Celebrare i bicentenari di nascita, già di per sé non è cosa semplice. Se si parla di una penna come Charles Baudelaire, poi, ricordarlo degnamente diventa ancora più insidioso non volendo inciampare nel solito decalogo della sua bibliografia. Considerato uno dei più celebri poeti e saggisti del XIX secolo, il suo animo “romanticamente sovversivo” portò alla ribalta temi per l’epoca rivoluzionari quali la morte, la crisi, il pensiero o la notte. Dalla sua venuta al mondo, ebbene, son passati 200 anni: eppure, la sua poetica pare ancora estremamente attuale inserendosi a pieno nella rabbia che pervade il nostro decennio tra la disperazione di fine giornata, il folle ritorno alla cocaina e una notte di passione rubata in un parcheggio prima di tornare dal coniuge. È bello paragonare l’arte di ieri con la realtà dell’oggi: avvicinare ciò che per molti sembra lontano con il quotidiano in cui siamo immersi, facendo sì che la letteratura sia un linguaggio masticabile da tutti. Se si tratta di Baudelaire, però, farlo da soli è fin troppo rischioso vista la mole di dettagli che un occhio semplice perderebbe. Ecco perché, chiedere aiuto alla più grande poetessa italiana vivente mi è sembrata la cosa migliore da fare. Patrizia Valduga, con 40 anni di acclamata carriera tra scrittura e traduzione, è stata cortese nel dedicare un poco del suo tempo in questa celebrazione: le sono grata, perché per interpretare un’anima inquieta, fragile e ribelle come Charles Baudelaire non c’è niente di meglio che una personalità altrettanto fuori inquadratura, seppur perfetta nella sinuosa esemplarità del suo sonetto chiuso e della quartina, in opere come Medicamenta, Manfred o Belluno, fino a Lezioni d’amore e raccolte di poesie erotiche. Nel pensare a un modo intelligente per ottenere il benvolere della poetessa veneta, sempre estremamente elegante nelle sue mise attillate condite da grandi cappelli, come spesso accade quando si è emozionati son finita per cadere in una domanda iniziale molto semplice. Forse troppo, lo ammetto: è comunque trapelato, nelle parole che mi ha regalato, quell’insegnamento sincero di chi prima ammette con un certo cinismo di preferire lo psicanalista allo yoga e poi ti confida che è possibile creare quel perfetto equilibrio tra razionalità e mente innamorandosi ogni giorno, che sia di una persona, di un luogo, di un film o di un’opera. Dall’analisi dello scrittore francese, con Patrizia Valduga è nato un intrigante botta e risposta allargato ai temi del nostro oggi: una di quelle conversazioni in suo stile, con risposte un po’ ermetiche che devi magari leggere più volte per capirne i molteplici significati. Per trovare una morale alla nostra storia, sempre che esista, con quel distaccato coinvolgimento tipico di chi ha lasciato scorrere nella poesia tutta la propria fiducia, seppur nascosta dietro una maschera di disillusione la cui reale consistenza, non ci è dato sapere.
Patrizia Valduga, oggi si celebra Baudelaire ed i 200 anni dalla sua nascita: ma a lei, questo artista, piace?
Come potrebbe non piacermi? Sono votata al culto dei grandi. Ma per me, per la mia età e per la mia formazione, sarebbe impossibile immaginare di catapultarlo ai nostri giorni. D’altronde è sempre stato imprevedibile, questo poeta: non ha mai fatto quello che facevano gli altri…
Un po’ come lei, d’altronde, che con la sua poetica ha toccato tematiche spesso considerate tabù. Come Baudelaire, inoltre, lei celebra il concetto di “purezza poetica” inteso come perfezione dello stile: tra sonetti, terzine dantesche, ottave, rima baciata, sestine e distici di endecasillabi, la sua poetica segue l’affascinante filo conduttore della forma chiusa.
Ci sono altri punti in comune tra le sue opere e quelle del poeta francese?
Non oso neppure pensarlo. Cosa potrebbero mai avere in comune un genio dell’Ottocento e un piccolo epigono dei nostri anni, tra l’altro tra i più ignoranti di tutta la storia di questo ignorante paese? Come poetessa, io, nasco dall’Ipersonetto di Zanzotto, e dai barocchi nostrani.
Capisco, ma insisto: se Baudelaire è il padre della poesia moderna, lei ne è senza dubbio un’erede. I temi raccontati dal poeta trasudano di realtà, indecente e oscena nella sua anche dolce essenza così come nell’inevitabile compassione che può suscitare. Nessun sentimento è tenuto nascosto: la passione, il dolore, lo smarrimento, il suicidio, la dedizione al vizio. In tutto questo dolore c’è della verità, proprio come nella sua poetica. Intimità, direi: quanto è importante essere sinceri per far poesia? È più importante esserlo con gli altri o con se stessi?
Penso che, se c’è una verità in poesia, debba essere una verità estetica. Assistiamo ogni giorno a esibizioni di «cuori messi a nudo», con miserabili versi imprecisi e retorici, facili lirismi, parole alte… Uno spettacolo osceno, questo sì. Il 90% dei poeti d’oggi sembra che non abbia mai letto Baudelaire. Ma sono sinceri, oh così sinceri…
A proposito di cuori: chissà se c’è un tipo di amore in cui si riconosce o si è riconosciuta di più.
Non so se c’è un tipo di amore in cui mi riconosco. So che sono stata attratta da uomini che hanno una struttura psichica complementare o almeno compatibile con la mia. La parte del corpo più eccitante per me è il cervello, e anche il cosiddetto «cuore» è dentro il cervello.
Certo è che nei suoi versi, si parla molto di amore come passione carnale: un atto animalesco che cola sentimento, definito da Baudelaire un “lirismo del popolo” e da lei come “equilibrio tra anima e carne”. Tuffandosi in versi (i suoi) come Cuocimi, bollimi, addentami, covami, eternami, mi sembra quasi di assistere a un distruggersi e un ricomporsi tra le braccia dell’altro. Mi viene in mente di Eros e Thanatos: passione e distruzione.
Sono stata definita «poetessa erotica». Bene: essere poeti erotici non è indizio di salute sessuale. La lingua batte dove il dente duole è un bel proverbio, sa? Chi gode non parla di sesso: è chi ha problemi a godere che ne parla in continuazione. Adesso poi sono decrepita, e parlarne mi mette malinconia. O meglio, non mi riguarda più. Per me adesso, più importante del sesso è l’amicizia: una forma di amore più disinteressato e duraturo.
Si definisce con durezza, eppure lei è una delle poche che l’amore, nella vita, lo ha trovato davvero. Parlo di Giovanni Raboni, poeta, critico letterario, giornalista, traduttore e scrittore tra i nomi più conosciuti della letteratura italiana da lei sempre descritto come persona meravigliosa. Mi sveli un segreto, se può: come si amano due scrittori?
Raboni, lui sì che è un grande. Mi ha insegnato tutto, anche a convivere con le mie angosce. Come si amano due scrittori? Non ne ho idea. Posso solo dirle che due poeti forse si amano in modo un po’ più complicato dei non-poeti, perché hanno un cervello più complicato dei non-poeti.
È vera quindi questa storia dell’anima gemella? Parrebbe sempre più difficile incontrarla, in realtà: soprattutto ricreare questo incontro sacro tra mente e carne, tendendo spesso ad amare per combattere la solitudine o a fare l’amore per soddisfare un istinto. Manca forse la cura verso l’altrui: quel Ti voglio far provare un bel piacere […] Ed io ti prenderò come un’anguilla. / Dentro da me per vie d’acqua o aeree…
Se è sempre più difficile trovare l’anima gemella, è perché siamo sempre più egoisti ed egocentrici, confondendo l’attrazione con il desiderio. Flaubert, l’altro gigante di cui si festeggiano il 12 dicembre i 200 anni dalla nascita – e ci sarebbe anche Dostoevskij l’11 novembre – Flaubert, dicevo, ci ha insegnato con Madame Bovary che il nostro desiderio è sempre mediato, che l’amore è come lo snobismo: abbiamo un modello, sociale o intellettuale o erotico, e lo imitiamo. Il nostro desiderio è indotto, alienato o mimetico, e destinato a finire. L’attrazione, invece, non ha mediatori: è immediata, istintiva e sempre reciproca, ed è l’inizio di un innamoramento che è l’inizio di un amore che dura. Ma per essere attratti, bisogna prestare ascolto, prestare molta attenzione, non essere troppo egocentrici e avere anche un minimo di consapevolezza di sé e di immaginazione.
È una bella lezione, questa. D’altronde lei, signora Valduga, è una maestra di seduzione a colpi di parole. Leggendo le sue opere, come “Cento quartine e altre storie d’amore”, mi viene in mente il Tantra: quella decantata estasi sessuale che libera la propria energia non tanto intesa come sesso sfrenato ma come un affetto viscerale. Lei ha mai fatto meditazione?
Ognuno legge con quello che sa, con quello che è. Non so cosa sia il Tantra. Da giovane ho provato lo yoga: mi metteva ancora più inquietudine. Meglio lo psicanalista.
“Le emozioni più belle sono quelle che non puoi spiegare”, diceva Baudelaire: forse sarebbe andato anche lui dallo psicanalista, se solo avesse potuto. Comunque lei, i sentimenti, li sa illustrare benissimo. E trasmettere, fino alla pancia, con un uso così sapiente della lingua italiana che c’è del piacere nel vero senso della parola a leggerla. D’altronde, è anche un’affermatissima traduttrice: quanto è ricca e comunicativa la nostra lingua e quali difficoltà ci sono nel rendere concetti da un ceppo linguistico all’altro?
Le rispondo con una dichiarazione di D’Annunzio: «La mia lingua mi appartiene come il più profondo dei miei istinti». Vorrei tanto poterlo dire anch’io. Ma non posso: devo avere sempre un dizionario in mano, come se non possedessi nessuna parola, come se tutte le parole fossero fuori di me. Ma a renderle ricche e comunicative è lo scrittore: senza lo scrittore, resterebbero inerti dentro il dizionario.
Quale tra le sue opere considera la migliore?
Belluno. Risposta scontata: ogni scrittore preferisce sempre l’ultima cosa che ha scritto. E spesso vale molto meno della prima…
Finora, mi pare che di scontato con lei non ci sia niente: forse è per questo che, leggendola, alcune volte ci si sente destabilizzati. Credo sia la sensazione di esser scoperti nei nostri pensieri più profondi. Mettiti a quattro zampe, mi va il sangue alla testa, ho già le vampe: quanta voglia di suscitare una reazione nell’altro c’è in ciò che scrive, o lo fa principalmente per sé stessa?
Si scrive per il piacere che si prova a scrivere. Allora per sé stessi? Non proprio, perché il piacere dovrebbe trasmettersi anche a chi legge…
E a lei, c’è qualcosa nella vita che la scuote, la destruttura, la sorprende?
Sono una vecchia psicotica, piena di paure e di angosce. Farei prima a dire cosa mi calma, oltre agli ansiolitici.
Una volta mi è capitato di sentirmi in piena armonia con la situazione che stavo vivendo: me lo ricordo perché ho fatto caso al mio corpo, non solo come insieme casuale di cellule ma come un’entità che aveva un “peso” sul pezzo di terra che stavo ricoprendo. Mi sono sentita quasi felice, ma non sapevo darle una definizione: almeno fino a che non ho letto del “punto di sella”, quell’equilibrio tra razionalità e sentimento che lei ben spiega in “Per sguardi e per Parole” (Mulino). Lei il “punto di sella” lo ha trovato nella scrittura: si può trovare anche nella vita quotidiana?
Certo, ogni volta che ci si innamora; di una persona, di un film, di uno spettacolo…O di un’opera! Il 21 marzo, tra l’altro, è stata la Giornata Mondiale della Poesia. Per questa occasione sono stati letti molti autori, da Bukowski a Alda Merini fino a…..Fabio Volo. Cosa ne pensa dell’arte della scrittura lasciata nelle mani di autori come quest’ultimo, così come di Michela Murgia, Selvaggia Lucarelli, Simona Sparaco e non solo?
Non leggo i vivi da tanti anni. Decrepita come sono, sento ancora di dover imparare. Dai vivi non imparo niente: o mi annoiano o mi irritano. Con tutti i grandi che ci sono da Omero fino a – posso dirlo? – fino a Raboni, ho tanto ancora da leggere e da imparare.
Dicono che il lockdown abbia aumentato il numero di persone che leggono. Il fatto è che oggi c’è davvero di tutto e orientarsi non è semplice. Quali sono i generi letterari che esclude categoricamente?
Si può essere grandi in ogni genere, ma non tutti i generi sono grandi. E a me piacciono solo quelli grandi. Il fatto è che oggi non ci sono più critici. Pound suggeriva di buttare via tutti i critici che usano «termini generali imprecisi», che usano «termini vaghi, perché sono troppo ignoranti per aver da dire qualcosa di preciso», e lo diceva cent’anni fa. Oggi dovremmo buttarli via tutti. C’è ancora qualcuno che dice qualcosa di preciso sulle pagine culturali?
Beh, se di esperti critici secondo lei ce ne sono pochi, vero è che a giudicare dai social sembrano tutti esperti letterari in erba. Tutti citano continuamente versi famosi: sicuro anche i suoi, che sono già molto frequenti su Facebook. Lei che rapporto ha con i social media?
Non ho nessun rapporto. Ma penso che sia giusto usarli per delle buone cause, non per le solite ripugnanti esibizioni e autopromozioni.
Ho visto il video Youtube “Nove lustri di Valduga”. Quanti bellissimi vestiti possiede! E quanta eleganza… capisco perché la chiamano la “diva” della poesia italiana. Si riconosce in questa definizione? Oggi molte artiste rifiuterebbero una simile “etichetta”, ma è vero che attualmente si fa guerra a tutti e di rivoluzioni ce ne sono tante. Penso ad esempio al metoo o alla lotta contro il bodyshaming..
Ma che diva e diva! Sono più di 50 anni che mi vesto con vestiti usati e non ho mai pensato di essere una diva per questo. Sono convinta da sempre della superiorità delle donne, per questo non mi sono mai sentita parte di una corporazione. Il metoo è una cosa di cui mi vergogno. Sembra diventato il modo più sbrigativo per far fuori qualcuno di scomodo. Il bodyshaming è un’altra cosa: mi sembra più un fatto di maleducazione. Mi hanno insegnato a non deridere i difetti fisici delle persone, come la statura bassa o le orecchie a sventola: è un’azione ingiusta e volgare.
Oggi c’è molto di ingiusto, a partire dai giudizi appuntiti della gente. Penso a Baudelaire, ad esempio, che è stato molto innamorato di una donna mulatta. Nel suo tempo fu un amore controverso da vivere, ma non lo sarebbe forse anche oggi, dati i molti episodi di razzismo che stanno vertiginosamente aumentando?
Ho visto di recente alla televisione un bel film, Green book; negli anni Sessanta in alcuni stati del Sud degli Stati Uniti, i neri non potevano uscire di notte, e non potevano entrare nei ristoranti e nei negozi per bianchi. Abbiamo fatto dei passi da gigante, mi pare. Ma gli imbecilli ci sono in ogni epoca.
Torno un momento ai suoi componimenti, dove vita e morte si intrecciano continuamente. Se la sua poesia fosse un quadro, quale artista sceglierebbe?
Leonardo, citando Plutarco, diceva che la poesia è per gli orbi e la pittura per i sordi. I miei occhi sono molto ignoranti… Ma mi viene in mente un’opera di Luciano Fabro, Lo spirato.
Cosa consiglierebbe a un giovane poeta o una giovane poetessa, oggi?
Se fossero davvero poeti, non avrebbero bisogno di consigli. Se fossero davvero poeti, saprebbero d’istinto cosa leggere e cosa scrivere.
Meglio il caos o la quiete?
Per me è meglio l’alternanza dell’uno e dell’altra.
Intervista di Giada Tommei per mowmag.com