LA RIFLESSIONE PARTE DALLA PENNA DI CINO ZUCCHI, ARCHITETTO MILANESE. A MILANO SI COSTRUISCE TANTO, SI COSTRUISCE BENE, MA CI SONO ANCHE TANTISSIMI PROGETTI DELUDENTI E TROPPO, TROPPO COMMERCIALI
Una “riflessione pacata” condivisa dall’architetto Cino Zucchi via Facebook diventa l’occasione per provare ad aprire il dibattito sullo stato dell’architettura contemporanea nel capoluogo lombardo. Visto che, per fortuna, si costruisce tanto sarebbe meglio costruire anche bene. Sono trascorsi sei anni da quando Cino Zucchi ha curato il Padiglione Italia alla Biennale di Architettura di Venezia. Era il 2014 e la sua città natale, Milano, si preparava al rush finale prima di Expo 2015. Forse anche sulla spinta dell’attesa per il grande evento internazionale, alla kermesse lagunare il capoluogo lombardo venne presentato come il “laboratorio del moderno”: l’esempio più riuscito, a livello nazionale, del processo di rinnovamento e rinascita avvenuto in Italia dal dopoguerra in poi. All’epoca, proprio introducendo Innesti/Grafting, il progettista della Nuvola Lavazza e dell’Headquarter Salewa aveva identificato Milano come “il luogo dove la dialettica tra modernizzazione e permanenza della struttura urbana è stata più forte. Dopo i bombardamenti del 1943, il moderno milanese è stato capace di intervenire per punti nel delicato tessuto del centro, inserendo tipologie diverse da quelle esistenti ma capaci di interagire con esse su più livelli”. Dopo Expo la città ha intrapreso una fase di forte ascesa che ancora è in corso e che si proietta nei prossimi decenni, suggellata da riconoscimenti e da performance giudicate positive – tra cui quelle rilevate nella stesura dell’annuale classifica della Qualità della vita del Sole 24 Ore – ma, nello stesso tempo, accompagnata da timori e accesi confronti sul ruolo dei privati, sulle disuguaglianze, sul diritto alla casa.
UNA RIFLESSIONE PACATA
Alla città e al suo contesto architettonico, lo stesso Zucchi si è soffermato in questi giorni con quella che lui stesso ha definito “una riflessione pacata”; affidata a Facebook, viene parzialmente qui ripresa. L’architetto, anche professore al Politecnico di Milano, ha messo a confronto la “qualità progettuale sempre più alta nella generazione dei giovani architetti italiani ed europei”, con i “progetti in corso a Milano” che, dal suo punto di vista, risultano “spesso molto deludenti”. Un’affermazione associata a una serie di motivazioni. “Cerco di spiegare perché: in un’epoca di diffusione virale delle immagini, esiste ormai un’architettura “commerciale” – non do a questo termine un valore così negativo – che combina con furbizia motivi copiati qua e là da progetti pubblicati da riviste, creando un linguaggio spurio, senza radici, senza coraggio, senza coerenza vera”, afferma Zucchi.
“È un linguaggio “eager to please” (ansioso di piacere) che mischia hi-tech, tetti verdi, doppie vetrate, ritmi sincopati, muscoletti, colpi di sole, tatuaggi, zazzere e Ray-ban specchiati”, scrive ancora. Provando, in particolare, ad attivare una riflessione con i “migliori esempi di architettura milanese degli anni ‘50 e ‘60”, lo scenario attuale appare meno convincente e, forse, anche meno promettente dinanzi alla sfida del tempo. “Senza mettermi in cattedra o fare il “connoisseur”, sento tuttavia come problema il fatto che pochi sembrano accorgersi della distanza o differenza tra questa produzione e gli esempi di reale valore. Parlo non dei capi d’opera di grande impatto iconico (gli edifici della Bocconi delle Grafton o di Sanaa, la Fondazione Prada di Koolhaas, La Feltrinelli di Herzog e De Meuron e pochi altri) ma delle architetture che costruiscono a piccoli frammenti i nuovi tessuti urbani della città”.
TRA “FRASI A EFFETTO E POESIA VERA”
Lo sviluppo immobiliare sembra dunque muoversi sulla scia di una sorta di “facile ricerca del consenso”, anziché essere caratterizzato da interventi potenzialmente in grado di divenire “esemplari”? “Diciamo che la città è di tutti e tutti hanno il diritto di esprimere giudizi -, anche limitati al “mi piace” o “non mi piace” -, però c’è qualcuno che sente ancora la differenza tra esibizione e sostanza, tra le frasi ad effetto e la poesia vera, tra Eros Ramazzotti (che pure rispetto) e Leonard Cohen?”, domanda apertamente Zucchi, attingendo alla sua ben nota passione per la musica per una efficace metafora. La sua valutazione, in realtà, non sembra essere così isolata. Solo qualche settimana, nell’anteprima del campus dell’Università Bocconi di studio Sanaa, anche Alessandro Benetti su Artribune aveva fatto riferimento a una “Milano che negli ultimi anni ha fatto il tutto esaurito di incubi scultorei da archistar di serie B”.
MA FARE QUALCHE NOME?
Centrata e opportuna la riflessione di Cino Zucchi. Centrata perché in architettura e in urbanistica si può sempre migliorare per cui ogni critica è una opportunità. Opportuna perché l’unico rischio dell’abbrivio entusiasta milanese di questi tempi è autocompiacersi: Milano continuerà a crescere solo se continuerà a mettersi in discussione, a criticare se stessa, a mantenere la capacità di vedere gli errori (tanti) che affiancano le cose buone (tantissime).
Il grande architetto però resta sul teorico. A quali progetti si riferisca in pratica non è dato sapere. Di più: fa esclusivamente riferimento ai progetti che gli piacciono ma non menziona quelli che non gli garbano e che, addirittura, stanno pregiudicando la città di domani. Delle due l’una. O quello di Zucchi è un monito per i prossimi concorsi (a brevissimo si decideranno i vincitori per realizzazioni importantissime, sempre nell’area di Melchiorre Gioia al posto di vecchi edifici che saranno trasformati o demoliti) oppure è una reticenza per evitare polemiche e restare nella pacatezza.
Ma forse fare qualche nome e indicare qualche progetto non particolarmente indovinato potrebbe essere utile. Qualche esempio? Ad esempio, l’ultimando Gioia22, proprio nell’area di Melchiorre Gioia ovvero nel nuovo scintillante centro direzionale a pochi passi dalla stazione centrale, a firma di Cesar Pelli. Oppure tutta l’area a sud della Fondazione Prada sviluppata dalla società Covivio sotto il brand “Symbiosis”, che sta uscendo dall’abbandono trasformandosi in appetibile quartiere per uffici all’insegna di architetture non propriamente avvincenti e inconfondibili. O ancora, non distante da qui, la nuova prevista sede-grattacielo della multiutility A2A, che ‘affaccerà’ proprio sul progetto di Rem Koolhaas e infine, sempre restando ai progetti firmati da Antonio Citterio e Patricia Viel che sembrano destinati nel bene e nel male ad essere i principali interpreti della nuova Milano, il development denominato Gioia20: qui è stato fatto un concorso, c’erano tante proposte coraggiose, è stata scelta quella più… normale. O, meglio, più in grado di tenere bassi i costi di costruzione e alte le potenzialità commerciali. A discapito – questa è la questione – della creazione di un profilo urbano immaginifico e unico?
Articolo di Valentina Silvestrini e Massimiliano Tonelli per https://www.artribune.com/