In attesa che, dopo la morte, avvenga la resurrezione dei corpi, oppure la reincarnazione, non è possibile vivere più esistenze in questo mondo, dal momento che ci siamo?
Lo può fare anche chi non crede né alla prima, né alla seconda. Non si tratta di aggiungere più vita ai giorni e non viceversa, come suggeriva Rita Levi Montalcini, né di una metempsicosi: l’anima può rimanere dov’è. Il fatto è che noi ce la teniamo, ma l’ignoriamo o la trascuriamo. L’io di pavoneggia, fino allo sfinimento, nello specchio, solo ciò che è esteriore colpisce, e Narciso è sempre lì a contemplare se stesso, esteticamente riflesso, ma non la sua facies interiore.
Vi siate mai chiesti, leggendo Kafka, perché lo scrittore praghese, quando descrive Samsa, non ci parla della sua anima, ma del fatto che “Gregorio Samsa, svegliatosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo.”? Vi siete mai chiesti del perché di questa trasformazione, del suo valore simbolico? Samsa non riesce o non vuole sottrarsi a una famiglia in cui la dipendenza da un padre autoritario diventa oppressione. La sua trasformazione non è altro che la metafora che precede la morte, l’unica maniera per liberare la famiglia dalla sventura della sua presenza immonda, unica maniera per dare significato ad una vita per lui senza alcun senso.
Samsa non pensa neanche lontanamente che una vita diversa è sempre possibile, che dipende da noi.
Leggendo le storie della vita di sant’uomini, colti da rapimenti mistici, oppure di guarigioni sorprendenti, di incontri emotivamente sconvolgenti, di sventure che stroncano, un dato è costante: è quello l’istante dell’avvio di una radicale trasformazione, non cercata chiaramente (per tutte, la conversione di San Agostino), spesso non voluta (chi cerca la propria sventura), ma che letteralmente resetta la nostra esistenza. Dopo siamo nuovi e diversi, e nuovo e diverso è il nostro sguardo sul mondo. Un nuovo avvio, insomma, una rinascita. Appare quello che io chiamo uomo inedito, rubando l’espressione a Ernesto Balducci, presbitero, editore, scrittore e intellettuale, autore de La civiltà del tramonto- saggio sulla transizione.
Inedito nel senso che Balducci indicava: l’uomo che riesce a tirare fuori non quello che non c’è, ma quello che ha inespresso dentro di sé.
Ogni volta che riusciamo a farlo è una nuova partenza e non siamo più quelli che eravamo il giorno prima.
Forse nessuno intorno se ne accorgerà, almeno sulle prime, forse la metamorfosi resterà confusa, incerta, recalcitrante anche per noi, ma essa è presente e lavora nel profondo.
Non serve la conversione, né il ritiro spirituale, né la meditazione per fare emergere l’uomo inedito che siamo. Ha scritto Agostino d’Ippona: “Arrivammo così alle nostre menti e passammo oltre”. Il superamento dei limiti della coscienza, tappa di un lungo viaggio che dal contingente porta al trascendente, fino “ai prati della verità”, non poteva essere detto più poeticamente e più intensamente. Non c’è niente di più concreto della trascendenza quando viene testimoniata attraverso le opere, nel quotidiano “labora”.
Ma preferiamo pavoneggiarci davanti allo specchio perché è più facile. Perché sorprenderci allora se l’immagine che abbiamo di noi è la stessa che Samsa ha di sé: “Sdraiato nel letto sulla schiena dura come una corazza, bastava che alzasse un po’ la testa per vedersi il ventre convesso, bruniccio, spartito da solchi arcuati; in cima al ventre la coperta, sul punto di scivolare per terra, si reggeva a malapena. Davanti agli occhi gli si agitavano le gambe, molto più numerose di prima, ma di una sottigliezza desolante.”
L’uomo inedito non guarda solo con gli occhi, ma con l’anima. Con quello sguardo interiore, per riprendere le parole finali del libro di Balducci, che sa guardare lontano, dove arriva la luce del faro, e non si accontenta di stare ai piedi del faro, perché lì c’è solo buio.