratura (questione aperta, probabilmente non chiudibile). Da molto prima che finire in classifica non venisse più considerato la morte della letteratura e, di conseguenza, le vendite acquistassero una rilevanza addirittura nobile (finalmente) e il direttore della Fondazione Bellonci, Stefano Petrocchi, senza rischiare il linciaggio o l’ostracismo, potesse dirlo pubblicamente: “Quando mettiamo l’accento sul fatto che lo Strega consente al vincitore di moltiplicare le vendite per quattro o per cinque, non vogliamo mettere in luce l’aspetto commerciale della cosa bensì evidenziare che il premio riesce a far entrare in classifica la narrativa pura. Quando uno Strega ha successo, significa che ha valicato il pubblico di lettori forti ed è stato acquistato anche da chi compra due libri all’anno o addirittura nessun libro”. La Sveva, senza Strega, social network, Ferrante Fever, televisione, amici della Domenica e del sabato, ha venduto oltre 12 milioni di copie ed è stata tradotta in venti paesi. Nonostante questo, non si parla di lei come una figura esemplare della nostra letteratura contemporanea, non c’è mai stata alcuna febbre Modignani, il suo nome non figura negli elenchi di scrittrici recapitati ad Alessandro Laterza, che qualche giorno fa ha scritto su Twitter: “Essere scrittori è altro dal saper scrivere bene: è avere uno stile, un proprio uso del lessico, sintassi, figure retoriche, eccetera. Trama, personaggi, soggetto sono marginali.
Cerco lumi sulle scrittrici italiane contemporanee. Per mia lacuna, mi fermo a Ginzburg e Morante. Grazie”. Decine di liste firmate da indignate autrici, seccate lettrici, soccorrenti lettori, tutti ammucchiati in discesa a difesa della loro celebrazione, e naturalmente a segnalare il sessismo, lo svilimento della donna (a un editore che ha pubblicato “Bastava chiedere”, un libro sul “carico mentale” delle donne, ovverosia tutto ciò che l’organizzazione della vita quotidiana di mariti, capi, amati, amanti, figli, affini, congiunti e disgiunti appalta loro in modo coattivo). Ginzburg e Morante compaiono nell’elenco dei favolosi quaranta libri scritti da donne che Elena Ferrante ha stilato per il Guardian, insieme a Michela Murgia e Valeria Luiselli: per il resto, nessun’altra scrittrice italiana. Anche lì, niente Sveva. “Meglio, molto meglio così, per carità”, dice lei, che su questo punto è stata sfotticchiata sempre, senza scucirle mai di bocca un risentimento, un rimprovero, un dispiacere. Le sta davvero bene così. Vittorio Spinazzola, morto quest’anno, inventore di “Tirature”, una collana di critica letteraria che ha curato per quasi trent’anni (dal 1991 al 2020), la definì “un fenomeno anomalo della narrativa italiana”. Era il 2005 e da allora la critica letteraria cominciò a guardare a lei con un interesse diverso: Spinazzola aveva sconfessato la convinzione comune secondo cui SCM scriveva romanzi rosa, corposi Harmony con un taglio storico, certo, ma pur sempre rosa.
Morante e Ginzburg preferivano essere definite scrittori, anziché scrittrici, perché sapevano che da una donna che scriveva non ci si aspettava che romanzetti: il retaggio è tutt’altro che estinto. E’ sua grande fan Roberta Scorranese, che sul Corriere della Sera non manca mai di recensire un suo libro, la descrive come autrice pura e aristocratica, generosa e coraggiosa, ché ci vuol coraggio a far finire le storie lietamente, a fregarsene degli intellettuali, delle dolenti umaniste, ad accogliere con dolcezza l’idea di mettere i lettori di buonumore. Lo fa apposta? Neanche per sogno. In lei, tutto è semplice, così com’è, si prende come viene e si prende come va. Neanche un po’ di spleen, sindrome da pagina bianca, horror vacui, interrogazioni esistenziali, crucci estetici, ardua ricerca dell’ispirazione, requisitorie: scrivere le viene facile perché le viene facile inventare.
Come fa? Cosa mangia? Che crema usa? Qual è il suo segreto? “Come arrivino le idee vorrei saperlo anche io, di certo non le trovo dal ferramenta. La creatività è un dono e io lo sfrutto al meglio. A me scrivere rende felice. I giorni più belli della mia vita sono quelli che trascorro tappata in casa a raccontarmi le mie storie. Quando presentano i miei libri e dicono ‘ecco l’ultima fatica’, m’imbufalisco. Ma quale fatica: se uno deve far fatica, allora cambi mestiere”, dice al Foglio. Poi ride, pensa, ride ancora, e dice: “E guardi che l’atto materiale della scrittura, quando si lavora a un romanzo, è proprio l’ultima cosa. Io scrivo continuamente, scrivo mentre faccio la spesa, cammino, preparo il ragù. Un libro nasce a mano a mano che i personaggi ti si delineano in testa, da soli”. Natalia Ginzburg aveva la stessa fecondità, le storie le nascevano dentro senza difficoltà, e lei ne diventava strumento, scriveva di notte fino all’alba, “strappando in fretta quel che c’è da strappare prima di venire stritolati” – aveva una vita domestica e familiare assai laboriosa e impegnativa, se ci fosse stato un calcolatore di quel “carico mentale”, avrebbe battuto svariati record; Pavese una volta le scrisse che doveva smetterla di fare figli e pensare solo a scrivere, e anche per questo scrisse, nel “Discorso sulle donne” per la rivista Mercurio, dell’impossibilità delle donne di non “cascare nel pozzo” di non impensierirsi, di oscurarsi, pensare agli altri.
Ma tra Sveva e Natalia c’è un oceano, almeno secondo i lettori “forti”. Chissà se esistono davvero, poi, i lettori forti. “Se sono una scrittrice orribile, significa che un enorme numero di persone ha un gusto orribile”, disse a un giornalista Grace Metalious, una che con Peyton Place scrisse cos’erano le casalinghe americane degli anni Cinquanta, divenne caso editoriale e poi finì alcolizzata, ignorata e snobbata dagli intelligenti. “Io so soltanto una cosa: la Sveva la leggono tutti, le immigrate, le dottoresse, le cassiere, i maschi”. E’ per questo che non le importa di avere le attenzioni della critica e degli intellettuali? “Un mio amico medico, un chirurgo bravissimo, uno che fa trapianti di cuore, salva la vita delle persone con le mani, una volta ha detto che tra cinquant’anni si dirà di me che i miei romanzi hanno raccontato il cammino delle donne nella storia d’Italia”. Lo ha scritto anche il Corriere della Sera:
“Sempre calata nel tempo delle sue storie, costituisce un riflesso della società e del mondo”. Se ci sia un romanzo, di questa sua serie lunga una vita che sembra una collana, cui è più affezionata, la Sveva non lo sa, o forse non lo dice, forse non ci ha mai pensato, forse non conta. A lei interessa il futuro: “Ogni scarrafone è bello a mamma sua. Tutte le volta che scrivo libro, mentre lo scrivo, penso che è bellissimo, il più bello di tutti, poi lo finisco, lo rileggo e penso: poveretta, faccio quel che posso. La verità è che più del risultato, mi dà gioia scrivere, raccontare. Mi dà respiro, per me è tutto”. Ad andare in pensione non ci pensa nemmeno, intende lavorare finché ha aria nei polmoni. Matilde Serao morì seduta alla sua scrivania, mentre lavorava.
In comune con “la risata più sgraziata d’Italia”, così le parigine dei salotti buoni chiamavano Matilde, che in effetti rideva sguaiatamente, in un modo che però piaceva moltissimo ad Anatole France, che le disse “sono certo che Balzac ridesse come lei, signora”, in comune con la scrittrice che fondò il Mattino, il Giorno, e inventò il costume come lo facciamo adesso, la Sveva ha anche il lavoro al fianco del marito, Nullo Cantaroni, con il quale ha scritto i primi romanzi. “Non è esatto. Io scrivevo, lui criticava. Io inventavo, lui correggeva. Era molto utile, per carità, ma il grosso lo facevo io, anche se dicevo che scrivevamo insieme. Mi capita ancora che qualche lettore mi dica: i suoi libri erano più belli quando li scriveva insieme a suo marito. E io sghignazzo”. Sghignazza. Non sta mica lì a puntualizzare, a dire: e no, caro, guardi che era farina del mio sacco anche allora, guardi che lei ha un riflesso patriarcale grande quanto una casa nel cervello e non se ne rende nemmeno conto. La Sveva si mantiene lieve, a cuor contento. Ha paura del Covid, “perché è una brutta morte” e, da sempre, “dell’indifferenza e del malaffare”. E basta. Di cosa resterà dei suoi libri o di cosa se ne fa chi li legge, anche di nascosto, non se ne cura. E’ felice quando le sue storie entrano nella vita delle persone, quando le lettrici le scrivono: io avrei fatto così, quello là lo avrei punito di più, quella là l’avrei premiata di meno. E’ felice quando le sue lettrici s’identificano, tabù massimo degli intellettuali raffinati, quelli che pensano che se un libro non invera una vocazione al martirio in chi lo ha fatto o in chi lo ha letto, allora vale quanto una puntata dei Simpson.
Vive nella stessa casa, a Milano, quartiere Crescenzago, da sempre. E’ scritto anche nella sua biografia sulle quarte di copertina dei suoi libri: ci tiene, dice tutto di lei. Lì è nata lei e prima di lei sua madre e prima ancora sua nonna. La conoscono, amano, fermano tutti. Una volta che ha perso gli occhiali al supermercato, la cassiera ha detto al microfono: aiutiamo la Sveva a trovare gli occhiali. Naturalmente, li aveva lasciati a casa.
La Sveva ai libri pensa e lavora con l’ariosità dell’atleta e la concretezza del marmista e soprattutto con la gioiosità della bambina, perché “sin da bambina ho saputo che avrei scritto, che nella vita volevo fare questo: raccontare storie. Inventavo anche quando facevo la giornalista. Le mie interviste erano in parte vere e in parte no. Non è che proprio mentissi: diciamo che ricamavo”. Il suo primo articolo era un’intervista a Joséphine Baker. “Una donna meravigliosa, elegantissima, raffinata. E, soprattutto, di peso. Quando la incontrai, andammo a pranzo in un vecchio ristorante di Porta Vittoria, La Pesa, che adesso non c’è più, e mi raccontò il suo impegno per i bambini poveri, cui dedicò tutta la seconda parte della sua vita. Lei, lei che aveva fatto il bagno nello champagne, avuto tutti gli uomini si suoi piedi, popolato i sogni di mezzo mondo. Fantastica”. Storica anche la volta che andò per intervistare i Beatles e non ci riuscì da quanto erano ubriachi e malmessi, quindi fece il pezzo su quanto erano ubriachi e malmessi. E l’altra volta ancora che, invece, raggiunse Visconti in albergo e lo trovò nella vasca da bagno, con un bicchiere di vino in mano e la schiuma dappertutto. “Scrivere sui giornali non poteva durare, primo perché io ero e sono una ribelle: soffro le consegne, gli ordini, i temi, le scelte dei capi; secondo perché negli anni Sessanta le redazioni erano piene di uomini che massacravano le colleghe, o eri Oriana Fallaci o non potevi che dedicarti ai problemi di cuore, e comunque ti insultavano e disprezzavano qualsiasi cosa facessi. Ricordo che una giornalista che teneva una rubrica sulla salute femminile la chiamavano ‘L’eco dell’utero’, con l’accento sulle o, alla francese. Poverina. Mio marito era un giornalista ed è per questo che non scriveva romanzi: gli mancava l’affabulazione. Io sono una grande affabulatrice, forse anche per questo non mi dispiaceva raccontare che i miei romanzi erano scritti a quattro mani con mio marito, finché è stato vivo, nel 2004, dopo vent’anni di malattia, vent’anni durante i quali per la maggior parte del tempo non è riuscito nemmeno a pensare”. Come Colette e Serao, la Sveva non s’è risparmiata nella collaborazione con l’uomo che amava, né ha preteso di vedersi riconosciuto ogni merito, di specificare le quote, le spettanze.
“Il Falco”, il suo ultimo libro, ha un titolo e una copertina da romanzo d’appendice, e invece è ispirato alla storia di Leonardo Del Vecchio, il fondatore di Luxottica. Racconta la storia d’amore che riaffiora tra lui e la sola donna che, per tutta la vita, ha avuto in mente, e che ritrova dopo anni, matrimoni, successi, ma soprattutto racconta un uomo che dal niente ha costruito un impero: dentro quel niente, scava. “Mi sono chiesta: che uomo è questo, cos’ha assorbito della sua famiglia, dove sono le tracce dell’identità, in ciò che neghiamo o in ciò che accettiamo?”. C’è anche molto sesso, rispetto agli ultimi libri. “Una mia lettrice mi ha dato della birichina. Ma non sa che liberazione sia, alla mia età, poter guardare un uomo senza provare alcun desiderio fisico o carnale, appassionarsi solo alla sua intelligenza, se c’è, e alla sua sensibilità, se c’è”.
La casa della Sveva è sempre piena di amici, o almeno lo era fintanto che incontrarsi era legale e salutare. Per loro le piace cucinare: pare che nessuno batta la sua mousse e nemmeno il suo risotto. Lei dice che succede perché per cucinare bene non basta seguire le ricette: ci vogliono il buon umore e “il pollice giusto, come nel giardinaggio c’è il pollice verde”. Non ha neanche un’amica o un amico scrittore, si confida spesso con Landini, che l’ha aiutata molto quando ha scritto “Suite 405”, il suo unico romanzo ambientato quasi interamente in fabbrica, qualche anno fa – i giornali titolarono tutti “La signora e il sindacalista”, e suonava un po’ porno, parecchio a sproposito.
Del presente, ama il futuro: ha una fiducia sterminata verso le nuove generazioni. Dice che i suoi nipotini sono studiosi, accorti, attenti, quando spreca l’acqua la rimproverano – “e fanno bene, io mi vergogno moltissimo se penso che per colpa degli scempi della mia generazione non godranno dello stesso benessere di cui ho goduto io” – e che quando ha regalato loro un Kindle collegato alla sua carta di credito, s’è accorta che dopo i primi mesi non compravano più libri – “quando ho domandato come mai, mi hanno risposto: preferiamo i libri di carta, i libri veri. Per me e quelli come me, giornali e libri sono finiti, per loro, invece, rinascono. E’ incredibile”. Delle donne pensa che siano migliori degli uomini – “e spiego anche perché: il primo tentativo, Dio lo fece con l’uomo, lo guardò, penso che gli era venuto bene ma che poteva fare di meglio, e fu allora che creò la donna, che infatti qualcosa in più la ha, è più generosa e partorisce”. E sì, crede in Dio. Anche adesso che tutto sembra una sua punizione.
Simonetta Sciandivasci per il Foglio Quotidiano
In copertina: Gallerie d’Italia, donna ritratta in stile liberty