Lo confesso: prima di oggi non avevo mai visto un film di Nanni Moretti. Forse qualche spezzone in tv, con colombelle rosse e caimani, lambrette come in Vacanze romane, battute su “esserci o non esserci” come mi si nota di più…. ecc. Perché l’uomo di film ne ha fatti, è prima o dopo, come in una malattia esantematica, doveva capitare pure a me di sorbirmene uno. Ma la colpa è mia, me lo sono cercato l’abbiocco. Dell’ultimo film, in questi giorni in concorso al Festival di Cannes, dal titolo Mia madre, Tati Sanguineti, amico e collaboratore di Nonno Nanni, ci aveva dato il suo imbarazzato ma lapidario giudizio: è una schifezza, il peggiore di Nanni. Potevo tenermene alla larga. Poi leggo che, ohibò, il regista è testimone di tutti noi, “nel suo sofferto mettersi in discussione… nell’urgenza di testimonianza di autenticità… lui sempre sulle barricate (sia un altare o una macchina di presa) sferzante, irritato, irritante ed egocentrico”.( La Stampa). Da Cannes giungevano, intanto, notizie esaltanti di platee commosse e piangenti, di critici conquistati dal genio: un film profondo e sincero, un film sul cinema e sul rapporto tra realtà e finzione, un film che s’appresta ad essere un manifesto del nostro tempo complesso e problematico. La gauche au caviar fa il suo diuturno lavoro, come tarli nel legno. Loro, di manifesti se ne intendono e sanno come muovere la grancassa pubblicitaria. Non restava che andare.
La sceneggiatura non è il punto di forza del film: le due storie, quella della regista (Margherita Buy) sul set di un film operaistico, e della stessa in quanto figlia al capezzale delle madre morente, non trovano punti di contatto, restano estranee e scorrono parallele una all’altra; alle fine il set sembra un pretesto per riempire una storia fragile che per reggere avrebbe avuto bisogno di una tempra drammatica che Nonno Nanni non ha. Anche i dialoghi non entusiasmano, specie sulla bocca di Giovanni- Moretti col suo periodare sentenzioso, anche quando si piega alle banalità quotidiane. Qualche timido tentativo di unire realtà e finzione ( evocare come ha fatto qualche critico lo spirito di Fellini è del tutto gratuito, non basta una carrellata davanti al Capranichetta) non riesce a dare maggiore ritmo e incisività all’azione che è troppo rarefatta e minimalista, anche quando dovrebbe non esserla. Né ci riesce la musica di Britten. Alla fine si rimane freddi e cortesemente annoiati. Quanto ai protagonisti: la prova di attore di Moretti è sobria, ma sottotono, anche se devo dire che, invecchiando, il suo sorriso si è fatto simpatico. La Margherita Buy, a disagio nei panni di regista, meglio come figlia, non riesce ad esprimere molto di più di quanto dicono i suoi occhioni mansueti. John Turturro, nel ruolo di un improbabile imprenditore italo-americano, è una macchietta napoletana con le sue intemperanze e amnesie assai improbabili: non conosce la parte, dimentica le battute e non fa che scompisciarsi sul set. Per la proverbiale professionalità attoriale americana è più di un insulto. Sarà per il solido mestiere che la sua prova rimane buona.
Alla fine l’impressione è che in Nonno Nanni le emozioni attraversano gli occhi, ma non vanno al cuore. Questo per un regista è un affare serio. Esse di annidano nel cervello di Nonno Nanni, dove sbiadiscono e si appesantiscono di significati allegorici, didascalici e pedagogici. Questo è Mia madre: la storia comune di un lutto cui segue una crisi solo annunciata, ma che rimane anch’essa sulla piatta banalità esistenziale.