Non era un treno per Yuma. Non trasportava banditi, e una banda non era in agguato lungo i binari per liberare il suo capo detenuto. Trasportava solamente operai stanchi dopo una giornata di lavoro; qualche studente stravaccato, cuffie alle orecchie; impiegati intenti a compulsare il telefonino. Seduta di fianco a me una anziana e grassa signora si assopiva di frequente, reclinando la testa, giusto il tempo di una mossa al burraco-line.
IL TRENO
Era un treno per Rivarolo, di quelli locali, anonimo e lento, simile a quelli che una volta si chiamavano littorine e attraversavano, a scartamento ridotto, campagne desolate. Altro che il treno per Foggia e i suoi Lanzichenecchi (bisogna accontentarsi, non sono mica Elkann, noblesse oblige).
Il treno si snoda fra una stazioncina e l’altra, sembra indugiare, nonostante sia in ritardo e già il crepuscolo scende, fra campi di granturco, campagne incolte, facciate anonime di caseggiati popolari.
Una giornata noiosa, ripetitiva, ma poi giunto in prossimità di San Benigno il treno si ferma, le porte si aprono, una voce lo percorre: tutti giù!! La piccola folla si accalca sotto una vecchia pensilina, lo sguardo lungo i binari, a scrutare l’ostacolo. Eccolo! L’asta di un passaggio a livello svetta nel cielo, appoggiata alla linea elettrica. E’ blackout.
Opera di un automobilista ubriaco? Pare non sia la prima volta, dice il capotreno, che fa capire che i soccorsi saranno lunghi. A dire che il capolinea, la meta agognata, e lì a pochi chilometri.
Comincia un’attesa snervante, rotta dal suono dei telefonini e dal resoconto concitato di chi cerca un passaggio occasionale o familiare. Attorno al cippo distorto del fu passaggio a livello arrivano alcuni vigili del fuoco, un agente regola il traffico. Sembrano marionette immote, sopraffatte dalla perplessità e pervase da un’improvvisa inedia.
Davanti alla stazioncina ci sta una pensilina, qualcuno pensa a una alternativa dal ferro alla gomma. Ma i bus sono così rari!
“ Ritornando a Settimo, però, è possibile prendere una coincidenza che poi ci porta a Rivarolo” sento dire da una voce femminile. Una donna legge dal telefonino numeri, orari delle corse, fermate. E’ sicura, la voce di chi alla competenza unisce cortesia e affabilità. Scandisce: “il tempo è poco, se il bus è in ritardo o troviamo traffico non ce la faremo”. Guarda il display, poi noi, poi si ripete, come un mantra, per chiarezza, sottintende.
Si chiama Susanna, poco più di una ragazza, un poco macilenta e pallida. Indossa uno spolverino bianco, scarpe da tennis ai piedi. Accanto, incuriosita, c’è Claudia, che scopriamo poi essere una maestra. Una folta capellatura bianca che spicca.
A me va di tentarla, la sorte. Maria Angela che mi accompagna un poco infreddolita dalla sosta inattesa, è dubbiosa. Magari ha ragione lei, ma a me va lo stesso tentare. Come da ragazzo quando facevo l’autostop per portarmi verso la Riviera. Partiamo poco dopo per un’avventura nella notte su un bus di linea, mezzo vuoto, con un autista che prima recalcitra, deve rispettare l’orario, non può andare più forte, reclama. Poi contagiato dall’ansia che ci legge in volto, fila spedito fino alla fermata della coincidenza.
Siamo sul filo dei minuti, forse dei secondi: il bus è già passato? magari è in anticipo? o forse no, in genere sono in ritardo, ma questo succede a Torino non qui, le strade sono libere. Congetture che come farfalle notturne svolazzano intorno a noi. Siamo fermi come sospesi ai lati della strada, su una terra di nessuno delimitata dalla pensilina, mentre le auto passano, i guidatori rallentano per farci attraversare poi sfilano incuriositi. Ma scritte un poco ondeggianti di numeri e parole illuminate sul fontale del bus non se ne vedono.
Claudia, a questo punto, quasi fosse un’attrice consumata, tira fuori il piano B, sua sorella la Maga.
La chiama col telefonino. Detto fatto, un stringato resoconto, l’accordo sul luogo dove prenderci e un’esortazione a fare presto.
“Abita a Rivarolo, ci viene a prendere lei. Sorride: tutto a posto!” Ci guardiamo dubbiosi.
Susanna, che da un po’ si stropicciava nel dubbio, si rilassa, ora possiamo non sentirci più naufraghi dispersi, ogniuno assapora il rientro a casa, la cena in famiglia.
Si chiacchera, o meglio ne approfitto per domande un poco affrettate.
Susanna è sposata, ha fatto parecchi mestieri, attualmente è in uno studio di commercialisti importanti a Torino, va su e giù ogni giorno.
Claudia è misurata nei modi, minuta, un viso aperto su cui si apre di sovente il sorriso.
Ci parla del suo lavoro di maestra, è stanca e aspetta impaziente la pensione. Non lo dice, ma si sente un poco superata dai tempi. La scuola è cambiata, scolari e famiglie non sono più gli stessi. Le cose stanno peggiorando nel campo educativo. Ma c’è da scommetterci che Claudia stia preparando qualcosa di nuovo e diverso, non sembra il tipo da appendere al chiodo la sua esperienza.
Mentre aspettiamo Claudia spiega che In realtà la “maga” è una consulente coniugale e familiare, una professionista socio-educativa che lavora nella formazione d’aiuto con la coppia e la famiglia.
“Interviene in tutte le situazioni in cui c’è bisogno di ascolto, di empatia, di accoglienza e di riorganizzare le risorse dell’individuo, della coppia e della famiglia.”
L’ascolto incuriosito: “Non è dunque una “strizza cervelli”, né la cartomante che legge le mani o nei fondi di caffè”- sottolineo.
LA MAGA
“Eccola!” esclama Claudia, è arrivata la Maga.
Avanza a finestrini abbassati un’auto bianca, guidata da una esuberante signora di mezza età. Apre le porte prima ancora dell’arresto: “Su, su, che ci aspettano”, un breve sorriso a Claudia che ricambia con aria interrogativa. Chi ci aspetta? mi domando.
Ci affrettiamo a entrare, l’auto riprende la corsa, lascia il centro, nella campagna il buio già incombe. Dopo una distesa di mais, qualche casolare sperduto, la strada si addentra nella collina. La Maga ha una guida a strappi, incurante dei dossi e affronta le curve irrigidendo le braccia. Una folta e ricciuta capigliatura le nasconde il profilo. In fondo alla strada si apre una vallata appena velata di umidità, la sponda di un lago si smoda contorta, non circola nessuno, solo i fari della nostra macchina fendono il buio.
Ci guardiamo stupiti, domandandoci sottovoce dove ci sta portando.
Ci guarda dallo specchietto retrovisore: “ ho una sorpresa per voi, un viaggio che nemmeno immaginate.”
“Ma a casa mi aspettano”, protesta Susanna.
Maria Angela mi guarda allarmata, poi fa un gesto come a dire: te l’avevo detto, io!
Sentiamo all’improvviso il fischio di un treno. Filiamo sotto un terrapieno su cui scorgiamo snodarsi delle rotaie. Al fondo, interrotte dallo sbuffo bianco di vapore, delle luci e delle ombre concitate.
“Siamo arrivati” dice la Maga, soddisfatta “anche questa è fatta”. Tira un sospiro di sollievo e il freno a mano.
La stazione è modesta, deve risalire agli anni sessanta del secolo scorso, ma il treno in sosta, formato da 12 carrozze, è illuminato come per una cerimonia imperiale.
Le carrozze sono lucide, con modanature in bronzo dorato, i finestrini sono degli oblò con vetri soffusi. Scende un uomo in uniforme, si presenta con sussiego; è il concierge. Dopo essersi presentato e dato il benvenuto, ci porge una busta sigillata di ceralacca col nostro nome a caratteri cubitali.
“Entrate prego” dice l’uomo “ vi aspettavamo, ora vi accompagno ai vostri posti”.
Entriamo ammutoliti e increduli. La Maga da fuori ci guarda ironica, incoraggiandoci con i gesti delle mani. Poi riparte.
Ci addentriamo nel lusso di un salone stile-sottolinea il concierge- dolce vita. Una melodia esotica fa da sottofondo. Vediamo alcuni camerieri inguantati attorno ad un bar carico di drinks e bollicine per un buffet di benvenuto. Segue una sala giochi per le carte e gli scacchi. In fondo si intravvede un pianista con papillon che vedendoci accenna a una melodia.
Le cabine sono suite con ogni comodità. Il concierge sta spiegando a Claudia estasiata che il divano si trasforma con un pulsante in letto matrimoniale. “Un lusso curato ma non ostentato, che sembra essere qui da sempre”, scandisce compiaciuto.
“Ma il meglio è nella carrozza ristorante, ogni piatto è preparato al momento secondo il menù che avrete scelto, e durante il pasto un cantastorie vi racconterà dell’incontro fra Oriente e Occidente, meglio delle Mille e una notte.
Mi assale un dubbio e dico: “ma non è per caso questo treno l’Orient Express ?”
Il concierge mi guarda stupito, alza i sopraccigli, storce la bocca: “Ma che domanda…non ha letto all’esterno la scritta?
“Ma dove siamo diretti?”- domanda timidamente Susanna.
“A beh, dipende, ci sono tre itinerari, nella busta è indicato il vostro, quello assegnato a ognuno di voi.” Poi con un lampo di malizia negli occhi soggiunge: tante destinazioni, nessuna destinazione”
Lo guardiamo muti e a disagio, la busta sembra pesarci nelle mani. Nessuno ha il coraggio di aprirla nè di ripetere: sì, ma dove siamo diretti?
Un fischio ci dice che il treno sta per partire. L’uomo ha una smorfia, come fosse spazientito, poi abbassando la voce e avvicinandosi, quasi recitasse una parte per l’ennesima replica, dice:
“Il vostro caso non fa eccezione. Consolatevi, alla fine siete dei privilegiati: avete visto, sentito, vi siete fatta un’idea più precisa di cosa si lascia. Non che questo conti gran che, mah… Poi in fondo il posto non è così scomodo; questa è una vasta regione che non è stata ancora perfezionata, ne avrete semplicemente un anticipo”. Potrete continuare a viaggiare in comunanza di intenti e amicizia,…. fino alla prossima fermata, là dove non ci sono passaggi a livello.. Una fermata definitiva, per diventare parte di un cielo infinito e senza tempo.”
Seduto accanto al finestrino scruto nel buio. Fra di me penso: l’ultimo viaggio, peccato. Ho visto così poco, e capito ancora meno.