Ho riflettuto a lungo circa l’origine dell’atteggiamento omologante oggi di moda, che non solo annulla le differenze, o aspira a farlo, ma impedisce il giudizio, inteso come valutazione etica dei comportamenti. Tale atteggiamento largamente dominante, anche in chi si limita passivamente a subirlo, lo vediamo all’opera in ogni contesto, pubblico o privato.
Le motivazioni sono diverse, ma il risultato è uno solo: la rinuncia preventiva e auto censurante alla formazione di una opinione su ciò che sia bene o male fare. Bene o male intesi sia nel loro valore pratico e utilitaristico, sia dal punto di vista etico. Parliamo, attenzione, di comportamenti agiti, non di categorie astratte o di modelli di riferimento, suggeriti o imposti. Tale atteggiamento (che tento di riassumere sociologicamente in inazione o apatia di ruolo e di valori) lo vediamo in famiglia, sul lavoro, nel mondo politico, lo leggiamo sui giornali. Anche la Chiesa ne è stata contagiata in questi decenni, rinunciando al suo magistero. Ora papa Francesco, con semplicità ma efficacia, non manca di pronunciare giudizi anche severi, a chiamare ladri i ladri e lo sterminio di un popolo olocausto.
In questo clima, il genitore non è più una guida responsabile, ma un amico compiacente, meglio se distratto; la famiglia sopravvive nel suo ruolo strumentale; la scuola, sovraccarica di compiti, fra le macerie di riforme abortite e in mano a sindacati ottusi, pratica un egalitarismo che prescinde da meriti e bisogni; politica e istituzioni, compreso anche il sacra sanctorum delle Corti, naufragano in un mare di sporcizie, non suscitando nemmeno più sdegno, ma solo rabbia impotente.
Il livellamento senza casi esemplari da inseguire, o lezioni da prendere e da cui imparare, senza rispetto di ruoli e senza richiamo a responsabilità, lavoro e sacrifici, ha portato alla pacifica accettazione di tutto, alla edulcorazione dei comportamenti, alla abolizione di censure e alla rinuncia del conflitto, trasformato in schiamazzo fra compari sul web, il luogo non luogo dove non vale la censura della parola, anzi meglio che sia sboccata e rapidamente trasformata in parolaccia. Quest’ultima è ammessa in rete, anzi richiesta, mentre nella vita reale non si può dire pane al pane e vino al vino, né chiamare le cose col loro nome, la realtà viene camuffata nella sua allegoria edulcorata, come pietre avvolte nel cellophane. Per non ferire le sensibilità dei “diversi”, si è abolita la categoria anche quando essa non vuole dire discriminazione o emarginazione, anzi al contrario sensibilità e apertura, accoglienza e cum passione. Nel dibattito si assistere alla prevaricazione dei pochi sui molti, le minoranze si ergono a modello, dotato de ipso di innata perfezione. Di alcuni, se non si parla è perché si è egoisti e classisti, quando se ne parla lo si può fare solo parlandone bene, a prescindere. Alcuni sembrano immuni alla critica e con l’assoluzione incorporata.
Perché tutto ciò è avvenuto? La mia idea è che l’uomo contemporaneo, senza radici e modelli, sia affetto da una fragilità congenita che lo ha ridotto all’afasia civile e alla cecità morale. Unire debolezze non fa forza, purtroppo. La realtà è che siamo tutti “diversi”, estranei a noi stessi, senza saperlo o riconoscerlo.