1981-1983, GLI ANNI CHE CAMBIARONO IL VOLTO DI NEW YORK – I FUNERALI DI LENNON, L’OMBRA LUNGA DELL’AIDS, IL PASSAGGIO DAGLI HIPPIE AGLI YUPPIE E LA NASCITA DEI NUOVI TEMPLI DELLA MUSICA, COME LO STUDIO 54 E DANCETERIA – IN LETTERATURA ESPLODEVA IL MINIMALISMO, LA CULTURA USCIVA DAI MUSEI ED ERA DI NORMA L’ECCESSO: AI PARTY ERA ABITUALE TROVARE SUL TAVOLO, OLTRE AGLI ALCOLICI, STRISCE DI POLVERINA BIANCA…
Enrico Franceschini per il “Venerdì – la Repubblica”
Ogni città ha il suo momento: la Parigi della Belle Époque o quella di Hemingway e Picasso, la Roma della felliniana “dolce vita”, la Londra della Cool Britannia blairiana. Il New York Times ha scelto recentemente di ricordare il triennio 1981-1983 come un periodo che ha cambiato radicalmente l’ identità di New York, dell’ America e per estensione dell’ Occidente.
«I decenni sono come le persone, alcuni fanno più baccano di altri» scrive il quotidiano «e gli anni Ottanta furono così, in particolare all’ inizio, specialmente a New York, dove la vita scorreva più rapida, vibrante, rumorosa, dove sembrava che accadesse tutto». Come testimone diretto, posso concordare.
Sbarcato nella Big Apple a 24 anni, nell’ estate del 1980, con il sogno di fare il giornalista freelance, ci rimasi per un decennio: e ricordo i tre anni iniziali come un formidabile apprendistato, in cui vissi a Manhattan con pochi soldi ma grandi emozioni, prima di diventare nel 1984 corrispondente dagli Usa di Repubblica.
Avevo l’ impressione di assistere alla creazione di qualcosa di nuovo, eccitante e per certi versi inquietante: un’ epoca in cui la metropoli americana pareva un laboratorio di creatività, dinamismo e tendenze, non tutte positive, qualcuna tragica. Comunque un’ epoca di svolta, uno spartiacque, una fine e un principio. Con qualche analogia con il presente.
Pure allora era diventato presidente un outsider, ultraconservatore e determinato a rendere “grande” l’ America: Ronald Reagan. Per quanto, con il senno di poi, infinitamente più cauto e pragmatico di Donald Trump. E se la cronaca attuale ci pare drammatica, i primi anni Ottanta non erano da meno.
Reagan definiva l’ Unione Sovietica «l’ impero del male» e minacciava di sconfiggerla con «guerre stellari». L’ assassinio di John Lennon davanti a casa (il Dakota, gotico palazzone affacciato su Central Park, lo stesso in cui anni prima Roman Polanski aveva girato Rosemary’ s Baby, su una ragazza messa incinta dal diavolo) simboleggiava il passaggio dagli hippie agli yuppie, dall’ altruismo dei capelloni pacifisti all’ individualismo sfrenato dei giovani arrivisti.
C’ ero anch’ io al funerale che i fan di Lennon celebrarono nel parco: quando da un radio risuonarono le note di Imagine, salì al cielo un singhiozzo collettivo. E poi un giorno un articolo del New York Times parlò di un nuovo cancro misterioso che affliggeva 41 gay della città: si allungava l’ ombra della strage dell’ Aids.
Ma non c’ era bisogno di leggere i giornali per cogliere il mutamento nell’ aria: bastava fare due passi. Di colpo, come funghi spuntati dopo la pioggia, notavo uomini e donne che correvano in mezzo al traffico, sotto i grattacieli: dove andavano così di fretta in tuta o calzoncini corti?
Da nessuna parte. Correvano per correre, era l’ alba del jogging, il fenomeno di massa che ora chiamiamo running. Molti, correndo, avevano dei fili che spuntavano dalle orecchie e uno strano apparecchio legato alla cinta.
Questo peraltro appariva anche addosso a persone che camminavano o se ne stavano tranquillamente sedute: era arrivato il walkman. Che comodità avere la musica sempre con sé! Negli stessi anni esordiva una provocatoria cantante di nome Madonna.
L’ hip-hop spodestava la disco e il punk. Un nuovo canale televisivo chiamato Mtv cominciava a trasmettere video musicali non stop: il primo fu Video killed the radio star e da quel momento fu come se le canzoni dovessero essere accompagnate dalle immagini per avere più senso.
Intanto a New York avevano aperto i nuovi templi della musica: discoteche e rock club come lo Studio 54, Danceteria, il Cbgb e, dal 1983, l’ Area che cambiava tema e arredamento ogni mese.Del resto non cambiava soltanto la musica. In letteratura esplodeva il minimalismo, portato avanti da Jay McInerney con Le mille luci di New York (e da Bret Easton Ellis a Los Angeles con Meno di zero).
L’ arte usciva da musei e gallerie per entrare nelle strade con i graffiti di Keith Haring sui muri o nella subway, poi destinati a rientrare nelle art gallery, prima quelle alternative dell’ East Village, quindi nelle più affermate di Soho: nei cui loft, grandi appartamenti senza pareti ricavati da ex fabbriche ed ex magazzini, vivevano e lavorano artisti squattrinati.
La moda diventava fashion e le fotomodelle si evolvevano in top model, innalzate allo status di celebrità dalle agenzie di John Casablancas e Eileen Ford: sempre più belle, sempre più seducenti, sempre più giovani, rappresentate dalla 18enne Brooke Shields sulla copertina di Interview, mitica rivista di Andy Warhol.
La trasgressione diventava norma.
RuPaul faceva il suo primo drag queen show al Pyramid Club. A downtown comparivano gay bar e single bar. Ai party era abituale trovare sul tavolo, oltre a birra e alcolici, strisce di polverina bianca da sniffare arrotolando una banconota da un dollaro.
Diventava norma la cultura dell’ eccesso: per la prima volta vennero scambiate in 24 ore più di cento milioni di azioni alla borsa di New York, i cui broker fatti di cocaina assumevano le sembianze di onnipotenti “padroni dell’ universo”, come qualche anno dopo li battezzerà Tom Wolfe nel romanzo Il falò delle vanità e come li ritrarrà Oliver Stone in Wall Street.
Quasi negli stessi giorni, sulla Quinta Avenue, veniva inaugurato in pompa magna un nuovo grattacielo per super ricchi con uno spudorato atrio di marmo rosa: la Trump Tower. Il cui costruttore, come ben sappiamo, oggi siede alla Casa Bianca.
Furono anche, i primi anni Ottanta di New York, l’ inizio di un rinnovamento gastronomico che ora attribuiamo alla globalizzazione, termine a quel tempo non ancora inventato: un modo di mangiare più etnico, originale, raffinato.
A Manhattan non c’ erano più soltanto i vecchi ristoranti “italiani” (o meglio italoamericani) di Little Italy con piatti come “spaghetti and meatballs” mai esistiti sulla Penisola, bensì locali di fresca importazione e cucina regionale, come il genovese Tre Merli, il veneziano Cipriani, l’ imolese San Domenico.
Dovunque, con sbalordimento del bolognese che è in me, comparivano sul menù i Tortellini Alfredo: la pasta tipica della mia città d’ origine, annegata in un mare di panna.
Come li definisce il New York Times, furono davvero «36 mesi che hanno cambiato tutto»: una rivoluzione. Con un aspetto che la rendeva ancora più unica: potevi parteciparvi con quattro soldi.
Per un appartamentino sulla Cinquantesima strada angolo Undicesima Avenue con vista sul fiume Hudson (nel quartiere soprannominato Hell’ s Kitchen, Cucina dell’ Inferno, d’ accordo), pagavo appena 250 dollari al mese d’ affitto. Nel coffee-shop sotto casa, prima delle 8 del mattino, facevo colazione con 99 centesimi, mettendo nello stomaco due uova al prosciutto, patate, pane tostato e imburrato, succo d’ arancia e caffè a volontà.
Ma questa, per parafrasare Hemingway (e tornare ai momenti magici delle città), era la New York dei bei tempi andati, quando eravamo molto poveri e molto felici.
Articolo di Enrico Franceschini per il “Venerdì – lRepubblica”
Copertina: N.Y. vista in quegli anni dal fotografo Helmut Newton. Titolo e video ripresi dal sito Dagospia.com