Autoritratto di Maurilio Manara per brevità chiamato Milo: «Ho le stesse iniziali di Michelangelo Merisi e Marcello Mastroianni, ma non mi sento né un pittore, né un artista. Sono un fumettaro, un fumettaro e basta. Quando iniziai, la consapevolezza del valore culturale del fumetto, non un genere narrativo, ma una forma narrativa che contiene tutti i generi, ancora non esisteva.
Oggi Gipi e Zerocalcare concorrono per i premi letterari, forse cercano definizioni più alte per la loro opera e in qualche modo li capisco, ma io sto bene così, senza niente da insegnare a nessuno e nonostante l’età, con molte cose ancora da imparare».
A quasi 72 anni, dopo aver colorato l’esistenza di torme di sognatori e di repressi proiettando sulle pagine paradisi femminili utili a destare l’ammirazione di Altman e di Fellini, Manara torna a Roma per una mostra antologica al Macro in cui rileggere le tappe della sua parabola e nelle pause -pudicamente-rispecchiarsi nell’arco dei decenni: «Sono felice che si faccia a Roma, con la città ho un rapporto antico, la prima volta arrivai in Autostop».
Come mai?
«Covavo l’illusione e la speranza un po’ ingenua di incontrare Fellini. Avevo visto La Dolce vita di contrabbando, a un’età in cui non avrei dovuto né potuto farlo e il desiderio di parlargli mi aveva spinto a stazionare per tre giorni in via Veneto, dove ero praticamente convinto che Federico trascorresse le giornate».
Alla fine lo incontrò?
«Diventammo amici fraterni. Roma l’ho scoperta con lui, a piedi o in macchina, finendo poi per conoscerla centimetro per centimetro».
Tra le sue donne e quelle dell’immaginario felliniano non ci sono similitudini.
«Lì Fellini riproduceva la sua parte onirica, gli incontri dell’infanzia, i culi enormi e le grandi tette abitavano nella memoria adolescenziale e nell’inconscio. Ma questo non significa che Federico amasse solo quell’immaginario. Non a caso la donna della sua vita, Giulietta Masina, era minuta e aliena a quei modelli».
Quanto incide la sua parte onirica nei disegni?
«Non so. Ero in classe con 16 ragazze, unico maschio. Ma manca la controprova, i miei coetanei di allora erano tutti assatanati. Le ragazze, abituate per abito mentale e peso del cattolicesimo bigotto a dire sempre no, e noi a provarci disperatamente».
Oggi?
«È cambiato tutto, le ragazze sono intraprendenti, l’uomo sta lì a pavoneggiarsi e le fanciulle scelgono o rifiutano con un’indipendenza che ieri era impossibile solo supporre».
Con quali conseguenze?
«Le identità sono più sfumate, il maschio è smarrito di fronte al cambiamento e reagisce in maniera inconsulta, da vero stronzo. Quel fenomeno atroce, il femminicidio, altro non è che l’incapacità di confrontarsi con il nuovo ruolo sociale delle donne».
Cosa è per lei l’erotismo?
«Un’atmosfera, un gioco di sguardi. Può esistere e vibrare con forza anche se due esseri umani non si sfiorano».
E la pornografia?
«Una delle cose più noiose che esistano, una ripetizione meccanica, niente che scuota il cuore o faccia volare la mente. In un’epoca di pensiero debole, il cervello, l’organo sessuale più importante, è ridotto al ruolo di spettatore. Ma non è strano».
Perché?
«Perché siamo diventati tutti spettatori, comparse tra uno spot pubblicitario e l’altro. Applaudiamo persino ai funerali, come un tempo accadeva solo con gli attori per tributare loro l’ultimo omaggio. Si applaude la diva, ma non si dovrebbe applaudire la bara. C’è un inutile casino, quando in certe occasioni sarebbe meglio se a regnare fosse il silenzio».
Lei dove lo trova?
«In mare. Avevo un’antica aspirazione, attraversare l’Atlantico. L’ho fatto a bordo di un cargo, in tarda età, per andare in Argentina, seguendo le tracce di Hugo Pratt. A bordo del cargo il silenzio era una costante. Ore e ore meravigliose senza parlare con nessuno».
Di Hugo Pratt cosa possiamo dire?
«Che era un anarchico, non certo un fascista come qualche stolto ha detto. Un uomo libero che diceva sempre la propria, anche quando apparentemente non gli conveniva. Andai a trovarlo con Andrea Pazienza».
Un incontro felice?
«Andrea aveva qualche lampo di follia, provò a saltare a gambe unite un divano con un bicchiere in mano e lo distrusse. Al di là della disavventura, Pazienza sapeva farsi amare. Era dolce, non timido, spaventato solo dal tempo che passava. Per lo scorrere degli anni covava una vera e propria ossessione. Era convinto che a 40 anni sarebbe finito tutto e che la vena creativa si sarebbe inaridita».
Non fece in tempo ad arrivarci.
«Ma di certo non si tolse la vita volontariamente, faceva ancora cose straordinarie».
Le motivazione degli inizi?
«Eravamo goliardi un po’ stupidi che si chiedevano come sbarcare il lunario, mia madre, insegnante, faceva finta di non vedere cosa disegnavo. Stendeva un velo pietoso, ma in fondo, di quel ragazzone capace di mantenersi non si vergognava».
Cos’è la volgarità?
«Qualcosa di soggettivo. Per me è la pausa che interrompe un film. Proprio come Fellini, se un racconto viene devastato a tradimento, rifiuto di guardarlo, è tra i miei diritti, o no?».
Intervista di Malcom Pagani per ‘Il Messaggero‘