L’ALIENO VENUTO DA KHARKIV

27 Mar 2025 | 0 commenti


Ricordo quando hai imparato a fare i capricci. Pensavo che il primo passo per crescere fosse smettere di farli. Scema io. I capricci li fai solo se qualcuno ti guarda.

La prima parola russa che mi hai insegnato è stata Smotri!, “Guarda!”. Mamma, guarda, bevo! Mamma guarda, salto! Qualunque cosa tu facessi, volevi essere guardato. Chissà se era questo il primo capitolo dei manuali per genitori che si leggono quando si aspettano i figli e che io non avevo letto perché non ti aspettavo.

Sei arrivato a nove anni, a pezzi, senza il manuale per l’assemblaggio. Non avevo capito che quel giorno lì, agli arrivi di Malpensa, attrezzata di bolle di sapone e lavagna da disegno per comunicare nella sola lingua comprensibile a entrambi, sarei diventata mamma. Mi ero offerta di accogliere ragazzi ucraini durante le vacanze. Ricordo cosa mi disse la psicologa dell’ente: “Non aspettarti un bambino, aspettati un alieno”. La nostra ostetrica. I bambini che non sanno piangere sono alieni.

Ho realizzato che avevi difficoltà a comunicare per via della lingua. Non il russo, l’organo. “Mamma, ti preoccupi se un giorno non parlo, guarda che io prima non parlavo tanti mesi”.

Mi attenevo all’unica istruzione: “Smotrì!”. “Eccomi, fammi vedere come scivoli, fammi vedere dove ti fa male”. Cresciamo solo nella luce, come le piante. Nel buio le persone spariscono come nel buio le cose. Se nessuno ci vede smettiamo di guardarci, di lavarci i denti, svegliarci, mangiare, pisciare nella tazza, parlare. Quando ho visto i bambini deambulare per i corridoi dell’istituto di Kharkiv mi sono ricordata l’ospizio dove andavo a giocare a tombola. Stesso rumore di pantofole strascicate. Stesso lasciarsi andare dei vecchi rimasti soli.

Non piangevi nemmeno se cadevi ai giardinetti e usciva il sangue. Non sapevi cosa fosse la bua. “Ti fa male?!”. Ti stupivi perché io reagivo come se il sangue uscisse a me. Ti sei rotto un braccio a sette anni. L’ho saputo solo molti anni dopo. Nemmeno allora hai pianto. Le lacrime sgorgano se qualcuno le asciuga, altrimenti tornano indietro e ingolfano il cuore.

Io ti guardavo. Mentre mi insegnavi a cucinare, a giocare a scacchi, a suonare il piano facendo finta di saper le cose che avevi visto fare agli adulti.

“Quindi il re può saltare di due in due caselle?”

“Sì mamma, sennò muore”. “Quindi mischio il sale allo zucchero?”

“Sì mamma, così non viene troppo dolce o troppo salato”.

I sorrisi che erano smorfie perché non sapevi come si faceva a esprimere la felicità.

La contentezza che ti travolgeva all’improvviso per cose piccole come una spinta in altalena. Prima, nessuno ti spingeva. Tu che urlavi, facevi roteare la testa, scalciavi, sorpreso da quell’emozione che non sapevi dove mettere e come tirare fuori. Non sapevi cosa fosse il solletico.

“Mamma, io soffro solo se mi fai tu”

“Se te lo fanno gli altri no?” “Nessuno mi fa”.

Il primo bagno al mare della tua vita: “Un bambino grande con i braccioli”. “Mamma, guarda.

Sei arrivato A 9 anni, a pezzi, senza manuale per l’assemblaggio Non avevo capito che quel giorno lì sarei diventata madre

nuoto!”. La prima volta che mi hai chiamato mamma, che non è stata la prima. “Mama” lo dicevi alle mamumcke che vi preparavano il cibo in istituto. Indossavi la felpa azzurra con scritto Six. Ti sei battuto la mano sul petto: “Mamma, io Syn”. Pensavo volessi insegnarmi il “sei” in russo. “Sei?”. “No, Io Syn! Io syn!” La voce metallica del traduttore simultaneo del telefono: “Io Figlio! Figlio! Figlio!”. Io che ti chiamo così, Figlio, dal giorno in cui mi hai adottato.

La prima volta in bici. Io che insistevo, tu che cadevi, io che lo so, Maria Montessori, che le rotelle non si usano più perché si impara a stare in equilibrio con quelle bici senza pedali ma per i bambini grandi non le fanno perché quelli hanno già avuto qualcuno che gli ha insegnato a pedalare da piccoli e se da grande non sai ancora stare in equilibrio farai fatica a stare in equilibrio per tutta la vita, lo so, non fa niente, “è tutto un equilibrio sopra la follia”, Maria cara, a questo puntiamo noi, è tardi per infilare i cubi nella fessura a cubo: noi ci tocca giocare a bocce con i cubi e vedere l’effetto che fa.

“Mamma, bici schifo, ti odio, lafanculo!” Io che mi commuovo, perché se mi mandi affanculo senza paura che ti abbandoni vuol dire che lo sai che sono tua mamma.

La prima cima di montagna, il primo campeggio, la prima manifestazione. A ogni traguardo una smorfia, come quando gli elettrodomestici fanno contatto e invece di accendersi saltano per aria. I fili delle emozioni da riallacciare senza manuale, e allora piangere quando c’era da ridere e ridere quando c’era da piangere era una buona cosa, secondo me, Maria, perché vuol dire che almeno fa contatto, no?

Vado sempre a vedere le recensioni dei posti dove siamo stati in Ucraina. La pasticceria, il cinema, il museo di storia. Mi sorprendo di trovarli aperti. “Sushi sempre fresco”. Ultima recensione: due settimane fa. “Stai tranquilla Francesca, basta evitare la metro”, mi dicono quelli rimasti, perché lì ti possono fermare i reclutatori ma il più delle volte no: qui nessuno riesce a fermare nessuno e “speriamo che finisca presto”. Un popolo con i fili tagliati.

Il tribunale, la giudice che ti rimprovera perché parli russo: “Perché parli russo? Tu sei ucraino”. Tu che rispondi: “No, io sono italiano!”. La sentenza, la festa fuori dall’aula, la giudice che ci augura buona vita, in russo. Di chi sono le lingue? È di Putin il russo? È di Zelensky l’ucraino? Già allora, cresciuta in un paese bilinguista per Costituzione, ribollivo per quella violenza.

Tu che in Italia scrivi la storia della tua vita: “La vita tiepida di Denis”.

“Figlio, perché tiepida?” “Perché tiepida è l’acqua della vasca quando non senti se è calda o se è fredda. E io non sentivo niente”.

Il racconto del primo incontro all’aeroporto, con questa signora che ti porta le bolle di sapone: “Io ero come un sasso”. Poi scrivi dell’arrivo in Italia, la partenza, tu che non volevi più andare via. E piangevi.

Quando decidi di cambiare titolo perché “Tiepida era la vita di prima”. E cancelli, e scrivi il titolo nuovo: “Io sono fortunato”.

Oggi la Cassazione stabilisce che anche i single possono adottare, che è nell’interesse del minore. Serve una legge, perché i single possono essere risorse anche più preziose, soprattutto per i più grandi. Messi di fronte a una coppia, a una relazione, alcuni si sentirebbero inadeguati, tagliati fuori. L’abbandono condanna a una vita in lotta contro la convinzione di non essere adatti, desiderabili, capaci, compresi, visti.

L’altro giorno il Fatto ha pubblicato una foto dei ragazzi ucraini nei centri per l’arruolamento. In mutande, storditi. Ci sono moltissimi orfani tra i soldati. Se il tribunale dei minori di Roma non mi avesse concesso di adottarti, da single, con “l’adozione speciale” per casi particolari, ora indosseresti una mimetica che ti avrebbe reso ancora più invisibile. Invece sei qui che vai a vela, vinci a scacchi, studi cucina, vuoi fare lo chef, hai imparato a fare cose che non ti ho insegnato io e tante ne hai insegnate tu a me, tipo che in certi piatti ci va davvero il sale e lo zucchero.

Articolo di Francesca Fornario per Il Foglio Quotidiano

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