Estremo saluto
I due cortei, perché di questo si trattava, dopo l’iniziale scompiglio, urti ed esclamazioni, ritrovarono il passo e si confusero, un po’ come le acque di due fiumi attratte verso lo stesso punto. Edmondo mi camminava a fianco stringendosi il bavero e calcando il basco sulla testa. La giornata era fredda e umida, dopo poche fila davanti a noi i contorni delle persone sfumavano come avvolte nel fumo. Anche la scura sagoma della bara, portata a spalle da stretti congiunti e volonterosi amici, era sparita. Il lungo serpentone si snodava fra saracinesche abbassate, sotto lo sguardo silenzioso dei passanti, che si segnavano togliendosi il cappello.
Lo scalpiccio dei passi e il brusio monotono delle voci alleviavano negli animi la profonda commozione per la perdita di un uomo veramente singolare. La notizia della morte, data la notorietà del personaggio, era rimbalzata da una sponda all’altra del lago. Doveva essere accorsa, infatti, tutta la città e molti erano venuti da fuori. Probabilmente, il corteo che era appena confluito unendosi a noi era composto da associati a un’Arma o da membri di uno dei tanti sodalizi cui il defunto aveva dato in vita il suo benevolo sostegno. Mi camminava davanti una deliziosa figuretta di donna, fasciata in un cappotto di panno nero, il viso ombreggiato da un cappello morbido e falde larghe. S’indovinava, ad ogni passo, il guizzo dei glutei, la elasticità nervosa delle gambe. Il corteo rallentò, poi ebbe un’inaspettata sosta. Seguì qualche esclamazione di disappunto. Nella calca la donna indietreggiò fino quasi a sfiorarmi. Emanava un profumo sottile di cipria. Trascorsi alcuni minuti qualcuno, spazientito, si alzava sui tacchi per vedere cosa succedeva davanti.
Eravamo giunti a uno slargo in cui il lungolago si apriva affacciandosi sulla città vecchia. Un’ambulanza, a luci spente, quasi volesse passare inosservata, cercava a fatica di insinuarsi trasversalmente al corteo, che così finì tagliato in due. Davanti a noi la marea delle schiene ebbe dei sussulti e degli sbandamenti, ondeggiando incerta, ora ritirandosi, ora spostandosi senza apparente direzione. A un tratto fra la folla si aprì un varco in cui l’ambulanza si infilò, incoraggiata da alcune persone.
Un uomo stava riverso per terra, esanime, scosso da spasmi violenti. Strizzava convulsi gli occhi e una spuma bavosa gli scendeva dalla bocca. Grida confuse si accavallarono: “Attenzione! fate largo, la lingua…che si soffoca… tenetegli la testa! incitava stridula una donna..” Qualcuno nella confusione ruzzolò a terra imprecando. Ogni ordine o direzione sembrava scompaginato, al punto che, se non fosse stata per la sponda del lago che ancora intravvedevo, avrei perso l’orientamento. La donna dal cappotto nero non c’era più. Edmondo m’interrogò con lo sguardo. Capii. Di quel passo saremmo arrivati al Monumentale oramai al buio. Ci facemmo largo nella confusione, attratti dal suono di una banda. Non l’avevamo vista né sentita fino ad allora. Le schiene si infittivano. Nessuno ci guardava, stavano lì, chiusi nei loro pastrani, stretti gli uni agli altri, presi nei loro pensieri, con espressioni di rassegnazione. Aggirai un gruppo di prefiche avvolte nei veli sotto le insegne afflosciate, poi cercai una posizione più alta, dove la folla diradava e da cui, sotto gli ultimi sprazzi del tramonto, s’intuivano le acque del lago luccicare. Mi accorsi solo allora che Edmondo era rimasto indietro. Lo chiamai più volte. Niente. Sentii solo le note di una marcia funebre che via via affievolivano.
Mi guardai attorno indispettito per l’imprevisto, poi incerto seguii la folla che aveva ripresa la sua lenta marcia verso il cimitero. Ci saremmo trovati più avanti.
Il corteo aveva preso un percorso che non conoscevo, che si snodava lasciando alla sua destra il lago, per inoltrarsi su una strada in salita che a un certo punto stringeva diventando poi sterrata. Il corteo, a quel punto, giocoforza si assottigliò a dismisura, nereggiante, simile a una fila di insetti, la cui coda sarebbe arrivata al cimitero a cose fatte. Ero assorto, meditando sulle virtù del caro amico estinto, sul vuoto che lasciava, quando avvertii su di me l’insistenza di uno sguardo. Al mio fianco, uno strano omino corpulento, l’aria distratta del sognatore, mi guardava beffardo: “Quanti poi l’hanno veramente conosciuto?”
La domanda aleggiò fra di noi, poteva essere rivolta a me, ma anche a nessuno, poteva nemmeno essere una domanda, ma un’affermazione. Mi strinsi nelle spalle, farfugliando: “ chi può mai dire di conoscere veramente……”. Come incoraggiato l’omino si fece più vicino, gli vedevo ora, sotto gli occhialoni a goccia, gli occhietti affossati, le profonde rughe del viso e il parrucchino di capelli giallastri che mascherava la calvizie. Quel viso mi ricordava qualcuno, ma non avrei saputo dire chi. “Abbiamo abitato da giovani scapestrati in una soffitta, sotto i portici, a due passi dal duomo. Gli ho dedicato una canzone…..”- concluse con un inaspettato languore. Dunque l’uomo era un musicista. Aveva un po’ l’aria dell’artista, infatti. Portava, sotto un vecchio montgomery, la camicia aperta sul petto villoso, quasi irsuto, su cui pendeva una grossa collana fatta di amuleti, indossava blue jeans larghi sul fondo, stretti come usava nel secolo scorso. Camminavo chiuso nel riservo, lo sguardo a terra. Quasi non riuscivo a immaginare giovane l’amico defunto, figurarsi se riuscivo ad immaginarmelo scapestrato. Aveva avuto, questo sì, una personalità controversa, e assunte posizioni discutibili e non sempre chiare, ma in fondo bene e male non nascono dalla stessa pianta? Procedevano allacciate davanti a me due figure, lui alto, quasi maestoso, sguardo autorevole, lei piccola e raccolta su se stessa. L’uomo stava dicendole, in tono di conforto: “ doveva succedere, lo sapevamo, anche se così giovane…..” Lei gli si strinse al braccio, sospirando e mormorandogli qualcosa. Lui annuì scuotendo la sua bella faccia di vecchio dai lineamenti conservati, ornata da una curata barba bianca. Così giovane? Avevo capito bene? Va beh che tutto è relativo e capivo il rammarico, ma il defunto era quasi ottuagenario… Ero perplesso… inquieto guardai intorno per scorgere Edmondo, la fanciulla dalle morbide forme. Nulla, mi sembrava di essere fra estranei, come, in effetti, si è quando ci si accoda alla folla eterogenea di un funerale. Si andava così in silenzio, ognuno per suo conto, tutti nella stessa direzione. L’artista, per rimanermi affiancato cadenzava il suo passo al mio.
Incoraggiato dal disagio che mi leggeva in viso, tornò ad avvicinarsi, confidenziale. Indicò sfuggente un uomo che spiccava nella sua divisa di ufficiale di marina: “ E’ stato il suo amante.. fino alla fine”. “Amante?”- sbottai senza volerlo. Coloro che mi stavano attorno mi guardarono sorpresi e infastiditi mentre mi facevo piccolo piccolo. Il corteo intanto si era fermato dopo avere costeggiato un alto muro rischiarato da fanali gialli. Poi sentimmo il rumore di cancelli che giravano su cardini arrugginiti, alcune voci concitate dare ordini. Ne approfittai per sgattaiolare in avanti, facendomi largo tra i convenuti. Protetto dall’anonimato, tornavo liberamente a respirare. Il vento, sorto al tramonto, aveva alleggerita l’aria e pulito il paesaggio. Una giovane coppia, poco più avanti, era stranamente animata. Lei, una bionda coperta da un pesante abito di lana cotta che le scendeva fino i piedi, stava indicando al ragazzo, un punto del campo oltre l’ingresso, dove i sentieri formavano un crocicchio al cui centro sorgeva una stele. Là sotto un uomo corpulento stava seduto di spalle su una sedia pieghevole. Avvolto in una grande sciarpa di lana bianca, la testa coperta da uno stretto cappello di nappa afflosciato dall’uso, gesticolava fumando nervoso, attorniato da alcune donne, tutte appariscenti e premurose nei modi. “E’ lui, il famoso regista”- stava dicendo la ragazza eccitata. L’uomo era lontano, la sua sagoma mi era familiare, ma il tono della voce, chioccia e sottile, quella sì era inimitabile: era Federici. Parecchi anni prima, all’inizio della carriera, avevo lavorato con lui. Poi solo incontri di sfuggita, qualche idea scambiata, com’è naturale nell’ambiente artistico. Dunque anche Federici si era scomodato per l’ultimo saluto. Addirittura da Roma, portandosi dietro, come fanno sempre i cineasti, il codazzo di gente che le stava attorno adorante. Ma per quali strani incroci, in vita, l’amico defunto aveva conosciuto il regista? Mai me ne aveva parlato. Il defunto non aveva mai scritto, né recitato, né l’aveva fatto in gioventù, e poi non andava mai al cinema. Se per questo, pensai, sembra che nemmeno il grande Federici lo facesse, ma tutti sapevano quanto egli fosse adorabilmente bugiardo, capace di tramutare, da quel genio che era, quella debolezza in un vezzo, addirittura in ispirazione.
Poi ci fu un momento, quando la voce del regista si alzò di alcuni toni, in cui percepii alcune parole, come “troppo, troppo in tutto” e poi “si è voluto bruciare, manco fosse stato James Dean”. Ma di chi stava parlando, di un suo attore? di uno sceneggiatore, un costumista? Per un attimo mi chiesi se il defunto amico avesse avuto una doppia vita e se, una volta ritiratosi in provincia, avesse tralasciata o addirittura occultata la prima. Ma forse Federici era lì per un sopralluogo, per studiare in esterni qualche inquadratura del Monumentale. Avevo sentito dire che una scena del suo famoso Viaggio incompiuto, anzi mai iniziato, era ambientata in un cimitero. Chiuso in questi pensieri, scorrevo le fila dei dolenti, scrutandone ogni tanto i visi alla ricerca di Edmondo. Ma che gente strana si incontra. Anche ai funerali c’è chi s’intrufola, dunque. Che fosse il fascino della morte, il poter dire poi io c’ero, o magari solo una maniera per ingannare il tempo? Chissà. Così frastornato avevo varcato il cancello d’ingresso. Pochi i familiari, le donne in un angolo in rigorose gramaglie; gli uomini baffuti, attorniati da officianti ossequiosi, erano chiusi in soprabiti di gabardine nera, con mantelline che svolazzavano nella brezza notturna come ali di pipistrelli. Non c’era nessuna banda, sparite le prefiche. Peccato, le bande col loro estro da dilettanti, l’eleganza un poco sciatta, mi avevano sempre attratto. Gettai un’occhiata alla distesa dei loculi. Scoprii con meraviglia che quello non era il Monumentale, sembrava più un cimitero di campagna, come quelli che si erigono a fianco delle pievi di montagna. Strano. Che fosse un’ala laterale, un ampliamento? Eppure sul giornale… Un uomo così importante in quel posto abbandonato? E le autorità, i discorsi?… Ero sempre più stupito. Che stava succedendo?
Due suore, ritte e attente, al passare del feretro si sporsero per appendere di slancio sul carro funebre un cuscino di fiori, ornato da un nastro rosa con su scritto: “Dalle Sorelle in fede alla Sorella”. Amante? Sorella? Ero sbalordito. Ma allora chi riposava nella bara che ora a spalle stavano portando verso l’estrema casa? Sentivo il viso avvampare, per il sudore le lenti dei miei occhiali si appannarono rapidamente, come i vetri di un’auto d’inverno. Mi mancava la certezza, ma il dubbio atroce di avere sbagliato funerale era talmente ingigantito dentro di me da sommergermi con un lungo brivido doloroso. Ma cos’era successo? Due funerali che s’incrociano in uno stesso giorno, in un piccolo paese… Due morti scambiati? Com’era stato possibile un simile errore? Di solito Edmondo era scrupoloso, attento anche ai dettagli. A raccontargliela ci sarebbe stato da ridere. Mi appoggiai al cancello vacillando, ostentando le spalle alla folla che continuava a entrare, quasi per riprendermi dallo sforzo della lunga camminata. Sotto un piccolo porticato, all’uscita della cappella che serviva per i pochi che ancora credevano nel potere della preghiera, l’agenzia di pompe funebri aveva messo in bella mostra su un leggio il quaderno delle presenze. Lessi un nome di donna, sconosciuto. La penna mi sfuggì di mano, subito raccolta dalla suorina più giovane: “State bene?” – domandò preoccupata. “Le dita fredde”- assicurai, riprendendo fiato. Sfilando mi accorsi di un’altra lunga fila di persone che aspettava di firmare su un altro quaderno. Ebbe l’impressione, certo sbagliata, che la gente affluendo firmasse ora sull’uno, ora sull’altro, indifferentemente. Ma quanti erano i morti, dunque? Che astrusità andavo almanaccando. Più logico era pensare che uno dei quaderni fosse lì per un funerale precedente e che quelli che vi firmavano erano alcuni ritardatari. Il feretro, intanto, era stato sistemato sotto un loggiato sopra due cavalletti, con una grande croce davanti. La folla che si era radunata davanti contava poche decine di persone…e sì che mi erano sembrate tante. Ora, nonostante l’opalescente luce serale, potevo osservarle meglio. Parecchie persone vestivano abiti di lavoro o consueti, cioè senza la severità del lutto; altre, per atteggiamenti e abiti, sembravano fuori luogo, chiassose addirittura.
Portavano sulle spalle zainetti, borse a tracolla. Di Edmondo nemmeno l’ombra. La donna col cappello, l’artista col parrucchino, il vecchio barbuto e autorevole si erano eclissati. Avevo dunque sbagliato funerale! Scuotendo la testa mi avvicinai imbarazzato all’uscita. Era oramai notte, l’orizzonte era pieno di stelle e tutt’intorno una corona di montagne mostrava il biancore della prima neve. Ma da che parte dirigersi? La strada fatta era stata tanta e la città non si vedeva più, né sentivo il lago, risucchiato da qualche parte nei suoi abissi. Indeciso dove andare, rientrai nel recinto del cimitero, oramai rassegnato; sarei tornato con gli altri, seguendone il flusso. Oramai era andata così. L’amico defunto l’avrei ricordato da lì, pregando sulla tomba di una sconosciuta; egli mi avrebbe perdonato, ne ero certo. Mi tornarono in mente le parole che poco prima mi aveva dette l’artista: siamo un po’ tutti sconosciuti, forse anche a noi stessi.
Ma da dove venivano tutti quei ragazzini che correvano verso le mura? Facevano un chiasso che sembrava l’uscita da una scuola. Alcuni si erano arrampicati in cima e si sporgevano verso i campi, ciondolando le gambe e indicando con eccitazione qualcosa là dietro. Un chiarore intermittente proveniva dalla campagna diffondendosi oltre le mura. Non era il riverbero di falò, improbabili in quella stagione, ma una luce solfurea, errante, imprevedibile. Una ragazza dall’alto della gradinata mi allungò una mano per tirarmi sugli spalti: “Venga a vedere anche lei lo spettacolo… così fuori stagione è magnifico!”
Un rosmarino, i cui rami oscillavano protesi, allungandosi in ogni direzione, profumava l’aria intorno a noi. Ci affacciammo: il buio dei campi era punteggiato di luci fin all’estremo orizzonte, un manto di lucciole, incorporee e pulsanti, ondulava sotto gli occhi sgranati della moltitudine che, come ipnotizzata, ora taceva.
Per lunghi minuti, nel silenzio profondo della notte, tutti ci sentimmo alla ricerca di un richiamo, di un legame odoroso, di una scia impalpabile lungo la quale abbandonarsi per raggiungere là in fondo quel misterioso mondo di luci viventi. Poi un vecchio, in un angolo, seduto sopra uno sgabello, aperta la sua fisarmonica, intonò una antica romanza, rovesciando la testa all’indietro, le gambe allargate e scosse dal ritmo. Scendendo la ragazza mi andava spiegando che eravamo accampati sulla bocca di un antichissimo vulcano spento. Ciò assicurava un microclima temperato tutto l’anno, una primavera precoce, una lunga estate e fenomeni come quello cui avevamo assistito lì non erano insoliti.
Intanto capannelli di persone sostavano attorno alla bara, altre si erano disperse per i viali del camposanto. Eravamo in attesa di qualcosa o di qualcuno che desse inizio alla cerimonia. Alcuni bambini presero a rincorrersi, qualcuno a ridosso dell’ingresso si rifocillava con bibite calde, anzi già si allestiva, addossato a un tempietto, un vero a proprio buffet, quasi ci si preparasse ad una veglia funebre. “Sembra un accampamento, vero?”- mi domandò la ragazza. “Mi scusi mi presento: Nunzia…. È sorpreso, vero? Il fatto è che il Maestro è morto all’improvviso. Come sa era laico, anzi ateo, non ha lasciato disposizioni. La famiglia pensava ad un funerale con rito regolare, gli amici no, volevano una cosa laica, senza sacramenti… insomma non so come verrà fatto questo funerale.” Parlava con un delizioso modo interrogativo accompagnato da uno sguardo in tralice e una breve esitazione nel passo, lieve, quasi danzante. “Quando toccherà a me nessun funerale e la notizia a cose fatte…” concluse la giovane donna. Nascondendo l’imbarazzo, quasi distrattamente, le chiesi: ma lei il… defunto, lo conosceva bene?” Era un modo indiretto per chiederle chi giaceva in quella bara, facendola finita con l’assurdo equivoco per cui mi sembrava che ognuno fosse lì a piangere un morto diverso. Nunzia sospirò, scosse il capo e prima di rispondere sembrò cercare le parole: “Sì, cioè no, non di persona, di fama.
Altra generazione la mia. Quando ho iniziato, lui era già un uomo di spettacolo fra i migliori. Anni eroici, quelli! Si usciva dalla guerra e c’era tanta voglia di ricostruire… e di raccontare”. Nunzia ricordava il Maestro e i suoi occhi s’illuminavano, la voce si abbassava sotto il peso di emozioni lontane, ma la cui eco ancora vibrava dentro di lei. “Doveva essere un uomo straordinario, alla continua ricerca della perfezione, anche nella vita, pur nella fragilità dei suoi dubbi. Chi l’ha conosciuto…”
Un uomo di spettacolo il mio amico?- mi stavo domandando- ma quando mai! Non era lui, no di certo, in quella bara. In vita aveva fatto tanti mestieri, era stato giornalista, poi scrittore, aveva fatto anche politica, prima di ritirarsi, ma mai spettacolo. Dunque il morto non era il mio amico, almeno questo era un punto fermo. Ma chi era, dunque?
“Cara, anche tu, qui!… che strazio questa morte, così improvvisa, inaspettata! Nunzia mia, non puoi immaginare che vuoto sento, sono disorientata, confusa…..” Chi parlava a Nunzia, abbracciandola e accarezzandole il viso con fare materno, era una donna anziana dalle forme esuberanti, capelli di un rosso Tiziano, trucco pesante, la voce da soprano drammatico. Il suo viso, nonostante il tremore delle guance cascanti e le labbra chirurgiche mi era famigliare. Ma scavare nei ricordi non mi servì a darle un nome. Lei invece m’ignorava, concentrata querula nelle sue smancerie. “Oh, come eravamo giovani, forti, pieni di speranze”- aveva ripreso la grassona- “ non ci fermava nessuno, un’idea dietro l’altra e poi tanta ironia.. il migliore antidoto alla seriosità della vita. Lui lo sapeva, lo metteva tutto nelle sue opere questo talento.” Nunzia annuiva, sorpresa e intimidita al punto di non riuscire neppure a presentarmi all’intrusa. “Certo, cara Nunzia, era tanto che non lo vedevo più, da quando si era ritirato sul suo lago, ma in ogni replica dei suoi spettacoli ero in prima fila, l’ultimo l’estate scorsa all’Arena, piena fino all’inverosimile, con i suoi lumini.. un po’ come qui”. Gli sembrò una buona battuta, tentò una grassa risata che le morì fra le labbra prima di nascere.
Poi riprese imperterrita: “Stranieri soprattutto, sai l’Italia piace…sai il Macbeth, no!” Il diluvio di parole produceva leggeri spruzzi di saliva che, uscendo dal vuoto di un canino mancante, si disperdevano per l’aria. Era questo vuoto a dare alla donna una nota di volgarità, un non so che di equivoco. Anch’io mi ero occupato del Macbeth, un allestimento accurato, che fu salutato come innovativo, a quei tempi. Ma questa che poteva sapere! Mi stava annoiando, quando finalmente la grossa falena fu attratta da un gruppo di persone che si rifocillavano rumorosamente, sedute attorno ad un fuoco improvvisato. Scomparve nella notte, così com’era apparsa.
Con un sospiro di sollievo Nunzia mi fece cenno di proseguire verso la parte più antica del cimitero. “ Tanto qui le cose vanno per le lunghe, mi pare. Venga che le farò vedere il campo ebraico, merita una visita.” Lungo i viali, sotto i cipressi, l’ombra della notte andava raggrumandosi in aree umide e oscure, punteggiate di vaghi chiarori. Intanto Nunzia che mi precedeva, quasi a farmi da guida, mi stava indicando un’ombra rannicchiata a ridosso di una tomba. Spiccava il volto cereo, la fronte stempiata, un piccolo pizzo di barba mal coltivata, ispido e grigiastro. “Non lo riconosce? E’ Anselmi, il cantore dei sepolti e dei ritrovati, il famoso scrittore dei campi di concentramento…” L’uomo si accorse di noi, alzò il viso e salutò timidamente agitando una mano. Mi domandai che ci faceva lì, a quell’ora? Stava pregando su quale tomba? Lo scrittore parve leggermi dentro le domande perché, guardandomi con uno sguardo mite e arrendevole, mi disse; “ Nessuna tomba o forse chissà… ma vede, il fatto è che non sono più capace di pregare, non ci credo più, se mai io abbia creduto. Che cosa serve se gli uomini non ascoltano. Ho smesso pure di amare e mi chiedo che cosa mi resta dopo tanto odio.” Parlava soffiando le parole in modo inespressivo, spento e incolore.
La passione l’aveva abbandonato, ogni voglia sopita per sempre, il senso stesso delle cose sembrava dileguarsi dalla sua figura scarna e ricurva. Nunzia con un brivido si strinse a me, mentre l’uomo si allontanava fra le tombe, come un’apparizione.
Si passeggiava lentamente, cercando di vincere il freddo e la stanchezza, in tondo in tondo, tenendo come stella polare la bara illuminata. La ghiaia scricchiolava sotto i nostri piedi quando la campana della chiesetta del camposanto suonò le ore. I bimbi sopiti si erano abbandonati fra le braccia delle madri, il suonatore di fisarmonica, in sordina, singhiozzava lontano, gruppi di persone stringendo le fila sostavano in silenzio, avendo esaurito ogni argomento di conversazione. Qualcuno, per vincere la noia, giocava a carte su tavoli improvvisati, con esclamazioni improvvise che profanavano il silenzio della notte. Io invece di cose da dire ne avevo, eccome, in quella strana giornata: “Nunzia, ho una strana sensazione: di riconoscere persone alle quali però non riesco a dare un nome, oppure di non ricordarne altre che invece dovrei riconoscere, come il famoso scrittore poco fa. E’ come se vedessi le cose dietro uno schermo diafano, un vetro che mi separa dalla realtà.”
“Sono la notte e il luogo, così insoliti, che evocano in noi strane sensazioni. Ma anche questo fa parte della realtà. In fondo, siamo in relazione agli altri, al di fuori di essa quale altra esistenza conosciamo? Quando muore chi abbiamo amato, o semplicemente avuto come amico, muore anche un pezzetto di noi, si dice. Ed è vero, per tutti, anche per chi si presenta Lassù a mani vuote. Ma capisco cosa mi vuole dire, perché l’ho provato anch’io: è come se non avessimo più una nostra identità, come se la nostra coscienza si inabissasse, come se l’orma dei nostri passi svanisse prima ancora di formarsi, senza lasciare alcuna traccia del nostro passaggio. Ma in fondo, non è questo cui siano destinati? Tutti, anche gli uomini più illustri, anche quelli che eleviamo a miti ed erigiamo nella Storia, prima che essa sia inghiottita nella notte dei tempi. Perché meravigliarsi?”
Volevo replicare quando, in una zona appartata, sorvegliato da alcuni figuri vestiti di nero e coll’aria dei guardaspalle, un uomo attirò la mia attenzione. Non riuscii a trattenere la mia meraviglia: “ Nunzia, ma quello non è Lorenzi, l’ex segretario del partito…” Prima che finissi già Nunzia assentiva con la testa: “Sì, l’ho visto prima quando è uscito dalla macchina, è un vecchio amico del Maestro, almeno stando a quanto lui stesso ha dichiarato alla stampa. Università, primi passi nel partito, poi le strade si dividono, non si frequentano, ma si sentono, si apprezzano. Oltre all’orientamento politico del Maestro, era noto il suo impegno per i diritti civili, la sua ostilità contro l’alta finanza speculativa… in fondo essere qui fa gioco a Lorenzi, sa questi politici, anche nel momento della caduta, non riescono a rinunciare a un palcoscenico”.
Anch’io ero stato iscritto al partito, lì avevo conosciuto Lorenzi, la bufera che doveva abbatterlo a suon di manette era ancora lontana. Ma non mi piacevano i sui modi sbrigativi, quel cinismo che hanno gli uomini di potere. Nunzia e io non potevamo avvicinarci, ma l’alta figura di Lorenzi, la forte stempiatura, i suoi modi nervosi erano inconfondibili. Era smagrito, il cappotto che indossava gli scendeva a falde larghe, quasi fosse un mantello. Stava parlando a un uomo che lo ascoltava reverente, scrutandone lo sguardo sotto i pesanti occhiali da miope. Del politico, Lorenzi aveva conservato i gesti magniloquenti, che tracciavano nell’aria suggestive prospettive, le pause sapienti della voce che ora sembravano tenere l’uomo in ascolto sul filo di una tensione insopportabile.
Non amava gli intellettuali, disse Lorenzi appena eletto, con la solita sprezzante franchezza. Forse perché a quei tempi, a sinistra, gli intellettuali andavano di moda. Un partito progressista e riformista che guardava all’Europa, come si diceva allora, non poteva farne a meno. Il partito allettava e blandiva artisti, scrittori e professori, qualcuno lo portava in parlamento, i più li disseminava un po’ qua e un po’ là, fra redazioni, televisione, fondazioni, università.
Era la regola. Io mi ero sottratto a fare l’usignolo che canta a comando. Mi era andata bene lo stesso. Un artista non può essere che libero. Lorenzi, divenuto nel frattempo presidente, aveva dato il meglio di sé in quanto a supponenza e il peggio in quanto a corruzione. Per alcuni anni aveva spadroneggiato indisturbato, parlando di riforme senza mai farle, fino a quando, pestati a calli a qualcuno più forte, precipitò nel peggiore dei modi: in solitudine.
“Ma non era all’estero, rifugiato?”- domandai
“Certo, ma gli hanno permesso di essere qui oggi. Quelli che vede sono poliziotti in borghese. Ha un salvacondotto di uno stato straniero, poi finita la cerimonia lo riportano oltre oceano.”
Venne alle nostre orecchie un salmodiare, un canto a bocca chiusa, finalmente la cerimonia stava per incominciare. Nunzia ebbe un’incertezza sulla strada da prendere per il ritorno. Guardò in più direzioni, imbarazzata, poi decise di seguire lo strano canto. Veniva da dietro una monumentale tomba a gradoni, fregiata da fasci littori e da un bronzo severo raffigurante Cristo benedicente. Delle persone, disposte a semicerchio, sembravano intente a una recita, al centro un uomo vestito di bianco, come un antico romano, gli occhi bistrati, il cerume dell’attore sul viso. Alla loro vista, Nuncia tornò sui suoi passi. “Che c’è”- le chiesi- chi sono costoro? “ E’ lui, l’attore, il rivale… meglio che ci allontaniamo”- mi rispose sottovoce. “Ma perché”- domandai stupito- quale attore?” Così dicendo guardai oltre le spalle di Nunzia e fu allora che lo vidi. “Ma, io lo conosco! E’ Benini. Ma perché è qui, ma non era morto?”
“No, è stato a lungo molto malato per i suoi stravizi, ma lo guardi!, malridotto forse, ma è lì e ancora recita, confondendo realtà e finzione, lui e la sua macchina attoriale. Che coraggio essere qui, oggi, la sua solita provocazione!” Nunzia era seccata e non riusciva a nascondere il suo disappunto.
Ma cosa mai poteva legare Benini al mio povero amico, mi domandavo inquieto. Nunzia, che mi lesse la domanda sul viso, con meraviglia mi fa: “ Non la sa la storia fra i due, fra Benini e il Maestro?” Nell’ambiente se ne parlò per mesi.” Annuii silenzioso, pensando con chi non avesse litigato quell’individuo arrogante e scandaloso. Anche con me era finita male, ma era stato tanti anni prima, c’era di mezzo Lydia, le prima attrice della compagnia….. Dell’altra storia, quella fra Benini e il Maestro defunto, non sapevo niente, ma avrei potuto immaginarla, avendo avuto a che fare con quel ribaldo farfugliante.
Mi accorsi che nessuno ci aveva ancora notati, concentrati com’erano sul mattatore; ci nascondeva alla vista un grande panneggio che faceva da quinta su cui erano puntati due riflettori di scena. L’austero mausoleo ai caduti (perché di ciò si trattava) sembrava essersi risvegliato dopo secoli di letargo, preda di una sgangherata compagnia di guitti.
Benini, nonostante sembrasse vacillare sotto la luce, finito il canto sommesso del coro, assunse le solite pose scultoree, la smorfia sdegnosa della bocca, le pupille dilatate che rendevano il suo sguardo penetrante come una lama. Poi iniziò la phoné del dire e non del detto, come asseriva lui. Ci fu una lunga pausa in cui le parole sembrarono risalire dalla parte più profonda del suo diaframma, sciamare nelle cavità della gola e del naso, titillare i suoi denti e tornare indietro, confondendosi, spezzandosi, ora argentine, ora gravi, per poi risalire e finalmente apparire, ma come trattenute da una modulazione di testa che le faceva apparire nuove, inaudite.
“Che istrione di talento è questo Benini, mio malgrado lo devo riconoscere. Tanto talento in un essere così presuntuoso e cinico, mah…”
“Psss, ascoltiamolo- mi esortò Nunzia-ma che brano è?”
“L’atto è l’oblio nell’azione esplicita…mente buia”- recitò Benini fissando un punto all’orizzonte, poi un sorriso ambiguo, una sospensione ammiccante preparò la frase successiva: “no!, no!,no! non si può vi..vere la vita. La vita è invi..vi..bile……”
Un grido, quasi, e sulla parola invivibile, uscita storta e spezzettata dalla sua bocca, sembrò echeggiare un profondo singhiozzo, un lamento che rimbalzò fra gli attori, facendo scendere un drammatico silenzio.
“La felicità è nel diffe..rirla non nell’averla… quante volte me lo ero detto…. Ma, in quei giorni smemo..rati, l’alacre fanta…sia, la promiscuità dei palco…scenici, la fuga lon…tana…. dei monti coi loro…. boschetti cedui, ebbero la me..glio.” Benini sotto la livida luce sembrava ora uno spiritato, febbrile, quasi isterico, quando le note acute finali piombarono come stilettate sull’uditorio.
“Ma cosa sta recitando? Una sua nuova opera?”- domandai a Nunzia. Ma non ascoltai la risposta, teso nello sforzo di sentire l’attore e preso da una strana premonizione.
“Io ero Pinocchio, lei, la matrona argen..tina, faceva la Fata Tur..china. Oh, Lyala, Lyala! l’ho trovata su una stra..da, tolta dalla fame per innalzata alla fa…ma. Ma più che altro ha potuto contemplare il genio in azione, abbeverarsi alla battuta sfrrr…igolante al ci…nismo deco…rativo. Un Pin..occhio che sarebbe stato – notare il condizio…nale che condi..ziona- memo…rabile, lei così gra…ziosa, così fatalmente se stessa. Al cuor non si comanda, il capo..comico è l’ultimo a servirsi. Ma che c’è di co..mico, mi direte. Giusto! La fatina mi amava, o almeno così diceva. Poi tutto si sfasciò, niente spettacolo, niente luci, niente amore, fu..gace senti..mento, evaporante senti…mento, leggero, frizzz…ante a volte, ma che non può stare rinchiuso in un cuore di donna più di una rosa avvolta dalle te..nebre.”
Benini si era ora rattrappito su se stesso, la bella testa incassata fra le spalle, la schiena arcuata che mostrava le ossa. Quando rialzò la testa in piena luce tutti si avvidero del lungo naso posticcio che aveva indossato. Ora mimava le mosse di un burattino, di un giocattolo rotto che si agitava scompostamente a scatti. Era impressionante e un applauso ripagò il mattatore che si chinò compiaciuto, poi girando tutt’intorno il suo sguardo penetrante proseguì:
“Voi immaginate di assistere al Pinocchio, mentre state assistendo alla sua.. nega..zione. L’Incanta..tore aveva seminato i suoi scandali nel quieto e mor..tale teatro di tutti i i giorni. Poi l’attore, attoreo alzò imperioso un braccio, indicando un punto impreciso del camposanto: “LUI, luiluilui! Dio lo abbia in gloria. Riposa in pace, Maestro, amen. C’è sempre un LUI. L’impostore che illumina l’impostura del mondo! Mellifluo, viscido, come una pania, leggera pioggerellina…ina..ina, un cala…brone ron…zante, sempre intorno a Lydia, la mia fata turchina, ingenua e amo…revole, fino a quando cadde, OPPLA’ cavallina! Oh, la catti..veria insonda..bile dell’ animo umano! Erano in macchina, lei, in un attimo di debolezza?, lui semplice….mente distratto, come tutti gli intellettuali, le teste pesanti.. ho detto pesanti non pen…santi. Uno schianto, cambio di scena! Lydia muore, l’Orco che natu…ralmente si salva. Niente, niente…morte del desi..derio, al di là del desi…derio, resta solo il togliersi di scena nella sospensi…one del tragico………” Applausi, exit.
Nunzia aveva un’espressione pensosa, io al suo fianco invece ero incredulo e frastornato. Avevamo appena lasciati i teatranti che venni assalito da un profondo malessere, ebbi come un capogiro. “Non stai bene, vuoi che ci fermiamo?” mi chiese premurosa e preoccupata. Era passata inavvertitamente al tu. “No, sto bene, rallentiamo solo il passo, oppure meglio, sediamoci qui, tanto c’è tempo”. Sudavo. “E’ che… non mi raccapezzo, Nunzia, tutto mi pare fuori posto, questa sera….Ma con chi ce l’aveva, quello, che storie racconta? Non ha rispetto neanche dei morti?”
“ Morti? Sì e no… dipende. C’è una frase che Benini usa dire per gigioneggiarsi al meglio: sono forse io un morto che parla a dei morti? Prima, e più che la morte, brucia a Benini il tradimento. Da quando Lydia è mancata non fa che ricordarla con messe in scena sempre diverse, con sempre nuovi particolari. Fantasie teatrali, istrionismo da guitto, che l’età ha reso oramai ripetitivo e penoso.
Ma, dunque, non hai capito? Sotto le sue solite frasi contorte, il suo ambiguo e oscuro periodare, la storia è chiara: Lydia, sua attrice e amante per molti anni, l’ha lasciato per mettersi col Maestro. Il suo era il lamento del cornuto, per dirla prosaicamente.”
“E’ un mistificatore, un pataccaro volgare, un guitto senza onore e dignità!”- scattai come punto da una vipera. Nunzia sobbalzò, a disagio, sorpresa.
“..Lei non c’è più, ma qualcuno deve dire la verità. La storia è molto diversa: Lyala non ne poteva più di lui. Geloso folle della sua bravura, delle lodi della critica, possessivo fino alla paranoia, manesco quando si ubriacava, dispettoso e crudele come può esserlo un pervertito. Ma lei lo amava ancora, era soggiogata dal genio, anche se disprezzava l’uomo. Una sera, poco prima del debutto, dopo le prove in cui era stata magnifica, andai a trovarla in camerino. Piangeva, presa dallo sconforto. Lasciata la toilette, si voltò, tentando goffamente di nascondere la guancia sinistra gonfia e livida. Non ne poteva più. Mi confessò che da ultimo Benini pretendeva di eccitarsi portandosi a letto le debuttanti, costringendola a fare l’amore con amici del giro. Diventando progressivamente impotente Benini sfogava la sua libidine facendo il guardone. Un inferno. La sera tragica della morte, con Lyala stavamo rientrando in albergo non scappando…”
“Ma tu che ne sai?” mi interruppe Nunzia sempre più sconcertata. Aveva avuto un improvviso scarto con il corpo e la sua voce si era coma inaridita, senza più il delizioso tono interrogativo che mi aveva colpito. Si fece incalzante: “Ma chi sei….?, nemmeno Benini poteva sapere…” Era sbigottita.
“Sono Pietro Sartori….”
“Ma che succede? Stai scherzando, vero?” la bella voce di Nunzia suonò strozzata dall’irritazione e dallo sconcerto.
“No, sono Pietro Sartori! Che succede lo chiedo io a te!!” replicai con forza.
Nunzia mi piantò gli occhi addosso, freddi ora come due lame, mentre una smorfia di incredulità le deformava il viso. Lessi le parole sulle sue labbra, prima che le pronunciasse: “ Il Maestro Pietro Sartori è morto, sta in quella bara laggiù e questo è il suo funerale”
Finale
“Già se ne va? Non aspetta che il rito finisca? …. Peccato, c’è sempre qualcosa di istruttivo nelle cerimonie o di curioso nei volti e nelle parole. Ne ho viste tante, ma posso assicurarle che non c’è una cerimonia uguale all’altra. Non mi annoio, insomma. Va da sé che solo un occhio esercitato può apprezzare certe piccole sfumature. Ad esempio, nel caso suo… scusi se mi permetto, in fondo sono solo un guardiano, ma si vede che lei qui è fuori posto. E’ come se fosse venuto qui per sbaglio. Eppure, sente che doveva esserci, non è così? Queste persone in fondo sono qui per lei. Strana sensazione, vero? Mi sono fatto l’idea, vedendo funerali tutti i giorni, che la morte stia sempre intorno a noi, come la vita. Vita e morte si muovono una sulle orme dell’altra e non differiscono né in genere né in grado, ma solo per il rigoroso ordine di apparizione. Sono arrivato alla conclusione che non esistono i morti, esiste la morte, perché non abbiamo un corpo, siamo un corpo. E se siamo un corpo che muta e decade possiamo ragionevolmente concludere, data la sottigliezza che divide vita e morte, che tutti siamo vivi e morti contemporaneamente….. E il caso suo non fa eccezione. Si consoli, pensi che alla fine lei è un privilegiato: ha visto, sentito, si è fatta un’idea più precisa di cosa si lascia. Non che questo conti gran che, mah… Poi ha visto che in fondo il posto non è così scomodo; questa è una vasta regione che non è stata ancora perfezionata, lei ne ha avuto semplicemente un anticipo”.