COME NELLA REALTA’ , VITA E FINZIONE STANNO INSIEME, COSI’ LE INQUADRATURE DEI REGISTI E IL SET DEGLI SCENOGRAFI ESALTANO LE POSSIBILITA’ SIMBOLICHE DELLE LOCATION
Robert Mallet-Stevens, rinomato scenografo e set designer, nel 1925, prevedeva la costretta e indispensabile collaborazione tra regia e architettura, d’altro canto «si può sperare in uno sfondo migliore per le immagini in movimento … per mettere in risalto la vita?»
Lo spazio urbano e le città hanno influenzato profondamente l’arte del Novecento, in particolare il cinema, il quale albeggia, rosso e splendente, come fenomeno tipicamente cittadino. Un insegnamento di cui i registi italiani contemporanei hanno fatto tesoro, sfruttando al meglio le possibilità scenografiche dell’arte del costruire.
In una società conformista, l’arte fa, quindi, la sua comparsa come grande eccezione: la fruizione distratta dell’architettura propria del comune cittadino non è quella delle pupille, sempre vigili, del regista, che coglie nell’oggetto architettonico una possibilità simbolica, uno scrigno in cui conservare i suoi gioielli.
Lo ha ricordato, in tempi recenti, Paolo Sorrentino, trionfatore al Dolby Theatre, in quella notte dorata del 2 marzo 2014. La grande bellezza, tanto odiata dagli Italiani quanto amata dagli Americani, si posiziona, in punta di piedi, con baricentro ben piantato, meglio di quanto qualsiasi equilibrista possa fare, tra l’immortale e silenziosa bellezza architettonica dell’eterna Roma e la stupefacente e chiassosa grammatica cinematografica sorrentiniana.
Il protagonista è Jep Gambardella, magistralmente interpretato da Toni Servillo, un giornalista con un passato da scrittore, che arrivato a Roma si lascia travolgere dalla vita mondana. E mentre a ritmo di Raffaella Carrà la vita scorre e la storia si compie, Roma, ossimoro e sintesi di rumore e silenzio, è specchio distorto dei personaggi, i quali vivono di visi di cera che il tempo non può consumare.
Una perfetta sintesi anche di colore, luce e movimento, basti pensare alla bianca tunica delle suore che scendono le scale, passando proprio davanti a un rincuorante Jep Gambardella, di nero vestito.
Un eterno ritorno alla bellezza silenziosa di una città immortale che bene prende le distanze dalla mortalità della bellezza umana, che con il tempo, veloce fugge via.
Lo stupore che vorrebbero suscitare le inquadrature sorrentiniane, come gli stucchi della Roma barocca, è tale che Luca Guadagnino, nonostante il suo talento, è rimasto a lungo sconosciuto al grande pubblico. Eppure, sebbene Io sono l’amore, film degno di nota girato all’interno di una delle ville più belle della modernissima Milano, sia rimasto un film di nicchia, stesso destino non è stato riservato a Chiamami col tuo nome.
Da subito successo di botteghino, Chiamami col tuo nome, forse per aver colto il momento propizio d’uscita data la tematica trattata, forse per un cast tanto giovane quanto lucente, è apparso in tanti festival internazionali, fino ad arrivare anch’esso all’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale nel 2018.
Chiamami col tuo nome racconta la storia di Elio Perlman, diciassettenne ebreo italoamericano, che trascorrendo le vacanze estive nella campagna del nord Italia con i suoi genitori incontra Oliver, ventiquattrenne ebreo americano di bell’aspetto, intelligente e spigliato.
Se a colpire è certamente l’originalità con cui Guadagnino tratta la tematica omosessuale, ricevendo l’approvazione del grande pubblico nonostante il tema caldo e sempre sul filo del rasoio, l’attenzione che egli riserva al dettaglio scenografico e fotografico rimane una firma indelebile del suo cinema, che non viene meno neanche qui.
Ancora una volta gli occhi dei registi italiani ci servono per vedere meglio le belle forme dell’Italia: già Villa Necchi Campiglio, poco dopo l’uscita del film Io sono l’amore, grazie al contributo del FAI, è stata riaperta al pubblico, così anche la villa disabitata a Moscazzano, protagonista assoluta di Chiamami col tuo nome, è diventata in seguito uno dei luoghi più visitati del nord Italia. Casi da manuale di cineturismo.
Villa Vimercati Griffoni Albergoni, protagonista del film premio oscar, è una villa nobiliare del ’500 della famiglia Vimercati, a sud di Rovereto a Moscazzano, nata inizialmente come fortezza. Luca Guadagnino e Violante Visconti, pronipote di Luchino Visconti, hanno arredato le stanze vuote della villa con mobili di antiquariato e tessuti Dedar, conferendole un’atmosfera di vissuto. Inoltre nel giardino hanno piantato alberi di pesche e albicocche, rilevanti durante più scene del film e simbolo dell’amore dei protagonisti. Pensiamo alle inquadrature degli alberi da frutto, ma anche e sopratutto all’evoluzione della pesca, che durante il film matura insieme all’amore che prova Elio per Oliver, fino ad arrivare alla sequenza della masturbazione mediante il frutto stesso.
La casa è ora in vendita e la notizia ha fatto scalpore: d’altronde chi non vorrebbe dal proprio padre un discorso simile a quello che il padre di Elio riserva e regala al figlio? Chi non sogna la bellezza spensierata di quell’estate, tra bicicletta e bagni in piscina, circondato dalle campagne sorridenti del nord Italia?
Nonostante un riscontro di pubblico certamente meno enfatico, non è da meno Io sono l’amore. Se la Roma di Sorrentino è eterna bella e decadente, discreta elegante e impeccabile è la Milano di Guadagnigno: dalla stazione centrale ricoperta di neve, passando per gli imponenti palazzi di Porta Venezia, immortalati nel loro perfetto equilibrio, fino ad arrivare alla sbigottente bellezza della Villa Necchi Campiglio.
Luca Guadagnino fa davvero dell’arte del costruire il colore più bello della sua tavolozza. Villa Necchi Campiglio, progettata da Piero Portaluppi, noto architetto milanese, è stata scelta per raccontare le vicende della famiglia Recchi, appartenente all’alta borghesia industriale lombarda.
Per quanto sembrerebbe la destinazione perfetta di un viaggio tormentato e difficile, la scelta della location è stata del tutto casuale: ciò che il regista cercava era «un ambiente molto rigoroso, neutro all’esterno e ricco all’interno, severo ma allo stesso tempo dorato e caldo», come esplicitato dal regista stesso in un’intervista per il «Corriere della sera».
Villa Necchi Campiglio, dimora storica costruita agli inizi del ’900, pomposa ed elegante, risulta fin da subito la soluzione perfetta per essere contrapposta alla semplicità e alla verginità della natura e dei luoghi dove vive Antonio. Sanremo, Dolceacqua e Castel Vittorio diventano, allora, la via di fuga per Emma, bene interpreta da Tilda Swinton, da una vita fredda e spoglia di ogni sentimento.
In questa carrellata, da perfetti location manager, alla scoperta delle architetture da film non si può dimenticare Paolo Virzì, che bene ha colto l’importanza di ciò che fa da sfondo alla purezza formale ed estetica dei progetti filmici. Non è un caso che i cantieri firmati Virzì sono quasi sempre in Toscana, regione-palcoscenico di una commedia umana che ha un sapore familiare. Forse perché è quella casa che Virzì stesso ha abbandonato in favore della capitale dove ora vive.
Pensiamo a La pazza gioia, punto fermo della maturità del regista, che nel 2017 ha conquistato il David di Donatello, mettendo la sua firma su miglior regia, miglior film e migliore attrice protagonista. Sicuramente la prova attoriale di Micaela Ramazzotti e di Valeria Bruni Tedeschi ha semplificato il compito al regista, che ha portato nelle sale uno dei film italiani più belli di quell’anno.
La pazza gioia racconta l’amicizia tra Beatrice e Donatella, due donne ricoverate in una clinica psichiatrica che insieme decidono di fuggire e iniziare un’avventura destinata a cambiare le loro vite per sempre. Una fuga girata in luoghi che il regista conosce bene e ama, che hanno formato e plasmato il suo cinema quasi fossero il blocco di marmo che l’artista deve scavare e modellare per creare arte.
Nel 2015 il regista e sua moglie Michaela Ramazzotti si recano a Viareggio per un sopralluogo durante il Carnevale, dove si trovano casualmente a girare una delle sequenze più belle ed emozionanti del film, affidandosi, come solo l’impronta neorealista italiana avrebbe saputo fare, a comparse locali.
Viareggio, in quanto «gioia e divertimento durante l’estate ma anche profonda depressione e malinconia che dà il mare nel periodo di autunno ed inverno», nelle parole del regista, si fa punto focale di una storia intensa e commovente, che senza mezze misure arriva dritta al cuore, facendoci divertire e sorridere un minuto prima, piangere e innervosirci il minuto dopo.
A rubare l’attenzione di chi guarda La pazza gioia, quindi, oltre alla simpatia struggente delle due protagoniste, sono certamente le location in cui viene girato il film. Villa Biondi, comunità terapeutica per donne con disturbi mentali, affascinante e solare, è in realtà una tenuta agricola abbandonata fuori Pistoia, circondata da vivai.
La villa dove risiedono i genitori di Beatrice e dove le protagoniste si incontrano per la prima volta prende il nome di Villa Mansi di Segromigno in Monte. Costruita nel ’600, apparteneva al marchese Raffaello Mansi, famosa per la sua elegante architettura e per il fascino dei suoi giardini. Ad ornare il sorridente aspetto della villa numerosi affreschi, che proprio in favore del film furono restaurati.
Insomma Villa Biondi era il posto ideale per sfuggire alla crudeltà svilente del mondo che ci circonda: una tenuta troppo bella per essere reale, «un po’ vera e un po’ sognata».
Il regista è riuscito a disegnare con le immagini una mappa della Toscana, dove Beatrice e Donatella, donne fragili e forti allo stesso tempo, fuggono alla ricerca di se stesse, viaggio che Paolo Virzì stesso non si è risparmiato, ricercando l’arte dentro le sue origini.
Forse, anche per questo, il film meno riuscito e più criticato del regista è proprio il film che dalla Toscana prende le distanze. Ella & John – The Leisure Seeker racconta la storia di Ella e John, moglie e marito ottantenni, che decidono di sfuggire alle cure mediche e partire con un camper all’avventura e alla ricerca dell’emozione semplice del costruire, anche alla fine della vita, le emozioni della prima volta. Guardando il film non si trova lo stesso pendant che i sorrisi della Ramazzotti e la comicità drammatica della Valeria Bruni Tedeschi fanno con le vigne e i porti toscani. Seppure la East Coast non abbia scenari meno splendidi, a mancare sono la fierezza e la tradizione secolare in cui risplendono il cinismo e l’astuzia italiana. Ancora, Livorno e il mondo a parte, il giornale (il Tirreno) tanto presente nei film di Virzì, che più di altri registi si è dimostrato capace di ambientare nei luoghi più adatti la nuova commedia all’italiana.
Articolo a cura di Ariele Morpurgo, giovane appassionato di teatro e promettente regista. Abita a Milano e studia allo IULM. L’articolo è stato pubblicato sul sito: https://www.argonline.it/inquadrare-la-bellezza-larchitettura-nel-cinema-italiano/