L’Amazônia di Salgado

13 Ott 2021 | 0 commenti

La mostra di Sebastião Salgado Amazônia, al MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo che resterà aperta sino al 13 febbraio 2022, unica tappa italiana del progetto del fotoreporter brasiliano è un contributo alla grande discussione che si aprirà con Cop26 a Glasgow.

“La fotografia è una faccenda di variabili: quando le domini smettono di essere variabili e diventano costanti.” 

Salgado è stato il primo a unire l’impegno sociale alla tecnica fotografica di paesaggio e reportage, dando soprattutto a quest’ultimo un valore estetico prima d’ora non ancora concessogli e mantenendo entrambi i generi in linea coi più grandi maestri del Novecento. Quella riportata sopra è una sua frase durante la conferenza stampa del 30 settembre al MAXXI di Roma, unica tappa italiana della mostra Amazônia, che conta più di 200 immagini raccolte in 48 spedizioni eseguite in quasi dieci anni. 

Sebastião Salgado

Si parla di paesaggio e di uomini, e se ne parla con un chiaro e potente invito ad agire e a prendere consapevolezza del rischio che l’ecosistema più importante al mondo, il “Paradiso verde” in grado di riversare nell’oceano il 20% dell’acqua dolce di tutta la Terra, sta correndo.

E lo si fa proprio nei giorni di Pre-COP26 a Milano. Il tema è chiarissimo, i pannelli esplicativi e le mappe ai lati del percorso di visita riportano spiegazioni tecniche sul comportamento dell’ecosistema amazzonico, citando per esempio i “fiumi volanti”, unicità del luogo, come sulle popolazioni indigene, ampiamente documentate anche con video interviste ai capi tribù.

In risposta a una domanda durante la conferenza stampa Salgado dice: “Io ho cominciato a fotografare a 30 anni e mi sono preso tanto tempo. […] Per fare bene una foto bisogna scegliere un soggetto o un tema che si ama. Bisogna fotografare temi e soggetti con i quali si ha una identificazione totale, se manca questo manca tutto. […] La motivazione è l’amore. La tecnica? Sì certo, c’è tecnica, anche io ho una tecnica, però attenzione perché la fotografia è una cosa un po’ più artigianale, ricorda un po’ più la cucina. […] Io mi ricordo ancora, di certe foto che vedrete, il momento esatto in cui le ho scattate. Perché le ho fatte così? Perché le ho scattate in un momento in cui io ero convinto che mi trovavo in Paradiso, che stavo fotografando le cose più belle che esistano al mondo, e che avevo il dovere a quel punto di trasformarle in immagini affinché tutti potessero vedere quella enorme bellezza.”  

Anavilhanas, isole boscose del Río Negro. Stato di Amazonas, Brasile, 2009 – © Sebastião Salgado/Contrasto.
Sciamano Yanomami dialoga con gli spiriti prima della salita al monte Pico da Neblina. Stato di Amazonas, Brasile, 2014 – © Sebastião Salgado/Contrasto.

Tra i vari aspetti della sua poetica, Salgado ha detto una cosa in particolare che ci fa avvicinare al suo stile fotografico, ovvero la scelta del soggetto, che richiede uno sguardo lucido e preciso – oltre che motivato dalla propria sfera emotiva – su ciò che si vuole di volta in volta rappresentare.

Giovane donna Ashaninka. Stato di Acre, Brasile, 2016 – © Sebastião Salgado/Contrasto.

Si prenda ad esempio “Anavilhanas, isole boscose del Río Negro. Stato di Amazonas, Brasile, 2009”: l’acqua del fiume, sottili lembi di terra, un cielo largamente invaso da grosse nuvole. Lo sguardo è guidato dall’attrazione maggiore, la superficie ipnotica e centrale dell’acqua. E proprio lì avviene l’inizio di una separazione, grazie all’uso del bianco e nero: la superficie dell’acqua, se la si osserva, è come tagliata in due orizzontalmente, la parte inferiore più scura e quella superiore più chiara, per via del riflesso delle nuvole. 

Famiglia Ashaninka. Stato di Acre, Brasile, 2016 – © Sebastião Salgado/Contrasto.

Di solito a guidare l’occhio di chi guarda una fotografia sono proprio le zone chiare rispetto a quelle scure, e aiutano a capire l’orientamento di lettura. In questo caso, si ha un fluido movimento ascensionale verso l’orizzonte, prima, e la possanza delle nuvole, poi. Le fotografie di Salgado sono accomunabili da questo termine, “fluido”, così come il suo stile di bianco e nero, mai troppo aggressivo.

Indiana Yawanawá. Stato di Acre, Brasile, 2016 – © Sebastião Salgado/Contrasto.

La sua potenza e la sua riconoscibilità stanno proprio in una sottile gentilezza nei toni, in una chiarezza espositiva che lascia spazio solo alla contemplazione. Lo si nota anche quando immortala fenomeni più intensi, come in “Rio Negro. Stato di Amazonas, Brasile, 2019”, in cui si vede una precipitazione in lontananza così fitta da sembrare un unico fascio luminoso. L’occhio viene guidato naturalmente verso di essa, e non solo per il fenomeno in sé. Infatti, anche se non è l’elemento nettamente più luminoso dell’immagine, lo si è posto sul terzo orizzontale centrale dell’inquadratura; inoltre, lasciando il terzo superiore (le nuvole) e quello inferiore (l’acqua del fiume) leggermente più scuri si è fatto in modo che l’occhio venga automaticamente attratto dal soggetto e che lì ritorni anche dopo aver guardato tutto il contesto che lo circonda.  

Giovani donne Suruwahá. Stato di Amazonas, Brasilel, 2017 – © Sebastião Salgado/Contrasto.

Nelle fotografie di Salgado, per quanto sia preponderante il tema sociale e politico, non si può quindi prescindere da un discorso estetico, formale. Indubbiamente, guardando i suoi ritratti, così come i suoi paesaggi, sono ravvisabili i più grandi maestri, da Wynn Bullock a Irving Penn (i suoi ritratti a figura intera in studio a sfondo neutro per indagini etnografiche), da Minor White ad Ansel Adams (le sue rivoluzionarie immagini dello Yosemite), che hanno realizzato i capolavori cui ogni fotografo deve fare riferimento.

Nei ritratti, con lo sfondo scuro e una luce diffusa, o ambientati nei contesti familiari ai soggetti, lo sguardo è quasi sempre puntato sullo spettatore, richiede un confronto di petto, così come nelle immagini di reportage. In “Sciamano Yanomami dialoga con gli spiriti prima della salita al monte Pico da Neblina. Stato di Amazonas, Brasile, 2014” si vede un uomo in mezzo alla foresta e un corso d’acqua alle sue spalle. Ha le braccia alzate, il torso nudo dipinto e l’espressione colta nel coinvolgimento del rito che sta compiendo. Due uomini sono accovacciati in punti diversi dietro di lui. Qui, oltre a un bianco e nero che prevede una vasta e morbida scala di grigi, senza toccare mai bianchi e neri puri, si ha una perfetta triangolazione dei tre uomini, ben visibili e ripresi in modo tale, di nuovo, da guidare lo sguardo dal punto principale – l’uomo in primo piano e al centro – allo sfondo, là dove filtra più luce tra gli alberi e proprio dove si vede il terzo uomo, incorniciato dalle braccia alzate dello sciamano.

Famiglia Korubo. Stato di Amazonas, Brasile, 2017 – © Sebastião Salgado/Contrasto.

La fotografia di paesaggio e quella di reportage condividono il comune principio di mostrare una realtà predefinita, ovvero formatasi naturalmente, sia che si tratti di una catena montuosa, sia che si tratti di più uomini che svolgono delle azioni. Il fotografo che usa questi linguaggi afferma silenziosamente che la realtà può essere perfetta così com’è, così come si predispone autonomamente. Bisogna solo sapersi mettere nel punto giusto per guardarla. Salgado fa proprio questo, ci rende testimoni dell’armonia che vive indipendentemente da qualunque fattore, e che va preservata nella sua grandezza e libertà. 

La mostra è stata curata dalla moglie di Sebastião, Lélia Wanick Salgado, che ha pensato un allestimento molto suggestivo ed immersivo. La sua intenzione era quella di “far entrare fisicamente i visitatori dentro la foresta amazzonica.” Le sezioni dedicate alle fotografie sulle tribù indigene, infatti, sono allestite in strutture che ricordano le loro capanne, chiamate “ocas”, e tinte di ocra. Quelle di paesaggio, di grande formato, sono invece allestite in modo da camminarci in mezzo, rendendo il disorientamento che si avrebbe trovandosi in quei luoghi. 

Monte Roraima. Stato del Roraima, Brasile, 2018 – © Sebastião Salgado/Contrasto.

Lélia voleva, inoltre, che “l’illuminazione scaturisse dalle foto stesse e tutto il resto rimanesse un po’ in penombra.” L’operazione è talmente ben riuscita da farle sembrare retroilluminate. Scattate tra il 2009 e il 2019, con qualche eccezione risalente al 1998, e vivendo anche quindi il passaggio dall’analogico al digitale, le immagini hanno inoltre la caratteristica del pieno. 

È così, infatti, che Salgado vuole farci immergere nel luogo delle sue radici, nel paesaggio che mantiene in vita ogni altro paesaggio da noi conosciuto, come in “Rio Jaú. Stato di Amazonas, Brasile, 2019”, in cui l’inquadratura è riempita da una fitta vegetazione e dal suo riflesso nelle acque della foresta. 

Rio Negro. Stato di Amazonas, Brasile, 2019 – © Sebastião Salgado/Contrasto.

Altro elemento portante della mostra è la musica. È stato infatti coinvolto Jean-Michel Jarre per comporre una colonna sonora che riuscisse a rendere ancora più profonda l’immersione dei visitatori nell’atmosfera amazzonica attraverso i suoi suoni. Inoltre, il poema sinfonico Erosão (Origem do Rio Amazonas) del 1950 del compositore brasiliano Heitor Villa-Lobos (1887-1959) e una composizione del musicista contemporaneo Rodolfo Stroeter accompagnano due proiezioni in due sale distinte poste a metà percorso, una che mostra immagini di paesaggio boschivo, l’altra quelle di reportage e i ritratti agli indigeni. 

Rio Jaú. Stato di Amazonas, Brasile, 2019 – © Sebastião Salgado/Contrasto.

Guardando questi ultimi, si entra in contatto diretto con umanità intatte, ormai in forte pericolo a causa di deforestazioni, inquinamento, e ora anche del “virus del pipistrello, quello che hanno portato i bianchi” si sente dire da un capo tribù. Alcune delle popolazioni ritratte da Salgado contano solo più poche centinaia di individui, e fanno tornare alla mente uno dei personaggi più toccanti di Werner Herzog nel suo Dove sognano le formiche verdi (1984), che tratta più o meno gli stessi temi, ma contestualizzati nel mondo degli aborigeni australiani. Tra di loro esiste un uomo, unico portavoce rimasto della sua popolazione ormai spazzata via, considerato muto. Muto non perché non sia in grado di parlare, ma perché è l’ultimo uomo a conoscere la sua lingua, rendendolo isolato e comunicativamente inaccessibile. E ci si chiede se già esistano casi simili anche in Amazzonia, o quanto poco manchi effettivamente per arrivare a questo preludio della fine di intere culture. 

Arcipelago fluviale di Mariuá. Rio Negro. Stato di Amazonas, Brasile, 2019 – © Sebastião Salgado/Contrasto.

17 sezioni, 6 a raccontare l’Eden terreno, paesaggi che rendono di nuovo attuale il sublime romantico, che alla meraviglia unisce un profondo e reverenziale terrore per ciò che non si può totalmente comprendere per limiti imposti dalla propria stessa umanità; 11 per avvicinarsi a quelle umanità che l’Eden ancora lo vivono e che ne custodiscono i segreti più antichi. 

Non si vedrà l’Amazzonia “blessée”, ferita, distrutta, ma l’Amazzonia sacra, la sua potenza, là dove possono essere scorte le origini del mondo, il giardino da cui in verità non siamo mai stati cacciati. 

Indigeni Marubo. Stato di Amazonas, Brasile, 1998 – © Sebastião Salgado/Contrasto.

Carola Allemandi per Doppiozero.com

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