PASTORE: FEMMINILE PLURALE
di Anna Kauber
Prodotto da Solares Fondazione delle Arti e Anna Kauber
730 giorni (2 anni)
17 regioni attraversate
1 donna alla guida (di una Panda a metano!)
15000 chilometri di viaggio
100 donne fra i 20 e i 97 anni
Storie di donne, di un mestiere “maschile” che si sta sempre più declinando al femminile e di prodotti gastronomici che non sempre rispondono ai canoni estetici dell’era moderna. E, poi, la bellezza occulta dei vari paesaggi italiani, quelli fuori dalle rotte del turismo di massa. Alla ricerca di questi elementi è andata Anna Kauber, 59 anni, paesaggista di Parma ed esperta in paesaggio agrario: a bordo della sua Fiat Panda gialla, ha percorso 1500 chilometri d’Italia alla ricerca delle donne pastore (“attenzione, non parliamo di donne che si occupano solo della trasformazione del latte o della carne”), per dare voce al loro lavoro, alla loro esistenza, ai loro prodotti (a volte, dall’aspetto inusuale).
Il film è nato dalla ricerca e dalla documentazione della specificità di genere in agricoltura, e quindi sulla particolarità della relazione tra il femminile e la terra.
Oltre ad essere un documento unico ed inedito su un modo femminile di intendere la vita e un mestiere allo stesso tempo antico e contemporaneo, è in grado di parlare con realismo e poesia il linguaggio universale dei valori intesi soprattutto nel rapporto tra uomo e animale e tra uomo e ambiente naturale. (Gazzetta di Parma)
Dopo due anni in giro per il Bel Paese, autofinanziandosi, la Kauber ha scovato un centinaio di “pastoresse”: hanno un’età che va da 20 ai 97 anni, sono tutte donne forti, coraggiose, molte sono laureate, sembrano tutte “sorelle”. Donne-protagoniste, che sono riuscite a ritagliarsi il loro spazio all’interno di un compartimento fino ad oggi soprattutto maschile e patriarcale, che si tramanda da padre in figlio. Ma non è solo questo: lo hanno rivisitato, contagiato con la sensibilità e la tenacia di chi partorisce ogni giorno, adattando questo mestiere alla specificità del genere femminile.
“Solo in Liguria non ho trovato donne pastore”, racconta la voce entusiasta della paesaggista. “Dalle Alpi alla Sicilia, per 17 regioni, sono stata con ognuna di loro per circa due giorni: andavo al pascolo, assistevo al rituale della mungitura, ai parti delle capre, delle pecore, delle mucche. Quasi tutte hanno allevamenti allo stato semi-brado o da stalla, ma moltissime escono al mattino presto, anche verso le cinque o le sei, per rientrare appena dopo il tramonto. Ho dormito e mangiato nelle loro case, sono donne felici, essenziali, creative, ironiche. Devo ammetterlo, mi hanno cambiata”. E c’è anche chi, come Caterina, suona il violino in mezzo al suo gregge, sui pascoli alpini: nelle orecchie risuonano i nomi delle amatissime pecore e capre Selvaggia, Ninna, Sofia, Fortuna, Neve, Birba, dei cani Amelia, Clara, Sanni, dei vitelli Lui e Lei e dell’asino Mena. Sono richiami diversi, affascinanti, che regalano emozioni fiabesche: i rumori del pascolo, il ruminare e lo scalpiccio delle zampe, il vento e l’aria pulita, i cieli e le montagne.
E, in effetti, quando mangiamo una ricotta o un formaggio, quelli artigianali, non sempre ci soffermiamo a riflettere su quello che c’è dietro. “E’ un lavoro molto molto duro, che non ha giorni di festa, non conosce sabati e domeniche: gli animali vanno accuditi tutti i giorni. Non dimentichiamo gli ostacoli climatici e naturali. Inoltre, alcune di loro vendono i prodotti solo all’interno di mercatini locali o presidi Slow Food”. A volte, è anche l’aspetto di questi prodotti a creare non poche difficoltà: “In Molise, per esempio, una allevatrice di mucche ottiene una ricotta quasi color arancio: questo è dovuto al fatto che le sue mucche vanno al pascolo libere e mangiano un’erba fresca ricca di beta carotene. Ed è proprio quest’erba che carica di pigmenti il latte e gli conferisce un’aspetto inusuale, ma il pubblico può storcere il naso prima di assaggiarla, perché è abituato a credere che tutto ciò che deriva dal latte è per forza bianco e candido”.
Molte donne-pastore non si occupano solo di latte e derivati: dall’Appennino in su gli allevamenti sono prevalentemente da carne, anche per un fattore redditizio, e hanno una marcia in più. “Non si tratta di bravura: è qualcosa che ha più a che fare con l’istinto materno, a prescindere che si abbiano o meno figli. E’ quel sapersi prendere cura degli esseri viventi e dell’ambiente che le circonda, che è una mera prerogativa femminile”. La ricerca della Kauber sottolinea anche un’altra virtù: “le donne-pastore sono molto brave a fare rete, anzi la maggior parte di loro è su Facebook e condivide “l’arte del fare” l’una con l’altra. Come? Scambiandosi consigli e ricette su come fare un nuovo formaggio, una salatura particolare, una tintura per la lana”.
Altro dato “sorpresa” è quello che viene fuori dal loro identikit: è in aumento il numero di donne, soprattutto verso i 40 anni, che hanno abbandonato i loro precedenti lavori – erano ingegneri, matematiche, avvocati – per cambiare vita. E darsi alla pastorizia. “Questo desiderio di cambiamento è una voglia di connessione reale con il mondo – specifica la paesaggista parmense -, sono donne stanche, possiamo dire, della vita urbana, che preferiscono sentirsi in sintonia con l’andamento della natura, che non stanno lì a crogiolarsi nella crisi. Sono donne che hanno sviluppato una coscienza di se, dei nuovi valori, economici o naturali che siano. E hanno il merito di aver recuperato territori, razze in estinzione, filiere più sane”.
Ora, le loro storie, intrinseche di emozioni, stanno prendendo anche la forma di un docufilm, intitolato “In questo mondo”, di Anna Kauber, prodotto da Solares Fondazione delle Arti di Parma e Aki film (è anche attiva una campagna di crowdfunding per per sostenere il progetto). “E’ un reportage che vuole comunicare la bellezza, il coraggio, la passione, la determinazione e l’amore delle donne-pastore. Insieme a Esmeralda Calabria, abbiamo cercato di raccontarlo senza declamazioni, ma per far capire che abbiamo bisogno di loro, perché il loro non è solo un mondo possibile, ma anche auspicabile”.
Articolo di Annacarla Tredici per Repubblica.it