Architetto, un po’ filosofo, un po’ puttaniere.
Il 27 agosto di 43 anni fa moriva a Torino Carlo Mollino. Per ricordarne la figura riprendo quest’articolo di Marina Valensise, che dirige a Parigi l’Istituto italiano di cultura. Alla fine trovate Sèance, il film del giovane regista Yuri Ancarani che ha riacceso l’attenzione su Mollino, di recente ricordato anche nella sua Torino a cura di Camera-centro italiano per la fotografia, nei cui locali è stata allestita la mostra: Carlo Mollino, in viaggio.
I morti tornano e parlano, anzi in realtà alcuni restano sempre con noi. Sembra assurdo, ma non lo è. Basta cercarli, sapersi sintonizzare e mettersi in ascolto con le loro voci dall’aldilà. Per farlo, bisogna però ampliare il campo cognitivo, dilatare le nostre capacità percettive, psichiche e sensoriali. Non è poco, certo, ma che sia possibile è dimostrato. L’esperimento è avvenuto a Torino, la città più esoterica d’Italia, dove ogni casa può nascondere fenomeni bizzarri – sedie che danzano, bicchieri che si muovono oltre le pareti – e la sera in trattoria può succedere che un commensale faccia apparire strani simboli sui tovaglioli… Ma l’esperimento è stato riproposto anche a Parigi, la città più cartesiana del mondo, nei saloni neoclassici dell’Hôtel de Galliffet, lasciando tutti di stucco.
Ha preso forma come una cena fra amici, in un vecchio villino di centro città affacciato sul Po, per trasformarsi subito in una cena col morto. Un morto illustre, geniale, poliedrico, pieno di acume e di fantasia. Un vero artista, che ha passato tutta la vita votandosi solitario al culto della bellezza per servire il suo demone severo, esigente, inappagabile, il genio della creazione.
Tutto e avvenuto per la telepatia di una medium settantenne, psicologa in pensione e da trent’anni seguace di Baba Bedi, guru indiano padre del ben noto Kabir, che vestì i panni di Sandokan in una famosa serie tv degli anni 80. La signora, esperta cultrice dell’estensione del campo cognitivo, ha la pinguedine dei giusti e porta un nome che sembra finto, Albania Tomassini. Parla un italiano elegante, con lieve inflessione torinese. Parla al maschile, come se fosse un uomo, e ha due grandi occhi neri un po’ basedowiani che, quando non tiene socchiusi per recepire le voci d’oltretomba, guardano fissi nel vuoto. Ottenuto l’accordo del morto, Albania ha accettato di farsi riprendere durante il dialogo con l’aldilà. Era lei a formulare le domande, sul senso della vita passata, su quello della vita futura, e sempre lei a fornire le risposte a occhi chiusi, in vece del morto. Davanti a lei, quattro telecamere filmavano la scena, sotto il controllo di Yuri Ancarani, videoartista prodigioso, famoso per l’atmosfera ipnotica che riesce a creare nei suoi film. Circondato da un paio di amici fidati, il fonico, un assistente, un altro medium della stessa scuola di Baba Bedi intento a favorire il campo energetico, mentre l’amica di Albania, invitata al banchetto, pregava per terra cercando di bloccarlo, Ancarani ha girato questo video, in cui continua l’esplorazione di realtà inverosimili eppure tangibili, concrete, ordinarie, come i luoghi del lavoro invisibile, la cava di marmo a Carrara (oggetto di un altro suo video premiatissimo del 2009), la camera iperbarica di una piattaforma per la ricerca sui giacimenti di gas al largo di Crotone (altro video strepitoso), o i meandri dello stadio di San Siro, l’ultimo video in gara a Parigi al Festival du Cinéma du réel. Con Mirco Mencacci, il sound designer non vedente, e perciò in grado di immaginare suoni impercettibili, prima di riuscire a captarli, Ancarani ha realizzato “Séance”, il video che gli era stato commissionato da Maurizio Cattelan per la mostra torinese “Shit and Die”, curata con Myriam Ben Salah e Marta Papini, poi diventato un documentario di Sky Arte che ha battuto ogni record nei passaggi del genere. Con questo video la settimana scorsa a Parigi, Ancarani ha aperto la 37esima edizione del Festival du Cinéma du réel, al Centre Georges Pompidou. La sera stessa l’ha presentato all’Istituto italiano di cultura, dove verrà proiettato sino a fine giugno in una sala ad hoc della mostra in corso su “La Casa di Mollino”, curata da Fulvio Ferrari.
Assistere alla proiezione è un’esperienza unica. Innanzitutto per il suono che ti avvolge come un’onda inquietante di rumori improbabili, il fruscio degli uccelli, lo sciabordio di un ruscello, per non parlare delle voci indistinguibili che si sovrappongono come se fossero un segno. Ancarani ha spiegato che questi suoni sono prodotti dal riverbero degli oggetti, captato da un arsenale di apparecchi acustici, sensori, microfoni ultrasensibili, onde acustiche, che rende il suo fonico non vedente un mostro sacro nel suo campo. “Le voci dei morti – ha detto Yuri Ancarani – sono state ricostruite sovrapponendo centocinquanta registrazioni di dialoghi tra persone ormai defunte e rimixandole col rumore delle fronde degli alberi, i guaiti dei cervi in calore…”. E poi ci sono le immagini montate divinamente, riprese da una camera fissa, immobile sul tavolo da pranzo, che d’improvviso si alza e si i mette in movimento, mimando quasi una specie di danza fra le pareti invisibili di quelle stanze, come una presenza incorporea, mentre le porte si spalancano al suo passaggio, il vento entra dal terrazzo sul fiume, il bosco restituisce la strana sagoma di un volto demoniaco, e tutto il set sembra animarsi di vita nuova…
E’ infatti. Il morto che nel video di Ancarani parla attraverso la voce di Albania Tomassini è Carlo Mollino (1905-1973), geniale artista eclettico, famoso per le sue opere d’architettura, di progettazione, di design, e in senso lato d’estetica del Novecento. E’ giusto saperlo, ma non è essenziale, tanto il video ha valore universale, con quel suo tema potente di per sé, che a prescindere da Mollino offre una riflessione generale sulla vita d’artista e sul senso dell’arte nel mondo moderno. Eppure è importante domandarsi come mai la vita di Mollino abbia offerto lo spunto a questo video. Come mai quell’architetto spregiudicato, anticonformista e solitario, quel genio eccentrico con gli occhi spiritati, che s’aggirava di notte come un licantropo nella Torino tra le due guerre, famoso per l’avarizia leggendaria, per lo stile di vita da dandy irregolare e un po’ fuori di testa, continua a ossessionare l’immaginario di tanti artisti contemporanei? La sua vicina di casa Carol Rama, un’altra grande eccentrica ultranovantenne oggi in auge a Parigi con una retrospettiva al Musée d’art moderne de la ville de Paris, ha raccontato a Mario Ternavasio (autore per Lindau di una biografia di Mollino) che una sera l’invitò a cena col sindaco appena eletto e un grande chirurgo, e se lo vide comparire vestito come un venditore di tomini valdostano, sporco, bruttissimo, nero come la pece. “Mi sono lavato il culo”, disse Mollino gettando i commensali nel panico. Dopo un po’ scomparve col chirurgo Biancalana e una bottiglia di whisky. Carol Rama vede una strana stria di schiuma sotto la porta del bagno. Apre la porta, e scopre Biancalana che lava Mollino con la spazzola di ferro per lucidare le scarpe. Era la sua conditio sine qua non per visitarlo gratis. A Londra, nella galleria di Michael Hoppen, la fondatrice della boutique erotica Coco de Mer, Samantha Roddick, espone una mostra ispirata alle famose Polaroid di Mollino, gli scatti realizzati nottetempo su giovani donne in posa nude, o seminude, vestite o travestite di tutto punto. A New York, la galleria Gagosian ha esposto una quindicina di Polaroid originali, ritenuti un tempo così “scandalose” da pregiudicare la reputazione dell’architetto, e considerate oggi antesignane del feticismo e dell’ossessione pornografica imperanti.
Il fatto è che Mollino oltre a essere uno spregiudicato, un anticonformista, fu un vero genio solitario in largo anticipo sui tempi. Architetto, costruì solo una decina di edifici. Progettò la Società ippica torinese in corso Dante, edificio surreale sospeso nel tempo e nello spazio, con cui nel 1937 risolvette con soluzioni prodigiose l’impasse del razionalismo funzionalista, come spiega Paolo Portoghesi nel catalogo della mostra all’Istituto di cultura. L’edificio, un monumento dell’architettura del XX secolo, venne dissennatamente demolito nel 1960 per le celebrazioni dell’Unità d’Italia. Mollino costruì “l’opera più tridimensionale dell’architettura moderna” secondo lo storico Kidder Smith, e cioè la Slittovia del Lago Nero restaurata di recente da Giovanni Brino e Giorgio Raineri per il comune di Salice d’Ulzio, dove la forma di un galeone fantasma poggia sulla struttura di un aereo da turismo. Costruì la Camera di Commercio di Torino, un prisma in vetro e acciaio che sembra sospeso nel vuoto, costruì il nuovo Teatro Regio, che riproduce nelle sue linee un busto di una donna e che non per niente Mollino illustrò presentandosi di fronte ai giornalisti con in mano un uovo. Ossessionato da forme misteriose, e dal bisogno di placare quest’ossessione in un progetto, non era un visionario, come ha ricordato anche Piero Sartogo, ma un architetto con solidissime competenze di ingegnere, un tecnico della progettazione, che ottenne per chiara fama la cattedra al Politecnico e interpretava gli elementi architettonici per trasformarli in un suo gioco originale.
Eppure non fu solo un architetto. Figlio unico e viziato, e perciò inquieto e tormentato, di un padre adorato e autocratico, Eugenio, abile ingegnere civile e fortunato speculatore dal baffo dispotico e il sorriso ammaliante, Mollino fu l’arredatore degli interni di varie case della borghesia torinese, la Casa Miller, che prendeva il nome da Lee Miller, l’allieva di Man Ray ritratta da Picasso, la casa di Ada e Cesare Minola, quella di Franca e Guglielmo Minola in via Perrone 4, la casa di Giorgio Devalle in via Alpi 5, la casa di Vladi Orengo, in corso Cairoli all’angolo con via Cavour, dove viveva il marchese editore, fondatore dell’Orma, che poi fallì, padre dell’a noi più noto Nico giornalista e scrittore, e poi la casa Rivetti, la Casa del Sole a Cervinia, e infine gli uffici della casa editrice Lattes.
Questi meravigliosi arredi, realizzati più di settant’anni fa, a guardare le foto di ciò che ne resta dopo la loro distruzione o dispersione, sembrano usciti dallo studio di un designer contemporaneo, col loro impianto decorativo e barocco, le linee curve e irregolari che si inseguono ossessive e armoniose, nel movimento delle pareti, delle mensole, nei particolari assurdi e però funzionali, come il binario sul soffitto di Casa Miller sul quale viaggia il lampadario che deve servire per il set fotografico, o come la piega flessuosa dei tendaggi di velluto che coprono le porte e separano gli ambienti, o come gli specchi surreali che negano lo spazio e lo dilatano, con l’abbondanza di dettagli inverosimili, come le pareti di raso imbottito, le citazioni di Salvador Dalí nella spalliera del letto a forma di labbra in velluto capitonné, le porte stondate come gli oblò di una nave.
Mollino creò mobili prodigiosi, capolavori della tecnica costruttiva, come il tavolo Cavour, il cui profilo evoca la struttura assurda della Slittovia di Lago Nero, dove il castagno si piega come se fosse ferro per andare incontro al suo punto di equilibrio che da un lato funge da sostegno del ripiano e dall’altro da raccordo con la cassettiera sottostante. Tavoli, sedie, letti, chaise-longue, poltrone, armadietti… sculture in movimento, i mobili di Mollino ormai sono diventati oggetti di culto, banditi in aste esclusive, che fomentano l’appetito miliardario dei grandi collezionisti, al prezzo di milioni di dollari. Spesso si tratta di esemplari unici, o di prodotti in serie limitate, che portano i segni del tempo, come la seggiolina in compensato ricurvo del Dancing Lutrario di via Stradella, ora in mostra all’Hôtel de Galliffet, tappezzata di un raso celestino, perché ogni sedia doveva avere un colore diverso, come i petali di un fiore intorno alla corolla. Sono mobili che riproducono strane suggestioni biomorfe, come le sedie locusta, le poltrone gazzella, le lampade farfalla, ma anche la gabbia toracica di un airone, i femori di un daino in procinto di spiccare un salto, la ramificazione delle corna di un cervo, o la colonna vertebrale di una balena… Che siano in vetro, in marmo, in legno di castagno, di ciliegio, in compensato ricurvo, evocano sempre bizzarre sagome organiche, barocche e paradossali. Artista a vasto raggio, Mollino, in realtà, fu un genio della meccanica e dell’aerodinamica, inventore di motori e pilota acrobatico di aereo. “L’architetto, oltreché un poeta e matematico, dev’essere anche meccanico, ragioniere, avvocato, becero, maestro di belle maniere, ingoiatore di rospi e ‘charmeur’, danzatore con vecchia signora, incantatore di serpenti; pena la morte se rifiuta”, aveva scritto nella “Vita di Oberon”, il suo romanzo autobiografico, pubblicato a ventotto anni sulla rivista di architettura Casabella nel 1933. Per tutta la vita avrebbe giostrato i vari ruoli. Pilota automobilistico, a metà degli anni 50 creò una macchina da corsa, il Bisiluro Damolnar, che nel 1955 fece i 170 km orari con un motore da 600 di cilindrata alla Ventiquattr’ore di Le Mans. Ancora oggi le foto di quell’auto restituiscono il miracolo di una carrozzeria a forma di doppio siluro, che ospita da un lato il motore e dall’altro l’abitacolo. “Pare sia stata la creazione che gli aveva dato più gioia”, racconta Ancarani, riportando quanto ha sentito dire dalla medium torinese durante le riprese del suo video. Patito di velocità, studioso delle leggi dell’aerodinamica e, ossessionato dalle forme e dalla quintessenza della bellezza naturale che era ai suoi occhi il corpo femminile, Mollino che era anche un alpinista, sciatore, amante del fuori pista e delle ferrate in alta quota, fu l’inventore di un inedito concetto del discesismo teorizzato in un trattato ad hoc, “Introduzione al Discesismo”, che ancora oggi viene studiato nelle scuole di sci e dai progettisti delle industrie del settore. Genio inquieto, inesauribile, versatile, in grado di realizzare schizzi con le due mani e addirittura di disegnare contemporaneamente su fogli diversi due diversi progetti, lui che era un patito di spiritismo e di archeologia, fu anche un esperto di fotografia. Si divertiva a fotografare le acrobazie dell’amico Leo Gasperl, l’olimpionico di sci, maestro degli Agnelli e dei principi di mezza Europa, e nel 1943 scrisse un trattato non poco esoterico, “Il messaggio dalla camera oscura” pubblicato nel 1949 da Chiantore e considerato un’opera di riferimento. In quelle pagine secondo Fulvio Ferrari, Mollino nascose il rebus della sua stessa missione, la cui soluzione si trova nella Casa di via Napione, la casa segreta, che l’architetto progettò, arredandola di sana pianta dal 1960 al 1968, senza mai abitarla, e oggi teatro della conversazione ripresa nel video di Ancarani.
La casa di Mollino è un appartamento angusto al piano nobile di un villino costruito a fine Ottocento nel centro di Torino, ma immerso nella natura, con l’affaccio sul fiume, e la vista sulla collina. In questa casa, come nella villa di Revigliasco, Mollino portava le sue molte amiche, amanti, modelle, entraîneuses, spogliarelliste, semplici lolite. “Era un puttaniere, gli piaceva godersi la vita” ricordava Guido Barba Navaretti, che, più giovane di lui, condivise con Mollino una garçonnière, e quando si sposò lo lasciò erede dell’enorme carapace che oggi domina sulla stanza da pranzo in via Napione. Mollino amava la varietà. “Non ho mai pensato che un legame fisso, stabile, duraturo avrebbe potuto rappresentare per me la felicità”, dice attraverso la medium nel video di Ancarani. Non si sposò mai, visse da signorino nella villa di Rivoli con mamma e papà. E però ebbe almeno due grandi amori, la scultrice Carmelina Piccolis, che fuggì via da lui a gambe levate andando incontro a una vita di stenti da emigrata in Sudamerica, e Mimi Schiagno che quando lo conobbe nel 1952 aveva solo diciott’anni, trenta meno di lui, ma rifiutò di sposarlo. Così, con le ragazze, il rituale di Mollino era sempre lo stesso. Le prelevava dopo mezzanotte, per le strade della città, a bordo della sua Porsche. Le ammaliava col suo sguardo magnetico, i modi gentili, la devozione virile: “Sono sempre stato al servizio delle mie amanti… delle donne e delle signore che ho amato ed era un piacere per me essere l’uomo che riusciva a indovinare i loro piccoli desideri, le loro curiose idiosincrasie”, confessa nel video di Yuri Ancarani parlando con la voce di Albania. Quando tirava fuori il telecomando per aprire il cancello della villa Zaira a Revigliasco, le fanciulle andavano in estasi. Alta tecnologia. Appena entrati in casa, le spogliava e le rivestiva e travestiva di tutto punto con gli abiti acquistati nei negozi di Torino, complice Ada Minola, o nei viaggi all’estero: guêpières in pizzo di San Gallo, babydoll ricamati, lunghe palandrane di seta, gonne a campana con ruches piumate, tuniche di paillettes, molto raso e taffetas, pellicce, stivali, tacchi a spillo… c’era di tutto nel guardaroba dell’architetto, persino gli abiti da sposa col velo bianco di tulle. A quel punto, la sessione fotografica poteva iniziare. Preparato il set, Mollino scattava le Polaroid, riprendendo le sue muse di schiena, di spalle, di lato, davanti, di dietro, sui tacchi, a piedi nudi, con le calze a rete, con minigonna e calzamaglia traforata alla Mary Quant… Di quella curiosa ossessione restano oggi migliaia di scatti, e svariate edizioni (Allemandi, Damiani, ora anche Gagosian, dopo la recente mostra di New York sempre a cura dei Ferrari), che offrono un repertorio di forme perfette e testimoniano un lavoro spasmodico intorno alla bellezza muliebre. “Non c’è niente di specialmente erotico nelle mie fotografie, c’è qualcos’altro”, spiega adesso Mollino parlando dall’oltretomba con la voce di Albania davanti all’occhio di Yuri Ancarani. “C’è una ricerca di quegli elementi che conducono all’assoluta perfetta fruizione. E’ come se ogni elemento dell’immagine che sto costruendo, diventasse un simbolo. E più il simbolo è perfetto, più è attinente al modello interiore, più la comunicazione è immediata”. Le Polaroid restituiscono migliaia di immagini di giovani corpi di donne, donne ordinarie, insignificanti, banali, spesso anche bruttine, con gambe storte, che per un attimo si trasfigurano per incarnare l’essenza del bello, le forme della perfezione naturale, coi glutei scolpiti, le gambe affusolate e senza fine, i seni minuti, riverse su una pelle di tigre, aggrappate ai tendaggi di velluto, sedute sulle famose seggioline a tre gambe, raggomitolate contro le spalliere sinuose, col sesso in primo piano, oppure incastonato nella fessura dello schienale, le spalle in posa felina, il volto candido di una scolaretta, o tormentato di una virago in preda alla lussuria.
“Dopo la sessione fotografica, se c’era la sessione sessuale, si cambiavano i costumi e si passava in camera da letto, fra un profluvio di Chanel n. 5 e con lo sfondo musicale di ‘Abat jour’, la famosa canzone dell’epoca”, ricorda con dovizia di particolari Fulvio Ferrari, l’uomo che, acquistata nel 1985 la casa di Mollino in via Napione (anzi gli arredi, visto che l’appartamento è proprietà della Società piemontese di archeologia e belle arti), è riuscito a trasformarla in un museo, ricostruendo filologicamente il mondo di Mollino, dando la caccia a oggetti, carte d’archivio, documenti, testimoni ancora in vita. “Esiste ancora una di queste ex fanciulle, che per duecento euro è disposta a raccontare per filo e per segno tutto ciò che accadeva in quelle famose sedute notturne”, avverte il custode del tempio Fulvio Ferrari. A lui che nasce come chimico industriale e ha alle spalle un passato di ristoratore a Chiavari, di gallerista e antiquario, si deve l’incontro con la telepatica Albania Tomassini. A lui l’idea di presentarla a Yuri Ancarani per una conversazione con l’aldilà da filmare in diretta . “Avrei ancora tante di quelle domande…”, sussurra con nostalgia Fulvio Ferrari, oggi presidente del Museo di Casa Mollino. Ogni giorno, affiancato dal figlio Napoleone nell’impresa di resurrezione del genio, riceve lasciti da vecchi amici di Mollino, testimonianze inedite, carte, disegni, persino i draghi da passeggio (in carta plissettata blu e oro, realizzati e colorati da Mollino per donarli ad alcuni amici, come la moglie del pittore Piero Martina, con tanto di istruzioni per l’uso). Quanto al senso dell’intera impresa, alla missione di Ferrari e prima ancora di Mollino, Albania conferma: ha ragione Fulvio. Il giorno in cui scoprì sul frontespizio del trattato sulla “Camera oscura” l’immagine enigmatica di una sfinge egizia, corrispondente alla regina Taja, moglie del faraone Amenofi III, che era un patito di architettura, Ferrari ebbe una rivelazione. Capì che il messaggio dalla camera oscura non si riferiva solo alla stampa fotografica, ma alla cripta della tomba egizia, dentro la piramide, ultimo tabernacolo costruito per ospitare in eterno l’anima del defunto faraone, con gli oggetti e gli arredi più preziosi della vita terrena, onde permetterne il passaggio alla vita nuova, immateriale e eterna, se se la fosse meritata. Suffragata dall’egittologo Silvio Curto e da vari indizi e parallelismi inquietanti (i tre servizi di bicchieri di cristallo acquistati per la piramide in via Napione, la porta del terrazzo aperta sul fiume e sulle fronde della collina, il letto a barca e il ricamo dei cuscini), l’ipotesi del passaggio dalla vita materiale alla vita eterna, da compiersi nella casa del riposo del guerriero, e cioè quel tempio segreto come la piramide, dal quale il faraone può uscire non visto per contemplare ancora una volta la bellezza del Nilo, trova adesso compiuta dimostrazione grazie a Yuri Ancarani. Nel suo video, infatti, è lo stesso Mollino a fornire la spiegazione parlando con la voce di Albania Tomassini. Un bel modo per rendergli omaggio e ricordarci quanto l’arte possa redimere la nostra vita effimera. “Io credo di essere stato un creatore di forme perfette, mi sentivo ebbro di gioia nel trasformare un progetto in realtà… tutto ciò che ho costruito, l’ho costruito per me, ma adesso so che l’ho lasciato per gli altri. Prima non lo pensavo. Non avevo intenti generosi nella mia arte (…). Non so perché sono stato architetto e anche costruttore di meravigliosi oggetti (…) la casa è nata in un momento in cui avevo la necessità di definire un radicamento in una condizione interiore, che è la condizione dell’artista che sono stato, ma anche qualcosa d’altro. Forse solo in certe antiche civiltà, come quella egizia che tanto amai, coloro che costruivano erano capaci di identificarsi totalmente col principio divino che operava, attraverso il faraone, attraverso la sua tomba, attraverso ciò che della divinità si manifestava. Per un architetto dell’antico Egitto dev’essere stata sicuramente una possibilità concreta poter sentire che la sua opera esprimeva realmente le norme, le leggi, gli impulsi che provenivano dalla divinità. Noi moderni invece siamo diversi, siamo disperatamente soli, alla ricerca di una perfezione, io non sempre sono riuscito a raggiungere quel livello, a volte sì. Adesso è diverso, perché ogni cosa è bellezza. Non c’è ostacolo. La progettazione è la realizzazione. Nella materia solida le leggi sono altre, lo sforzo è diverso. Ma qui dove sono adesso, sento di sperimentare l’assoluta identità tra l’idea e la realizzazione, e io sono ancora molto lontano dalla perfezione che posso intuire in altri luoghi e in altre dimensioni”.
Articolo per il Foglio di Marina Valensise 28 marzo 2015