L’ISTINTO,IL SESSO,LA PSICHE, LA FELICITA’ NON SONO PER LA PITTURA.- BISOGNA BEN SPERARE CHE LA FAREMO FINITA CON L’ARTE! CON L’ESTETICA! COSE CHE MI FANNO VENIRE LA NAUSEA..- QUELLO CHE MI INTERESSA E’ IL LAVORO!…E SONO QUI, COME UN CIECO CHE VUOLE FARE CREDERE CHE CI VEDE.
Ci sono due vie per entrare in contatto con i grandi artisti. Quella romanticamente foscoliana “a egregie cose il forte animo accendono l’urne dei forti..”. Oppure attraverso la lettura o la contemplazione delle loro opere. In questa seconda via, le opere fungono da medium, ci riportano il tono della loro voce, i gesti, i pensieri, con una vivezza a volte sorprendente, a patto di riuscire nella difficile impresa di isolarci in un colloquio intimo e diretto con loro.
Ancora una volta, come spesso nella vita, la polarità oscilla fra immaginazione e realtà, fra ricostruzione fantastica e evidenza fattuale.
Il punto di ingresso, nel paese delle meraviglie che è il cuore di un artista, più che l’opera compiuta, sono i ripensamenti, le cancellature, i tanti fogli scartati con abbozzi, linee confuse, macchie di colore, gli sbaffi, le ditate, le gocciolature, tutto ciò che testimonia lo sforzo, il sudore, il pentimento, l’illusione che l’artista ha provato a tu per tu con un foglio o una tela bianchi, la materia grezza e informe.
Esiste cosa più sublime della incompiuta Pietà Rondanini di Michelangelo, del lacerto di un affresco, di una sinopia graffita con un chiodo, di un marmo in cui ancora indoviniamo il solco lasciato dallo scalpello, di una prova d’artista riuscita male o di un foglio stropicciato, fitto di cancellature, rimandi, annotazioni?
L’opera d’arte, quando è sublime, perfetta come può esserlo l’oggetto “definitivo”, ingenera timor panico, offusca la mente, paralizza i sentimenti. Sovrastati da troppa luce, di fronte ai Bronzi di Riace, restiamo ammutoliti, come succedeva agli antichi di fronte agli dei. Kandinskij aveva ragione quando affermava che l’arte oltrepassa i limiti nei quali il tempo vorrebbe comprimerla, e indica il contenuto del futuro.
Forse la cosa più difficile da accettare nell’opera d’arte è proprio questo suo rapporto con il tempo: è cosa che origina in epoche remote, in un passato lontano, è sostanzialmente estranea al presente poiché rifiuta la contemporaneità, ma già è cosa che la supera, appartenendo al futuro.
In questo senso, parlare di opere di “avanguardia” è pertinente, e il termine descrive correttamente il rapporto degli artisti con il loro tempo, nonché motiva l’incomprensione dei più verso le loro opere.
Il nostro sforzo di ricollocare opere e artisti nel loro ambiente storico è il tentativo di annullare il corto circuito temporale che fa apparire ai nostri occhi, le une e gli altri, contemporaneamente, nella storia e nel mito, nel passato e nel futuro.
E’ solo una visione romantica del rapporto con l’opera d‘arte che ci impone di cercarne significati esterni, contestualizzandola storicamente, anche quando essa è esteticamente compiuta, icona suggellata e perfetta?
Non è così, perché è evidente che la genesi altro non è che il presupposto del lavoro finito; che non è dato il particolare senza l’insieme. Conoscere il tempo dell’artista, le idee, i costumi, le condizioni materiali in cui si trova ad operare, ha quindi un enorme potere esplicativo che illumina l’opera d’arte di significati altrimenti perduti.
Mi illudo che sia per questi motivi che, in questo mio viaggio a Parigi, sono assiduo di musei, ma anche di cimiteri. Il pellegrinaggio alle tombe degli artisti famosi non è per il culto dei morti, brutalmente rimosso dalla nostra coscienza laicista e utilitaristica. Lèggere nomi illustri sulle lapidi in fondo ci restituisce più vivi alla memoria questi uomini esemplari. E, poi, portare un fiore, o semplicemente raccogliersi compunti, non ci fa sentire migliori? Non ci induce in riflessioni più profonde sul senso della vita e di come l’abbiamo fino ad allora condotta?
Appesantito da questi pensieri sono qui a Montmartre. Ho lasciato la metro a La Fourche e faccio il giro completo, per stradine in salita e case modeste a ridosso del muro di cinta. Ecco avenue de Clichy, a sinistra prendo per rue Garneron, poi mi mantengo lungo la muraglia, scendo per rue de Maistre e arrivo in rue Caulaincourt. L’ingresso è sotto il cavalcavia e si raggiunge scendendo alcuni gradini in ferro. Il cimitero di Montmartre, diversamente da quello di Père Lachaise, non ha nulla di romantico o di monumentale. La parte più antica del cimitière è costellata di tombe polverose, disadorne, i marmi corrosi, obliate sotto l’indistinta coltre del tempo, sovrastate dal cavalcavia: le ragioni dei vivi hanno avuto la meglio sul rispetto dei morti.
La tomba che cerco non è là. Mi sposto su un altro lato. Il loculo dove riposa Edgar Degas è deludente, per modestia e evidente abbandono: una casetta in pietra, intonaco giallognolo, tettuccio in ardesia, un portoncino con la scritta “famille de Gas”, un brutto medaglione di bronzo che reca le sua immagine (non gli somiglia molto), sotto la sua inconfondibile firma e le date di nascita e di morte: 1834-1917. Al funerale poca gente, Parigi era in guerra e piovevano le bombe, riferisce la cronaca di quei giorni lontani, giusto 100 anni fa. Dopo le mostre su Degas al Moma, in Germania e a Cambridge, Parigi farà qualcosa per ricordarlo? E’ preannunciata una mostra del centenario al Musée d’Orsay verso la fine di novembre 2017, ma, al momento, nulla si sa di preciso.
N.B) Il titolo è composto da frasi tratte da Lettere e testimonianze di Degas, Adelphi editore