LA VITA AGRA E LA GRAPPA GIALLA: RICORDO DI LUCIANO BIANCIARDI

10 Ott 2019 | 0 commenti

Luciano Bianciardi è stato uno scrittore, giornalista, traduttore, bibliotecario, attivista e critico televisivo italiano. Contribuì al fermento culturale italiano nel dopoguerra, collaborando attivamente con varie case editrici, riviste e quotidiani. Amava il Risorgimento sfacciato della camicia rossa e le battaglie di Garibaldi con il sigaro in bocca.

Ammirava i braccianti e i miniatori delle sue maremme. Detestava i ragionieri milanesi, il disordine della grande città neocapitalista, le segretarie secche del terziario avanzato, gli intellettuali larghi, autorevoli e prudenti. E mentre tutti lodavano i grattacieli, i supermercati e il fatturato del Boom, lui scriveva isolato contro “la diseducazione sentimentale del Miracolo economico”, proclamandosi anarchico, provinciale e guastafeste. Per i suoi molti disincanti di italiano solitario, Luciano Bianciardi amava il Risorgimento. Non quello di Cavour, re degli inchiostri politicanti, ma quello sfacciato di Garibaldi che vinse tutte le sue battaglie in campo aperto, con il sigaro tra i denti, sempre sapendo che avrebbe perso l’ultima: destinazione gli scogli spumeggianti di Caprera, incorporati alla solitudine dell’esilio. Gli piaceva immaginare l’epopea delle piazze di Palermo e Napoli, liberate, con le bandiere in festa. La fatica dei soldati semplici (…), i ragazzi, in camicia rossa, morti per l’ideale, quando ancora l’ideale brillava in purezza, prima di diventare lo spento bottino dei re piemontesi e del loro esercito sceso a occupare il Meridione con tasse e baionette. Gli piaceva la rivoluzione di popolo anche quando resta inconclusa, irretita dalle cautele delle classi dirigenti, dagli opportunismi, dai tradimenti politici, dai vantaggi personali, come sarebbe accaduto una seconda volta, proprio davanti ai suoi occhi, con la Resistenza tradita, anche quella lampo di un riscatto incompiuto, dopo la guerra persa e vent’anni di tragico stordimento fascista. Lui nel fascismo c’era nato, anno 1922, e c’era cresciuto, senza mai prendere nulla sul serio, se non a vent’anni il massacro della guerra, poi le macerie di una Italia transitata dalle camicie nere delle adunate, al nero dei funerali e della fame, eppure velocissima, dopo la pace, a
sbiancarsi d’abito, ammaestrata dallo stesso conformismo di prima, benedetta dallo stesso prete.Luciano Bianciardi

Diceva che era stato il padre Atide a trasmettergli il lungo incanto per il Risorgimento, l’epica dei Mille, il cuore puro di Garibaldi. C’era voluto il lento Dopoguerra di provincia a fargli rimpiangere davvero quella stagione di vite mirabolanti in gioco, di speranze comuni a una intera generazione, e a voltare quelle delusioni del passato, nell’insofferenza per il presente. Che per lui era già diventato il matrimonio, il primo figlio, le passeggiate notturne con gli amici a discutere della vita che scappa, di un quieto vivere che lentamente soffoca. Fino a quel fatidico pomeriggio di maggio, quando il boato squassa la miniera di Ribolla, 43 minatori bruciati in un istante dal grisù, impossibile continuare la vita di prima, impossibile accontentarsi delle lacrime e della retorica dei funerali. Non provare – come lui provava, seduto sui gradini del Duomo – una “tremenda incazzatura” contro i vivi, contro la rassegnazione, contro la sabbia del presente. Ma il furore, forse, non sarebbe bastato a convincerlo di lasciarsi alle spalle l’insopportabile Grosseto. Ci voleva l’amore per Maria Jatosti e poi una scrivania nella nascente casa editrice Feltrinelli, lassù a Milano, a perfezionare quel distacco dalla vita di prima. A far salire anche lui su quel treno, anno 1954, come stavano facendo tanti altri giovani intellettuali che dalle provincie arrivavano nella nuova capitale dell’industria culturale

Gian Giacomo Feltrinelli

(…). Quasi tutti con lavaligia di cartone piena di libri e idee, poco tempo per la nostalgia. Salvo Luciano. Che quella rabbia se la portava dentro, come una sua personale predisposizione, sapendo che non sarebbe mai stata troppo comune alla sua generazione, come non lo fu quella dei garibaldini. E dunque trovandosi da subito spiazzato nella Milano delle cento fabbriche, delle cento miniere, delle cento case editrici “arredate come profumerie”. Un provinciale fuori posto. Un “anarchico individualista” che vestiva strano, parlava colto, poteva accoglierti con un abbraccio o con un grugnito. Un eccentrico che viveva (scandalosamente) con una donna non sposata e una famiglia tradita. Un visionario ingenuo. Ma anche un irritabile idealista che parlava troppo, specie al lavoro, della grande città come di una “giungla merdosa”. Dove vivere è sempre più complicato, perché “i soldi ti corrono dietro e ti scappano davanti”. Specie dopo il licenziamento dalla Feltrinelli, per reciproca insoddisfazione, quando gli tocca scalare il fine mese con il duro lavoro del traduttore a cottimo, inseguendo cambiali, figli, bollette che scadono.

Da quella fatica Luciano estrasse il meglio, la trilogia della rabbia – Il lavoro culturale, L’integrazione, La vita agra – scritta di notte in compagnia della grappa gialla e di certe ossessioni che viravano il suo sguardo al nero, all’insofferenza. Facendogli intuire, molto prima di Pier Paolo Pasolini, anche se più confusamente, i veleni del consumismo, il vuoto dell’omologazione, la solitudine dell’uomo dentro al rumore della folla. Con La vita agra arrivano i soldi e il successo, quello vero, che non è più solo “il participio passato di succedere”. Arriva un po’ di fama, qualche festa, qualche vacanza. Ma anche lo stupore per la inaspettata circostanza che la sua invettiva gli spalanchi i sorrisi e i salotti: “Invece di mandarmi via da Milano a calci nel culo come meritavo, mi invitano a casa loro”. E poi: “Finirà che mi pagheranno uno stipendio per fare l’arrabbiato”. Lui quello stipendio non lo vuole, gli sembra un cedimento, un altro passo verso la definitiva integrazione piccolo borghese in una Italia che non gli piace.

Non sopporta la chiesa democristiana e quella comunista, le ideologie, le piccole mafie dei premi, le virgole dei letterati da convegno, le cordate. Rifiuta un ingaggio al Corriere della Sera (…). Bazzica i notturni milanesi, Jannacci, il Santa Tecla, il Derby Club. Frequenta giornalisti sportivi, pittori matti, fotografi squattrinati (…). Nell’Italia bigotta scrive di rivoluzione sessuale e anarchia. Elogia l’ozio, contro il calvinismo milanese (…). A metà dei Sessanta abbandona Milano. Fa l’errore di scegliere Rapallo. Finisce dentro le sue piogge e i suoi bar, dove beve Campari e mastica chiacchiere da nulla. Si incanta ai suoi tramonti, mentre lassù a Milano arrivano i primi sprazzi del ’68 che hanno musica e parole per lui già vecchie, già sentite. Guarda e non capisce. Non gli piacciono gli studenti in piazza, né il nuovo conformismo della protesta. Così che avendo vissuto una sua rivoluzione dei costumi in anticipo, di colpo si ritrova in imperdonabile ritardo. È in quel ritardo che tornano a balenare il Risorgimento e le sue storie. Belle da scrivere. Belle da raccontare. Come una vacanza. Come una nostalgia delle tante cose perdute – nella lunga apnea milanese e poi ligure – che non hanno mai smesso di abitargli dentro. (…) Scrive di quegli anni lontani (…) sapendo che quel passato contiene la chiave del presente. Un presente collettivo, che riguarda la nostra Italia imperfetta, “lacerata e divisa”, tra Nord e Sud, ricchi e poveri, analfabeti e dotti. E un suo presente privato, di provinciale che dopo tanti anni, cerca in quelle pagine, in quelle emozioni, la strada del ritorno. Non avrà abbastanza energia per intraprenderlo davvero quel ritorno. Distratto da troppa solitudine. Prigioniero di troppi bicchieri, troppi brindisi tristi alla sicura sconfitta (…). E consegnandoci le pagine finali di un Garibaldi – uscito postumo – dove per l’ultima volta raccontava l’esilio del generale, per non parlarci del suo.

Articolo di Pino Corrias, Il Fatto quotidiano

Per notizie sullo scrittore: www.fondazionebianciardi.it

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