Di seguito potrete leggere l’articolo apparso sul Foglio a proposito dei “tagli” alla Sanità. Le opinioni possono essere differenti, ma le argomentazioni dell’autore, molto documentate, non sono facilmente confutabili. Ancora una volta non si tratta di spendere di più, ma di spendere meglio.
C’era chi metteva mano alla pistola ogni volta che sentiva la parola “cultura”. E c’è chi in Italia, più prosaicamente, erige barricate di retorica ogni volta che sente le parole “istruzione” e “sanità” pronunciate dal governo di turno. Sull’istruzione si è già detto nelle scorse settimane: con un milione di profughi alle porte dell’Europa, per amplificare nel discorso pubblico il disagio di poche migliaia di professori che dovevano spostarsi dalla Puglia al Molise o giù di lì in cambio di un contratto a tempo indeterminato, non si è trovato di meglio che etichettarli come “deportati”. “Non si tocca l’istruzione!”, nel senso di classe docente del settore pubblico con qualche suo privilegio, incluso quello unico al mondo di disconoscere la “mobilità geografica”. Al punto che sorgeva spontanea l’alternativa: forse è il caso di spostare gli alunni lì dove sono i prof. assunti. Ci arriveremo.
Ma è tempo di legge finanziaria, dunque non si poteva non bissare in materia di Sanità. Il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, in un’intervista al Messaggero è tornata ieri a sostenere l’utilità di evitare il ricorso istantaneo e automatico a 208 tipi di prestazione garantita dal servizio pubblico su una lista di 1.700. Si risparmierebbero subito 180 milioni di euro, su 13 miliardi di costo complessivo di visite e analisi considerate “inutili”. Associazioni di medici e politici locali d’ogni colore, quasi come un sol’uomo, hanno declinato per tutta risposta il consueto “non si tocca la salute!”. Perché la Sanità pubblica è già martoriata dai tagli, perché la “medicina difensiva” è solo un eccesso di responsabilità e autotutela del medico, a fronte di eventuali ricorsi, e perché sulla malattia è meglio che si pronunci liberamente un medico che un qualche freddo burocrate.
Innanzitutto, il finanziamento statale per la Sanità è passato da 67 miliardi nel 2000 a 112 miliardi nel 2012, più 68 per cento; nel 2015 sono stanziati 112,1 miliardi, l’anno prossimo comunque non saranno meno (previsioni a 115,4 miliardi). Rispetto al passato, al massimo, rallenta l’avanzata. Sul fronte della spesa regionale i tagli ci sono stati, ma di entità contenuta, concentrati negli ultimi tre anni e nelle regioni commissariate (cioè quelle che avevano speso tantissimo e malissimo negli scorsi anni). Con l’aggravante che, mancando un sistema di valutazione delle strutture e dei reparti, aumenti (prima) e tagli (poi) sono stati spalmati quasi alla pari su tutti gli ospedali di tutte le regioni.
Seconda obiezione: i medici prescrivono più esami del dovuto per tutelarsi da eventuali ricorsi dei pazienti insoddisfatti. “La chiamano ‘medicina difensiva’, infatti, ma a essere onesti dovremmo chiamarla ‘offensiva’ – dice al Foglio Marcello Crivellini, docente di Analisi e organizzazione di sistemi sanitari al Politecnico di Milano – Perché prestazioni e medicinali apertamente inutili costituiscono pur sempre danni sicuri per le tasche dei contribuenti e danni potenziali per la salute dei pazienti. Se il medico non vuole assumersi la responsabilità di scelte per definizione selettive, allora meglio che vada a fare il salumiere, limitandosi a prescrivere ciò che altri gli richiedono”. Che poi, rispetto a 10 milioni di ricoveri l’anno, le denunce in Italia sono ancora poche. Ieri, sulla Stampa, lo ha scritto anche l’oncologo Umberto Veronesi. Il suo ragionamento: vero, si sta perdendo la fiducia nel rapporto medico paziente; vero, il rischio denuncia mette paura; tuttavia la conflittualità legale è molto più elevata all’estero, e il decreto proposto dal governo Renzi, imponendo paletti di massima ai medici, è “un buon rimedio”, “può essere una specie di mano tesa al medico per uscire dall’impasse della medicina difensiva che è una minaccia reale per la qualità del nostro Sistema sanitario”.
La terza obiezione esalta retoricamente il libero esercizio in scienza e coscienza della professione medica, che non potrebbe quindi sottostare a realistici vincoli di bilancio. “Come nel caso della scuola, dove si dice di voler tutelare l’istruzione attuando comportamenti che vanno a scapito degli alunni, ora si difende la Sanità senza considerare la salute dei pazienti”, dice Crivellini. Salute che, secondo vari studi, dipende per il 20-30 per cento dal patrimonio genetico di ciascuno di noi, per il 20 per cento dall’ecosistema in cui viviamo, per il 40-50 per cento dallo stile di vita e dalla condizione socioeconomica, e soltanto per il 10-15 per cento dai servizi sanitari. Farmaci inclusi, specie se si dà retta a Silvio Garattini, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, secondo il quale circa la metà dei farmaci assunti è inutile. “Qui di difensivo c’è solo l’atteggiamento di una corporazione, quella medica. L’incentivo alle barricate anti risparmi è plurimo – dice Crivellini – Ci sono i centri diagnostici che quante più diagnosi fanno, tanto più guadagnano. I medici specialisti e le cliniche private convenzionate, idem. Poi il noto pressing delle case farmaceutiche. E la scandalosa espansione delle prescrizioni che rendono floride le attività intra moenia dei medici ospedalieri, intra moenia per modo di dire, visto che ormai avvengono anche fuori dalle mura degli ospedali. Infine la politica regionale e le centrali sindacali che difendono le grandi strutture ospedaliere, sempre meno adatte per società demograficamente invecchiate, solo perché più facili da gestire e pilotare”. Insomma il fine della Pubblica amministrazione sanitaria – a voler scomodare qualche rudimento di public choice – non è più il servizio da offrire, ma l’ampliamento dell’organico e del giro d’affari (pagato dal contribuente). La prova definitiva? Chiedete a un medico se sottoporrebbe suo figlio a un “esame inutile”. Anzi, chiedete a tutti i medici. E’ quello che 15 anni fa fece Gianfranco Domenighetti, professore e responsabile della Sanità pubblica svizzera. Dimostrò che in Svizzera i medici e i loro famigliari si sottopongono a molti meno interventi del cittadino qualunque, quasi la metà. Se i medici utilizzassero con tutti i pazienti la stessa cautela, la spesa sanitaria sarebbe inferiore del 30 per cento. Le prestazioni in eccesso, diffuse tra i cittadini normali, sono “spesa sanitaria indotta”. Indotta da interessi corporativi di medici e burocrati, oltre che da limiti culturali e informativi dei cittadini. E se in Svizzera un terzo della spesa sanitaria ospedaliera è “inutile”, qui ci dovremmo stracciare le vesti per un risparmio di 180 milioni di euro?
IL FOGLIO, Marco Valerio Lo Prete | 26 Settembre 2015