LAMPEDUSA, DALLE ACQUE CIRCONFUSA

25 Gen 2020 | 0 commenti

Uno scrigno d’orrori e autentica meraviglia

Viaggio nella maggiore delle Pelagie: una “meta a metà”, il cui destino è legato ineluttabilmente al mare che la circonda e la fa somigliare a una terra del mito

Nell’immaginario comune è l’isola dei migranti e “dei Conigli” – dal nome dell’isolotto su cui si affaccia la più scenografica delle sue cale – ma le bellezze più struggenti di Lampedusa sono forse quelle che si nascondono sotto la superficie, o semplicemente meno battute e più effimere

“Mollo tutto e scappo a Lampedusa”. Fra i souvenir in bella vista lungo un’affaccendata e mattutina via Roma, a catturare la mia attenzione è l’invitante scritta sulla t-shirt di una bancarella. Che pensiero felice! mi dico sognante, seduta al tavolino del più affollato bar sulla via principale dell’isola, mentre addento una brioche col tuppo inzuppata in una granita metà mandorla metà fragola.

Di lì a qualche ora, poco dopo il tramonto, la strada tornerà a popolarsi fitta di famigliole felici in vacanza, “passeggiatori” del Nord e d’Oltralpe, avventori di ristoranti di pesce e d’immancabili pianobar: luoghi dove le ballate di Battisti vanno e vengono. Una sera d’estate sì, e l’altra pure. Trascinate dal vento che qui, a Lampedusa, ha più nomi, direzioni e promesse di quanti se ne possano fantasticare altrove.

L’hotspot, le Ong, le “passerelle”. I sopralluoghi del Ministero dell’Interno e le Carola Rackete di turno che si spingono un po’ più in là, forzando i divieti. E ancora, la spiaggia più bella d’Europa, la sabbia bianca e finissima che nulla ha da invidiare alle cartoline caraibiche: nell’immaginario comune, Lampedusa è l’isola dei migranti e dei Conigli – dal nome dell’isolotto su cui si affaccia la più scenografica delle sue cale –, sebbene né degli uni né degli altri si trovi traccia percorrendo le strade e i sentieri (per lo più sbrindellati e sconnessi) che dipartono dal paesucolo in provincia di Agrigento.

Per qualcuno che fugge da qualcosa, c’è sempre un arrivo e, spesso, più di un ritorno. E poi, naturalmente, c’è la quotidianità di chi resta, i suoi “irriducibili” abitanti. Gente che si arrabatta fra le intemperie meteorologiche e metaforiche, su quest’isola pezzetto d’Africa – da cui s’è staccata milioni d’anni or sono – ma che amministrativamente è appendice dello Stivale.

La spiaggia dell’isola del Conigli, a Lampedusa

Fin dall’antichità, la maggiore delle Pelagie ha rappresentato un luogo sicuro, riparo nelle tempeste, dove rifocillarsi e rifornirsi di viveri, per migliaia di viaggiatori di etnia o religione diversa, peregrini o pirati; membri di fazioni nemiche pronti a fronteggiarsi in mare o su un campo di battaglia, ma mai a Lampedusa, che continuò a essere isola neutrale per secoli. Un porto franco dove si narra che un eremita avesse addirittura diviso in due una grotta naturale, destinandone una parte ai musulmani e una ai cristiani, e dove si era soliti lasciare un po’ di cibo, qualche indumento, attrezzature per naufraghi sfortunati. Fino a metà dell’Ottocento, quando i Borbone decisero la colonizzazione di Lampedusa e, allora, un gruppo di 120 persone provenienti da varie parti della Sicilia vi si stabilì in cerca di condizioni migliori, ognuna portando con sé i propri dialetti, usi e costumi, dando così vita a una piccola comunità multiculturale che andò assumendo una sua peculiare identità. Un’isola nell’isola.

Veduta di Lampedusa. Credit: Giovanni Giliberti

Oggi Lampedusa ha il suo aeroporto, la sua dose cadenzata di villeggianti e migranti. Ma è una sorta di meta a metà. Punto d’approdo, ma quasi mai ultimo arrivo per chi affronta i cosiddetti viaggi della speranza. Destinazione di un turismo per molti versi “alla bell’e meglio”, fra strutture storiche vista mare e altre improvvisate; fra lattonieri che s’inventano anche noleggiatori di scooter, e commercianti al dettaglio che all’occorrenza gestiscono due, tre, dieci appartamenti – meno della metà dei quali registrati su portali come Airbnb. Una terra che tiene insieme i residui di una genuina vita isolana, fatta di semplicità e sorrisi, e i tentativi, talvolta maldestri, di adeguamento alle logiche del turismo di massa. Che però, qui, ha annate buone e altre meno. A seconda che riprendano le crociere per il Mar Rosso, verso mete “più d’élite”, o che una sfilza di orribili naufragi riempia le prime pagine dei Tg nazionali.

Lampedusa isola dell’accoglienza, isola da mare e d’amare, ripetono gli slogan. Anche se i suoi abitanti, sulla carta circa seimila anime, non la pensano tutti allo stesso modo. “I riflettori si accendono e si spengono quando vogliono loro”, racconta un’esercente. “Ma quando le telecamere vanno via, siamo noi lampedusani a dover fronteggiare le emergenze. Noi a doverci sbracciare, a dispetto delle tante belle parole. Mentre i barchini fantasma continuano ad attraccare, di notte come di giorno”. A farle eco, un ex operatore dell’hotspot recentemente riaperto: “Le situazioni che si presentano tutt’oggi sono tra le più disparate, difficili da controllare e da gestire, non è tutto bianco o nero, come le narrazioni spesso semplificate ci propongono”.

A cambiare con incredibile rapidità sono i nomi di chi si avvicenda al governo, le gestioni dell’hotspot – e con esse anche il personale e i modus operandi (non sempre ortodossi) nel centro di prima accoglienza – ma non le situazioni che puntualmente si ripresentano, in questo paese di pescatori adattati anche a soccorritori, le mani tese – loro malgrado – a salvare bambini, donne e uomini annaspanti in un mare che strega e che inghiotte.

Lampedusa: Museo della fiducia e del dialogo per il Mediterraneo. Disegni delle torture subite dai migranti.

Il museo locale, aperto durante la bella stagione, ospita anche una sezione dedicata a chi prova a farcela e non sempre riesce. Con esposto ciò che resta di vite spezzate, oggetti che portavano con sé i migranti stipati all’inverosimile sulle imbarcazioni-trappola. Un olocausto 2.0 di cui è impossibile non sapere. C’è anche un video accessibile ai visitatori in una stanza buia: immagini che mostrano il recupero dei corpi in un relitto affondato e che hanno il potere di trascinare lo spettatore in apnea, per quello che pare un tempo lunghissimo. Pochi minuti, il tempo di un’immersione che pure avviene in quello stesso mare che ai vacanzieri “ignari” si mostra come uno scrigno di meraviglie. La variegata posidonia, i colori che non hanno eguali, le madonne di pietra adagiate sui fondali.

Perché le bellezze più struggenti dell’isola sono forse quelle sotto la superficie o semplicemente meno battute e più effimere. Le cale frequentate specialmente dagli autoctoni – come Cala Pisana, dove i bimbi lampedusani, molto lieti e poco pensosi, si divertono in tuffi acrobatici, o Mar Morto – dove lo snorkeling è un’esperienza impareggiabile. Come l’evocativa Sciatu Persu (“fiato perso”) o la pacifica Cala Galera.

Sciatu Persu (fiato perso) Lampedusa

E i tramonti sono forse lo spettacolo più bello di tutti, commoventi nell’unico sottofondo del vento che spira e delle onde che s’infrangono dolci sulla scogliera di Capo Ponente, sospesa tra cielo e mare, per raggiungere la quale ci si lascia alle spalle il paese, incespicando in un triste ammasso di relitti, abbandonando le vetture lungo le strade battute per inseguire sentieri popolati unicamente di grilli saltellanti.

Capo Ponente, Lampedusa. Credit: Giovanni Giliberti

A ricercarla tra le pagine della letteratura, si scoprirà che uno dei primi a citare l’isola fu nientemeno che l’Ariosto, nel suo Orlando Furioso: “Che s’abbia a ritrovar con numer pari/ di cavalieri armati in Lipadusa/un’isoletta è questa che dal mare/ medesimo che la cinge è circonfusa”. Un destino, quello dell’odierna Lampedusa (e dei suoi abitanti), che ancora oggi è ineluttabilmente legato al mare che la circonfonde. E che la fa somigliare a una terra del mito, a un’isola che non c’è, a un miraggio. Metafora di una Sicilia, di un’Italia, di un’Europa della quale si offre Porta, che si lascia attraversare e mai completamente afferrare.

Articolo di Valentina Barresi per la Voce di New York

Valentina Barresi è corrispondente dall’Italia per La Voce di New York. Giornalista dal 2008, s’interessa d’attualità, cultura, esteri e mafie. Vincitrice della 28esima edizione del premio “Mario Formenton”, ha scritto per la Repubblica, America 24, il Giornale, la Sicilia e ha collaborato con gli uffici stampa dell’Ambasciata d’Italia a Washington DC e di Oxfam Italia. Tra le città in cui ha vissuto, ci sono Palermo, New York, Roma, Milano, Lussemburgo. Peregrina per necessità o diletto, non ha ancora trovato il suo “centro di gravità permanente”, sebbene la Sicilia rimanga per lei l’ombelico del mondo.

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