Marie Colvin è una leggenda. Ma per capire cosa abbia spinto la figlia di un ex marine, nata a Long Island nel 1956, cresciuta in barca a vela e laureata a Yale in antropologia, a diventare una delle più temerarie corrispondenti di guerra non bastano i documentari come Under the Wire, e nemmeno il film, A Private War, realizzato sei anni dopo anni dopo la sua morte avvenuta nel 2012 per mano delle forze militari siriane, durante l’ assedio di Homs.
Bisogna leggere questa poderosa antologia che racchiude tutte le tappe d’ una vita spericolata trascorsa sui grandi teatri di guerra (da Tripoli a Bassora, da Baghdad al Kosovo, dalla Cecenia a Timor Est, in Etiopia fra le vittime della carestia, in Zimbabwe fra le vittime degli stupri dei miliziani di Mugabe, in Sierra Leone fra i guerriglieri drogati nel deserto, e in Sri Lanka fra gli indipendentisti Tamil, e poi in Iraq per la morte Saddam, e da lì a Gaza, a Beirut, in Afghanistan fra i talebani, in Egitto e in Libia per la primavera araba e la fine di Gheddafi, e quindi in Siria martoriata dalle bombe) e ne rivela le pulsioni più profonde.
E cioè la passione per la verità, l’ ansia di raccontare l’ orrore della guerra nei suoi risvolti più banali, e soprattutto l’ adrenalina che nasce dalla voglia di mettersi in gioco e sfidare se stessa con prove ardimentose e forti emozioni, sino a testare ogni giorno il nucleo inscalfibile della forza d’ animo e testimoniare l’ infinita sorgente che morte distruzione e sofferenza rappresentano per la compassione umana.
Marie Colvin era una donna che aborriva le astuzie femminili. Quando vinse il Women’ s Media Foundation Award, lei stessa lo spiegò, citando la mitica Martha Gellhonrn («Non le posso reggere, le femministe») in un’ intervista che le nostre grandi firme in pashmina dovrebbero imparare a memoria.
Pur consapevole del fattore D, voleva essere un reporter di guerra e basta, senza concessione di genere, e ora sappiamo come riuscì nell’ impresa. A trent’ anni, quando guardava il mondo dai suoi due occhi azzurri, sottili come quelli di una lucertola (dopo aver perso il sinistro in Sri Lanka nel 2001 durante un servizio fra le tigri Tamil, se lo coprì con una benda nera), finisce a Bassora per la guerra Iran-Iraq. Due anni dopo racconta la violenza criminale alla corte di Saddam attraverso il sosia del secondogenito del dittatore, figlio di un ricco mercante curdo minato dalla distruzione d’ identità e gravi turbe psichiche.
Nel marzo 1998, entra clandestinamente in Kosovo con un’ unità dell’ Esercito di liberazione, e ricostruisce gli orrori dell’ artiglieria serba attraverso il racconto di un’ undicenne albanese, unica sopravvissuta all’ eccidio della sua famiglia a Prekaz.
L’ anno dopo, sempre clandestinamente, entra in Cecenia dalla Georgia con un fuoristrada presto crivellato dai russi. Trova riparo in un campo vicino a Grozny, dove intercetta una coppia di ceceni che dopo aver tentato tre volte la fuga attraverso il corridoio aperto dai russi verso l’ Inguscezia, s’ è rintanata in una minuscola grotta, con un letto posato sulla ghiaia, una stufa a legno e un sacco di cipolle e un po’ di farina. Quando i bombardamenti riprendono, capisce che l’ unico modo per sfuggire ai caccia russi è inerpicarsi sulle montagne del Caucaso.
Inizia così per lei, per il fotografo russo che lavora per il Sunday Times, e gli sherpa ceceni che si alternano nei traffici clandestini, una marcia di otto giorni, a 3800 mt di quota, segnati dal gelo, dalla fame, dalla fatica, lungo sentieri sospesi sull’ abisso fra gole imbiancate, torrenti ghiacciati, valichi introvabili, nell’ incubo del satellitare con la batteria allo stremo, finché il giornale di Londra non riesce a mandare da Tbilisi un elicottero dell’ ambasciata Usa per trarre in salvo la sua corrispondente, concittadina americana.
Marina Valensise per “il Messaggero”
Elle.it vi racconta la storia e la breve esistenza di questa straordinaria giornalista.
«Ho un occhio buono, ed è su di te» gridò ridendo Marie Colvin mentre correva. Era il 2011. Del gas lacrimogeno fu fatto esplodere in piazza a Tahrir, al Cairo. Le nuvole di acido si mescolavano alle urla della folla durante una manifestazione. Era in corso la guerra civile in Egitto e lei, come sempre, era lì, pronta per documentare ogni attimo, ogni sguardo, ogni storia di vita. «I reportage di guerra sono cambiati negli ultimi anni. Ora andiamo in guerra con un telefono satellitare, un portatile, una videocamera e un giubbotto antiproiettile. Ma l’essenza del giornalismo di guerra è sempre quella: qualcuno deve andare laggiù e vedere cosa succede».
Sulle orme della giornalista Martha Gellhorn, il cui libro I volti della guerra portava sempre con sé, seguì i conflitti in Iran, Iraq, Medio Oriente, Libia, Guerra del Golfo, Kosovo, Cecenia, Timor Est, Etiopia, Zimbabwe, Sierra Leone, Sri Lanka, Guantanamo, Egitto, Afghanistan, Siria. Si spingeva oltre quei confini che nessuno osava valicare.
Marie Colvin era la giornalista che riusciva più di tutti a resistere al centro del conflitto, tra piogge di granate e disastri umanitari. Voleva dar voce a chi voce non ne aveva. Voleva rivelare al mondo quello che a pochi era concesso vedere. Non era solo il suo lavoro, era la sua stessa vita. Nel 1999 salvò 1500 donne e bambini dalla morte in una zona assediata dalle forze militari indonesiane; nel 2000 vinse il Women’s Media Foundation Award for Courage in Journalism, un premio dedicato alle donne giornaliste che si sono distinte per il loro coraggio. Fu la più indomita, appassionata, coraggiosa, ironica, affascinante reporter di guerra degli ultimi decenni.
Articolo di Cristina Ropa per Elle.com