NON E’ UN PAESE PER GIOVANI – L’INCREDIBILE STORIA DELLA CATANESE SABINA BERRETTA: DOPO LA LAUREA IN NEUROLOGIA PROVÒ A ENTRARE IN UNIVERSITÀ COME CUSTODE MA NON FU ASSUNTA – POI, A 29 ANNI, HA VINTO UNA BORSA PER IL MIT DI BOSTON, HA SALUTATO L’ITALIA E NON È PIÙ TORNATA INDIETRO
«Qualcuno dice che il mio laboratorio somiglia a quello di Frankenstein. Naturalmente non è così, ma, certo, abbiamo 3 mila cervelli nei container. Pochi per le esigenze di una ricerca scientifica che ormai conta su strumenti, quelli sì, fantascientifici». Sognava di fare la scienziata in Italia, Sabina Berretta. Ma dopo anni di ricerche non pagate, l’ unica via per mantenersi agli studi sembrava un posto da bidella. Fallita anche quella prospettiva, è partita per l’ America: e non è più tornata.
Oggi Berretta, che ha 56 anni, è la scienziata italiana che dirige l’ Harvard Brain tissue resource center del McLean Hospital di Boston, la più grande banca dei cervelli del mondo. Qui la “materia grigia” viene catalogata, sezionata, conservata: i campioni inviati in tutti i laboratori del mondo per essere studiati. Qualche giorno fa ha lanciato un appello per fare nuove donazioni, essenziali alla ricerca: «Abbiamo bisogno di cervelli.
Solo studiandone sempre di più potremo sconfiggere malattie considerate inguaribili. O nemmeno considerate malattie». Ma com’ è arrivata Sabina Berretta, cervello in fuga – è proprio il caso di dirlo – a dirigere uno dei più prestigiosi laboratori del mondo? La sua è una storia che intreccia caso e passione: e mette in luce le carenze abissali del sistema universitario italiano.
Da dove è partita?
«Sono siciliana, vengo da Catania. Dopo il liceo volevo studiare filosofia, ma sapevo che non mi avrebbe permesso di sopravvivere: e siccome ero una sportiva mi iscrissi all’ Isef. Insegnando ginnastica, pensai, avrò tempo per studiare filosofia, prendere una seconda laurea. Fu preparando la tesi dell’ ultimo anno che scoprii la mia vocazione. Il professore che insegnava fisiologia all’ Isef era un docente di medicina.
Entrai nel suo laboratorio dove facevano studi sul cervelletto. Capii subito che era quello che m’ interessava davvero. Misi da parte lo sport e cominciai a studiare medicina a Catania». Come andò? «Benissimo, continuai a fare ricerca in quel laboratorio e mi laureai con lode in neurologia. Solo che le ricerche nessuno me le pagava: ero una volontaria. E anche da laureata non c’ era posto per me. In quell’ istituto si liberava però un posto da bidello: pensai che poteva essere un modo per guadagnare dei soldi continuando a studiare. Dopo aver spazzato i pavimenti, insomma, potevo andare in laboratorio e proseguire le ricerche con uno stipendio su cui contare. Non vinsi nemmeno quel posto: eravamo troppi a farne richiesta».
La persona che lo vinse era laureata come lei?
«Certo, adesso è una stimata ricercatrice, ma ha cominciato con un posto da bidella. Io invece ebbi fortuna. Vinsi una borsa del Cnr per studiare un anno all’ estero. Scelsi il Mit di Boston. Andò bene: scaduta la borsa, ero stimata e mi tennero. Era il 1990 e da allora non sono più tornata».
Lei dunque partì con una borsa di formazione italiana: ma fu l’ America a darle la possibilità di continuare i suoi studi
«Succede continuamente. Gli studenti approdano in America da tutta Europa per fare quei lavori di laboratorio che in America non vengono pagati. I più bravi vengono assunti: e siccome a casa non hanno prospettive, molti fanno come me e restano».
Cosa ha fatto in America?
«Proposi il mio lavoro ad Harvard: studiavo gli effetti della schizofrenia sul cervello e lì c’ era la banca dati più importante del mondo. Avevo bisogno di lavorare sul tessuto umano per far progredire le mie ricerche perché fino ad allora avevo analizzato solo modelli animali. Prima ho lavorato con la direttrice del centro, poi sono diventata una ricercatrice indipendente, con budget e staff.
Quando la direttrice è andata in pensione, ero quella che conosceva meglio l’ archivio dei cervelli: darmi il suo posto fu la scelta più ovvia».
Quante persone dirige?
«Sette nel mio laboratorio, dieci nella banca dei cervelli. Staff di media grandezza, ce ne sono di più ampi. Studiamo la schizofrenia e i disturbi bipolari».
Sono malattie che lasciano un segno sulla materia grigia?
«Certo, tutte le malattie segnano il cervello. I malati di Alzheimer, per esempio, hanno la corteccia atrofizzata. D’ altronde a marcare il cervello non sono solo le malattie: ogni esperienza lascia il segno, così come il tempo che passa. Il cervello muta ad ogni nuova informazione. Certo, qualcosa è visibile a occhio nudo, qualcosa solo al microscopio. Come la depressione: difficile da vedere, ma lascia il segno».
Per eseguire questo genere di ricerche è essenziale conoscere prima la patologia?
«No, anzi, lavorare su materiale non malato ci aiuta a fare comparazioni. Di solito intervistiamo i donatori e le loro famiglie, ma sono interviste mediche, non parliamo, insomma, di sentimenti. Lo faremo: stiamo studiando come gestire la privacy di queste persone. Solo che chi non è malato è meno motivato a donare.
Pensa che non serva: e d’ altronde perfino la medicina parla ancora di malattia fisica e malattia mentale. Ma anche la mentale è fisica. Per questo è così importante avere nuove donazioni».
Quante ne ricevete ogni anno?
«Circa centocinquanta. Troppo poche per gli strumenti incredibili che abbiamo. Ora possiamo fare cose davvero straordinarie come catalogare le cellule una ad una. Grazie ai nuovi strumenti e ai nostri studi sconfiggeremo nuove malattie. Ma abbiamo poco tessuto per gli esperimenti. Aiutateci: ce ne serve di più». Donate il vostro cervello alla scienza, insomma: anche se non siete un cervello in fuga.
Articolo di Anna Lombardi, per la Republica.it
Immagine in evidenza: Henry Matisse, colllezione Shchukin