PARADOSSALE, IPERBOLICO, ESAGERATO GIAMPIERO– IL SIMPATICO AUTORE DI MILLE LIBRI, LETTORE ONNIVORO, IRRIVERENTE ICONOCLASTA, DICE LA SUA SU POLITICA E CULTURA, CON SINCERITA’ E CIVETTERIA.
Mughini, cosa ci faceva a Parigi nel Maggio ’68?
«Avevo vinto una borsa di studio per specializzarmi in francese, lingua da me venerata. Facevo il lettore di italiano al liceo Hoche di Versailles: per me che venivo dalla provincia, era come passare dal Viterbo al Real Madrid».
Era nell’ aria la grande rivolta?
«Non sarebbe venuto in mente a nessuno che stava per scatenarsi un tale pandemonio. “La Francia si annoia” titolò un giornale. Altrove il casino era già cominciato; anche se le cose italiane facevano ridere al confronto».
Perché?
«Ricordo una foto della mitica battaglia di Valle Giulia: un poliziotto panciuto non riusciva ad afferrare un giovane Giuliano Ferrara, che pesava già almeno 120 chili. Noi a Parigi avevamo di fronte i reduci della guerra d’ Algeria».
Truppe addestrate alla guerra coloniale.
«Addestrate talmente bene che non hanno ammazzato nessuno».
Lei partecipò alla prima notte di battaglia.
«E ho tirato i pavé contro i poliziotti; ma non dall’ alto delle case, come altri».
Nel libro racconta di essersi nascosto al sesto piano, mentre dal quinto salivano i colpi dei flic e le urla degli studenti.
«I poliziotti avevano avuto 271 feriti gravi in una sola notte. Avevano visto i compagni con il cranio sfondato: cento di loro non tornarono mai in servizio, uno morì. È un miracolo che si siano limitati alle manganellate».
Fu una guerra?
«No; uno psicodramma. Fosse stata una vera guerra, loro avrebbero spazzato via tutte le barricate del Quartiere Latino in dieci minuti. Ma noi non eravamo insorti algerini; eravamo la più fortunata generazione del dopoguerra, quella che stava godendo della ripresa economica. Per una volta non eravamo al cinema o a teatro; il film, la rappresentazione teatrale eravamo noi. Uomini e donne pari erano».
Lei racconta la vera storia della Marianne fotografata con la bandiera nordvietnamita.
«Era una modella di famiglia aristocratica. Stanca di marciare, salì sulle spalle di un compagno. Quando vide un reporter, fece il suo mestiere: si mise in posa. Il nonno la riconobbe e la diseredò».
Anche sua nonna materna era un’ aristocratica.
«Sì, ma decaduta. Conosco la situazione degli ultimi, perché da lì vengo. I miei genitori erano separati. L’unico lusso del nonno era un fiasco di vino la domenica. A casa non c’era nulla, né libri né quadri; avevamo una radio, si guastò, non avevamo i soldi per farla aggiustare. Andavo dagli amici a vedere in tv i Mondiali del 1958 e Mike Bongiorno. Non avevamo di che comprare un frigorifero, uno zio ci portava il ghiaccio. Avevo un unico paio di scarpe, per giocare a pallone e per passeggiare. Non sapevo cosa fossero le vacanze».
«Ricordo il luglio 1960: uccisero un operaio edile vicino a casa, Salvatore Novembre. Tenni un comizio per il 25 aprile, in cui devo aver detto delle fesserie da vergognarmi. Ebbi un applauso come mai in vita mia».
Suo padre era fascista.
«Sì, a Catania era il numero 2 dopo il podestà. Ma non aveva nulla della retorica del regime, non diceva una parola più del necessario. Teneva una bellissima foto di Mussolini giovane dietro la scrivania. Combatté in Albania, poi raggiunse la famiglia a Firenze. Quando i partigiani entrarono in città si nascose. Tornammo a Catania, il viaggio in autobus durò un mese».
«Non mi appassiona».
I 5 Stelle?
«Li considero il nulla, sotto forma di declamazione populistica. In Sicilia il reddito di cittadinanza c’è già: i forestali, le pensioni di invalidità, l’ Assemblea regionale».
«Non mi sento siciliano; mi sento italiano. Lo accetto perché erano siciliani Verga, Pirandello, Sciascia. Inutile fingere che esista l’Italia unica del sogno risorgimentale. C’è l’Italia del talento, della creatività, dei conti a posto; e poi c’ è il Comune di Roma».
Salvini?
«Non ci meritavamo un risultato elettorale che premiasse un personaggio di questa fatta. È triste stilisticamente e antropologicamente che sia lui a rappresentare la Lombardia, il cuore produttivo del Paese».
Berlusconi?
«Mi sta immensamente simpatico. È uno che ha creato un impero. Sono anni che lavoro a Mediaset e con la Rai non c’è confronto: vedi ragazzi assunti non dai partiti, ma perché hanno voglia di lavorare».
È andata così male il 4 marzo?
«Abbiamo vissuto due catastrofi nello stesso tempo: la sconfitta di Berlusconi e quella di Renzi. Io speravo al contrario che avrebbero governato insieme: centrosinistra, l’unica formula che in Italia abbia mai funzionato».
Renzi è finito?
«Niente affatto. La storia della politica è piena di resurrezioni: de Gaulle, Churchill, Fanfani».
Sono accostamenti molto generosi.
«Perché, il Pd chi ha? Martina? Franceschini? Renzi non è finito, anche se è difficile immaginare una sequela di passi falsi come quella in cui è incappato».
Lei perché ha diretto il giornale di Lotta continua?
«Per un motivo liberale. Lo avevano fatto Pannella, Pasolini, Piergiorgio Bellocchio. Venne Sofri a casa mia, mi chiese di fare il direttore responsabile. Pensavo che quel giornale dovesse uscire. Di più, pensavo che quelli di Lotta continua fossero i migliori della nostra generazione. Mi sono costati 28 processi e tre condanne» .
Lo pensa ancora?
«Sofri per caratura personale e intellettuale lo è senza alcun dubbio. Vuol mettere con quel che scrivono Gad Lerner o Mario Capanna?».
Sofri è condannato come mandante dell’ omicidio Calabresi.
«Non ne sono convinto. La mia personale idea è che il delitto sia stato organizzato dai servizi d’ ordine di Milano e Massa; Sofri allora stava a Napoli. Sapeva quel che stavano combinando, ma non credo sia il mandante. La prova non c’è. E comunque quando ha ricevuto l’ ordine di carcerazione si è presentato la mattina presto e si è fatto sei anni. Non ha mai voluto dire che lo sparatore fosse Bompressi, anzi ha detto che quelli che uccisero Calabresi sono i migliori della nostra generazione».
Frase che lei non condivide, vero?
«Certo che no. È una frase però che lui ha pagato. Come non mi è piaciuto il libro patetico di Sofri su Pinelli: ci ha messo trent’ anni a realizzare che Calabresi non era in stanza quando l’ anarchico cadde».
Come sono andate le cose secondo lei?
«Come stabilì D’ Ambrosio, che in quattro anni di indagini non trovò nulla contro Calabresi; a cui 800 intellettuali avevano dato del torturatore. Una vergogna nazionale».
Non stima gli intellettuali italiani?
«Quando parlano di politica sono dei pagliacci, tranne rarissimi casi; tra cui purtroppo non c’è Pasolini. “Io so tutti i nomi ma non ho le prove”: sciocchezze micidiali. Ricordo un documentario in cui si confrontavano Guareschi e Pasolini: Guareschi lo dominava, se lo mangiava a colazione. Ucciso per il libro Petrolio? Pazzesco».
Com’ è morto Pasolini, secondo lei?
«I ragazzi di vita che lui aveva celebrato gli tesero un agguato. In tre o quattro l’ hanno ridotto in quel modo; e Pelosi non ha mai fatto i nomi».
Però lei stimava Craxi.
«Moltissimo. Nel 1974 lo invitai a presentare il mio primo libro con Cicchitto e due comunisti, Reichlin e Chiaromonte. Loro arrivarono in anticipo, con un pacco così di appunti. Craxi ci raggiunse con tre quarti d’ora di ritardo. Il libro non l’aveva neanche aperto. Disse solo: “Di cosa stiamo parlando, finché è in piedi il Muro di Berlino? Finché i comunisti opprimono mezza Europa?”. Me ne innamorai perdutamente».
«Mani Pulite fu un regolamento di conti mafioso. Uccise il Psi, la Dc e gli altri partiti che avevano costruito la democrazia italiana; così vennero fuori l’Msi, la Lega e un partito costruito dagli impiegati di Publitalia. Il crollo culturale è evidente».
Lei fu anche tra i fondatori del Manifesto.
«Sì. Volevano uno diverso da loro, che non fosse un fuoriuscito dal Pci. Dopo tre mesi me ne andai».
Non li stimava?
«Tutt’altro. Erano un gruppo di fuoriclasse, Pintor su tutti; ma facevano un giornaletto a sinistra del partito comunista. Non si poteva sentire Luciana Castellina dire stupidaggini tipo che la scelta di Ingrao di restare nel Pci era segno di decadimento morale. Raccolsi una serie di pareri critici sul Manifesto e li pubblicai. Lucio Magri mi disse che avevo sbagliato. Presi la mia borsa e uscii. Solo la sua morte ha cancellato la mia ira; adesso lo considero un fratello».
Perché?
«Perché anch’io l’ anno scorso ho vissuto la depressione. Quattro mesi in cui la vita non mi parlava più. In cui non riuscivo a leggere un libro: come restare senz’ aria. Lucio Magri è andato in Svizzera una prima volta, ed è tornato indietro. È andato una seconda volta, e di nuovo è ritornato. La terza volta è stata l’ultima».
Le manca non aver avuto figli?
«Non sarei stato all’altezza di fare il padre. E non ho mai pensato di sposarmi. La storia con Michela è una scelta che si rinnova ogni giorno. Sono sensibile a tutto ciò che negli uomini è tenebra, solitudine, dolore. Montanelli mi raccontò di aver vissuto sette depressioni. Momenti in cui il cielo gli appariva nero».
Intervista di Aldo Cazzullo per “il Corriere della Sera”
L’opera riprodotta in copertina è un murale di Luigi Armanni