LE DUE VITE DI TINTORETTO
Tra Vasari e il Manierismo, l’ascesa di un artista visionario. Uno guardo alle mostre veneziane, mentre dal 24 marzo si è aperta quella di Washington- I ritratti dei vecchi e quella rivincita sul grande Tiziano- L’uso della prospettiva e della luce ne fanno un precursore.
A 500 anni dalla nascita, Venezia celebra Tintoretto con una coproduzione internazionale che unisce la Fondazione Musei Civici di Venezia (che, nella persona della sua direttrice Gabriella Belli, ha fortemente voluto il progetto) e la National Gallery of Art di Washington. A Venezia, fino al 6 gennaio, due le mostre portanti: a Palazzo Ducale con «Tintoretto 1519-1594» e alle Gallerie dell’accademia con «Il giovane Tintoretto». A Washington invece un’ampia retrospettiva sarà presentata nella primavera del 2019 alla National Gallery of Art. A curare la mostra di Palazzo Ducale così come quella di Washington (cataloghi Marsilio), sono gli studiosi americani, Robert Echols e Frederick Ilchman; la mostra alle Gallerie dell’accademia è curata da Roberta Battaglia, Paola Marini, Vittoria Romani (catalogo Marsilio Electa). Collegata alla mostra del Palazzo dei Dogi è l’iniziativa di Palazzo Mocenigo «La Venezia di Tintoretto». Orari e biglietti: www.visitmuve.it
Washington celebra il genio di Jacopo Tintoretto con una serie di grandi eventi legati all’artista veneziano a seguito degli eventi dedicati all’artista nel 2018 nel capoluogo veneto. La National Gallery of Arts, una delle massime istituzioni museali degli Stati Uniti che vanta un rapporto di collaborazione unico con le maggiori istituzioni italiane, presenterà alla stampa americana e italiana tre mostre su Jacopo Tintoretto (1518/1519–1594), organizzate nel cinquecentesimo anniversario della nascita ed aperte al pubblico a partire dal 24 marzo. La prima, “Tintoretto: artist of Renaissance Venice”, in collaborazione con la Fondazione Musei Civici di Venezia e le Gallerie dell’Accademia di Venezia, è la prima retrospettiva dell’artista in Nord America e ospiterà circa 50 dipinti e più di una dozzina di opere su carta, inclusi molti importanti prestiti internazionali che viaggiano per la prima volta negli Stati Uniti. Ad essa si affiancano due mostre intitolate, “Drawing in Tintoretto’s Venice” in arrivo dalla Morgan Library & Museum di New York e “Venetian Prints in the Time of Tintoretto”.
Cinquanta dipinti e venti disegni sintetizzano a Palazzo Ducale la produzione della maturità che passa attraverso la ritrattistica, tappa fondamentale dell’attività di Tintoretto. Se infatti Tiziano immortalò l’establishment internazionale, il talentuoso figlio del tintore ritagliò per sé il ruolo di pittore ufficiale della gerontocrazia veneziana.
E c’è un motivo preciso: a partire dagli anni Cinquanta Tintoretto subentrò a Tiziano nell’incarico di ritrattista dei dogi, tutti uomini che conquistavano la carica nella maturità. Ma mentre il pittore di corte degli Asburgo si manteneva fedele alle convenzioni che imponevano di conferire al modello una dignità aulica, enfatizzata da abiti lussuosi, gioielli, tendaggi, Tintoretto lavorava invece per sottrazione, finendo per togliere anche la minima ombra retorica e ogni riempitivo dell’immagine. Concentrava la luce su viso e mani e da lì traeva tutti gli elementi realistici che gli servivano a svelare l’anima dei suoi modelli.
Non si limitava a guardarli con oggettività, ma li metteva in posa con lo sguardo direttamente rivolto al riguardante producendo così una scossa emotiva, un rapporto diretto e coinvolgente. Ma per conquistare il ruolo di pittore di Stato, Tintoretto non si era semplicemente affidato al talento.
Come suo costume, aveva studiato una strategia. Ambizioso, venuto dal nulla, senza maestri né appoggi, ma molto determinato a sfondare nell’iper competitivo ambiente artistico veneziano, si era fatto notare esponendo alla Merceria — vetrina per i giovani — due ritratti: il proprio e quello di suo fratello «finti di notte, con si terribile maniera, che fece stupire ognun’uno», racconta il biografo Claudio Ridolfi. Quel quadro non doveva essere dissimile dall’autoritratto che apre la mostra di Palazzo Ducale, arrivato dal Philadelphia Museum of Art: gli stessi occhi «di brace», arroganti e affamati di gloria e di soldi con cui si presenterà anche il giovane Caravaggio. La tattica di conquista del mercato resterà identica per tutta la vita: attuare una spietata «concorrenza cinese» consistente nell’abbassare i prezzi e «tirar via di pratica», come disse Vasari che disapprovava la sua velocità. Tintoretto si mise a offrire ritratti di piccole dimensioni, limitati alla testa e alle spalle, eseguiti rapidamente e a costo ridotto e il successo fu facile. Approfittando delle assenze di Tiziano, nel 1551 il figlio del tintore risultava già pittore di Stato e tutta l’élite politica e intellettuale sedeva davanti al suo cavalletto.
Tranne le donne. Tintoretto ne dipingerà poche e non riuscirà mai a rubare al rivale La vecchiaia Jacopo Tintoretto, Autoritratto, 1588 ca, Parigi, Musée du Louvre, in mostra a Palazzo Ducale l’impareggiabile dono di restituirne la sensualità. I vecchi, al contrario, furono il suo cavallo di battaglia. Negli anni ‘70 e ‘80 i ritratti dei venerandi che conquistavano le più alte cariche della Serenissima costituirono la parte preponderante della sua produzione: una parata di dogi, magistrati, vecchi combattenti, restituiti senza alcun intento idealizzante, ma anzi con il volto affaticato dall’esperienza e dal peso delle responsabilità.
Non eroi; non potenti ambiziosi; ma uomini provati, intenti a contemplare, con gli occhi cerchiati di nero, le palpebre gonfie e le guance scavate, la melanconia della vicenda umana. Una carrellata di anziani in cui Tintoretto infilò i soggetti. Una parata di dogi o magistrati restituiti con il volto affaticato dalla lunga esperienza. Non faceva le vedute ma colse il carattere della sua città nei volti dei suoi abitanti anche se stesso, nel magnifico autoritratto che chiude la mostra, arrivato dal Louvre.
A fine percorso ci troviamo così di nuovo faccia a faccia con le sembianze dell’artista, ma il giovanile sguardo di sfida è diventato di un’intensità emotiva così intima che ora sembra cercare la confessione. A settant’anni, ricco di gloria, Tintoretto è triste. Nessun dettaglio allude alla sua attività di pittore. Quell’estremo autoritratto appare come un legato tragico della propria esperienza di vita e arte: sic transit gloria mundi.
Il racconto Tintoretto dipinge Venezia perché prende il contenuto, non il contenitore. La città viva, non la città vuota, da cartolina. Tintoretto, più di tutto, dipinge i veneziani, l’energia e l’astuzia di quella potenza. Fa ritratti, più di un centinaio con la sua bottega; passano da lui i dogi e i patrizi di secondo piano, i membri delle Scuole e i mercanti. Ma poi ruba i loro piedi, le loro barbe, i loro seni, anche per fare i santi, i personaggi della mitologia antica, le figure di contorno. Prende i volti, la furbizia e la gloria. Prende i vecchi e i giovani. I vestiti, la ricchezza, i tappeti e gli specchi, i pizzi e le gorgiere. Non è sua, la rivoluzione del Rinascimento, della verità dei tratti, ma lui la amplifica. La porta verso il destino, attraverso la luce. Per questo, Venezia non è solo negli uomini, negli interni. Venezia c’è nelle grandi scene, perché c’è il suo cielo, ci sono le nubi scure come coperchi di rame, i colori, e l’impeto con cui cambiano.
Articolo di Roberta Scorranese ( rscorranese@corriere.it)