Come ci tiene a precisare con ironica puntigliosità, Alberto Mattioli, critico della Stampa, biografo di Pavarotti, penna funambolica e affilatissima, ha visto 1.791 opere in 118 teatri e non ha nessuna intenzione (virus e clausure permettendo) di fermarsi. Più che altro non può fermarsi: per la semplice ragione che, come recita il titolo del suo ultimo libro, è Pazzo per l’opera. Se pensate che l’opera lirica sia il dono più grande che gli italiani abbiano mai fatto al mondo, nonché la prova inoppugnabile della necessità che il genere umano, nonostante le nefandezze di cui si rende periodicamente responsabile, meriti di sopravvivere (prova da opporre tanto ad alieni devastatori che a divinità giustamente indignate), questo libro fa per voi.
Vi ci ritroverete, anche se non condividete sino in fondo l’estremismo mordace al quale l’autore indulge volentieri: fortunata indulgenza, in questi tempi di giudizi superficiali e corrivi, di immotivate asserzioni, di pugni sul tavolo scambiati per massime di Montaigne. Certo, se siete fra coloro che non riescono a comprendere come sia possibile che un signore panciuto in marsina, benché ferito a morte da un colpo di stiletto, continui a gorgheggiare per svariati minuti il suo amore perduto, o che una dama dalle forme generose agonizzi in preda al “mal sottile”, penserete forse che per amare Puccini o Wagner si debba proprio essere “pazzi”. Ma fate un tentativo.
Teatro Massimo all’aperto
Questo libro denso di passione, ma anche di un’ironia che a volte strappa proprio la risata, potrebbe persino farvi cambiare idea, addirittura convertirvi sulla via di Damasco. E poi, attenzione: anche chi ama sentirsi alla moda dovrebbe smetterla di sottovalutare l’opera. Se ne parla da qualche tempo diffusamente, e non solo fra gli addetti ai lavori. Il lockdown ha scatenato la creatività di registi e interpreti. Fra i diamanti della cultura di questo drammatico 2020 resteranno nella storia due opere meravigliosamente dirette da Daniele Gatti: il Rigoletto estivo al Circo Massimo di Damiano Michieletto e il sensazionale Barbiere di Siviglia di Mario Martone, ambientato in un teatro Costanzi di Roma deserto di pubblico e incartocciato da fili che nel gran finale vengono stracciati, in un’apoteosi di ribaldo, liberatorio ritorno alla vita.
Michieletto costruisce tre livelli diversi di spettacolo, l’azione scenica, le riprese live dei tre cameraman con steady cam proiettate sul maxi schermo, 19 brevi video girati a Cinecittà che svelano momenti della storia che non si svolgono direttamente in scena (l’incontro del Duca e di Gilda che da perfetta adolescente si cambia d’abito per andare in discoteca e si strucca prima di incontrare il padre o Gilda bambina con la madre al mare) e che svelano il pathos e l’intimità del vissuto di ogni personaggio.
Tratto dal sito teatrionline.com
Sull’opera gravano pregiudizi che Mattioli si incarica di confutare. Ci spiega, ad esempio, che non è l’opera ad essere antiquata. Il problema sono semmai certi melomani lodatori del tempo andato, quelli che “non c’ è più il teatro di una volta” – quale volta? persino il giovane Zeffirelli era considerato sovversivo – e del “povero Verdi” – che ai suoi tempi fu costantemente bersagliato da censori e moralisti. I conservatori – lui li chiama ” le care salme” – che rimpiangono una, a loro dire tramontata, eleganza, ma: «quando fai timidamente notare che, poniamo, nel Rigoletto Verdi ha messo in scena orge, stupri, prostitute, duchi puttanieri, sicari, ratti di fanciulle e simili, quindi l’eleganza non pare proprio il primo requisito richiesto, ti guardano basiti e anche un po’ arrabbiati». L’opera è intensità, complessità, divertimento, commozione.
Martone, tra lo scegliere di replicare il più possibile (e invano) l’esperienza dal vivo e il creare qualcosa di lontanissimo dallo spettacolo teatrale consono, nuovo, ma che allo stesso tempo colga l’essenza base del teatro dell’opera, sceglie la seconda strada. In questo modo la “finzione” del teatro è ricreata al massimo e negata allo stesso tempo. Il montaggio annulla l’entrata e l’uscita dei cantanti, i cambi scena, e tutto ciò che è proprio della rappresentazione d’opera (persino le stecche), ma le costumiste che cambiano il conte a scena aperta (del resto, quale scena se la scena non c’è?), le sarte che cuciono l’abito di Rosina su di lei, le inquadrature sulla macchina del vento e sugli altri rumori che avvengono solitamente fuori scena, sono quanto di più teatrale esista: il dietro le quinte, fatto di centinaia di persone, vere, senza costume, che lavorano ogni sera, anche loro come i cantanti.
Tratto dal sito: http://teatroecritica.net
Nonché un’eccellente terapia contro l’anestesia emotiva a cui l’eccesso di emozioni artificiali ci sta condannando. Mattioli assiste a una Passione secondo san Matteo di Bach e si scopre a pensare che quella finzione è più vera del vero: «Il problema non è cosa ci viene raccontato, perché fra quello che fanno al Cristo di Bach o ai poveri cristi che vediamo in tivù non c’è poi molta differenza. La differenza è come ci viene raccontato, la possibilità di fermarsi, pensare, metabolizzare. Paradossalmente, in questo caso la fiction teatrale diventa molto più reale della realtà vera. Arrivano tre ore di musica sublime e si ripete la catarsi. La pietà e la paura della tragedia ci purificano. Improvvisamente torniamo a vedere le cose nella giusta prospettiva per esempio, quanto è scandaloso, intollerabile e in definitiva osceno che un uomo venga ucciso» . Siamo sicuri che sia pazzia, e non saggezza? In ogni caso, lasciatevi guidare verso l’opera. Potreste contagiarvi con un morbo delizioso.
Giancarlo De Cataldo per “Robinson – la Repubblica“