NEL LIBRO VIRAL MODERNISM ELIZABETH OUKTA DESCRIVE COME LA MORTE NERA DETTA SPAGNOLA FRA IL 1818-1820 SCONVOLSE IL MONDO-LA PESTILENZA UCCISE INTERE FAMIGLIE, I MORTI FURONO SEPOLTI IN TERRA PER MANCANZA DI BARE, MILIONI DI ORFANI SI TROVARONO SBANDATI.
T.S.ELIOT: Londra, città irreale, sotto la nebbia bruna di un’alba d’inverno, una gran folla fluiva sopra il London Bridge, così tanta, ch’io non avrei mai creduto che morte tanta n’avesse disfatta.
José Ameal Pena, oggi 105 anni, ricorda ancora: “Erano così tanti i funerali che passavano ogni giorno davanti alla nostra casa che mia madre, per non spaventarmi, teneva sempre le tende chiuse”, ha raccontato José a El Mundo. Era la pandemia di influenza che, tra il 1918 e il 1920, causò nel mondo 50 milioni di morti, la famosa “spagnola”. In Spagna morirono in 300 mila. Per giorni, senza interruzione, si sentivano i rintocchi a morte del campanile della chiesa. Poi cominciò la “censura sonora”. “Le campane smisero di suonare per annunciare un funerale. Troppo rumore e troppi lutti in un paesino terrorizzato. L’idea fu del parroco: decise che i defunti fossero accompagnati al cimitero in silenzio, senza che nessuno, dal suo letto, dovesse chiedersi per chi suonava la campana”. A Nembro, come in altre località della Val Seriana, nelle scorse settimane hanno deciso di fare lo stesso. Erano troppi i morti.
“Una memoria sensoriale merita una citazione speciale, in quanto riecheggia in tutta la letteratura: il suono costante di campane a morto” scrive la professoressa Elizabeth Outka nel suo nuovo libro “Viral modernism”.
E’ il primo studio su come la “spagnola” sconvolse la cultura occidentale, non soltanto decimandone molti rappresentanti, ma influenzandone molti capolavori. “Il lamento diventa riverbero nei racconti dei sopravvissuti americani ed europei: ‘Le campane della chiesa suonavano continuamente’, ‘le campane suonavano tutto il giorno’, ‘potevo sentire il continuo suono della campana della morte’. Il sopravvissuto Philip Learoyd descrisse un’atmosfera simile a una terra desolata che non dimenticò mai: ‘Ancora oggi, cinquantacinque anni dopo, il suono di una campana ricorda per me la scena di un dormitorio triste con l’oscurità giallo grigiastra di novembre’. Un documentario americano sulla pandemia è intitolato ‘We Heard the Bells’”.
Nessun luogo fu risparmiato, tranne l’Antartide, l’isola di Sant’Elena, qualche isolotto nel Rio delle Amazzoni e l’Australia, la grande eccezione. “Il presidente si è improvvisamente ammalato violentemente con l’influenza in un momento in cui l’intera civiltà sembrava essere in bilico”, scriverà il medico di Woodrow Wilson, Cary T. Grayson. “Non è possibile rendersi conto su quale ghiaccio sottile la civiltà europea stia pattinando”.
Outka spiega che “Thomas Wolfe perse il fratello, T.S. Eliot temeva che il suo cervello fosse danneggiato dall’influenza e Virginia Woolf ne fece una profonda riflessione sulla malattia, “On Being Ill”. La scrittrice aveva assistito in prima persona alla spagnola. Scrisse nel suo diario il 20 ottobre 1918: “Siamo nel mezzo di una pestilenza senza pari dalla morte nera”. Più tardi, ne “La signora Dalloway”, la spagnola infetta Clarissa Dalloway.
L’influenza non si era semplicemente sviluppata dietro le porte chiuse di case e ospedali; tutta la vita pubblica era visibilmente cambiata. “Nella maggior parte delle comunità, le scuole, i teatri, le chiese e le fabbriche sono state chiuse e molti servizi pubblici si sono semplicemente interrotti. Troppe persone erano malate – o si prendevano cura dei malati – per far funzionare i servizi. Un sopravvissuto inglese ha ricordato che a Hambrough Road, Southhall, ‘così tante famiglie intere sono morte che decine di case sono diventate vuote’. A Filadelfia, i carri furono trascinati per le strade, con i sacerdoti che chiedevano alle persone di ‘portare fuori i loro morti’”.
La pandemia ha portato con sé le immagini di corpi, bare e funerali. “I critici modernisti della Prima guerra mondiale parlano dei corpi sempre presenti nelle trincee e della loro assenza in casa, ma nel 1918 i corpi erano ovunque” spiega Outka. “I sopravvissuti parlavano del flusso costante di funerali: ‘C’erano così tanti morti che i cortei funebri dall’obitorio dell’ospedale… erano come un lungo spettacolo di Lord Majors’. Un ministro battista a Leicester ‘conduceva i funerali dalla prima luce del giorno al tramonto’. I cortei funebri si susseguivano per la città. Spesso c’era più di una bara in un carro funebre. La comunità non riusciva a stare al passo con i funerali e molti temevano di partecipare alle funzioni. Il tributo della pandemia fu presto così alto che in molti luoghi le bare si esaurirono”. Ricorda niente del nostro nord Italia devastato dal Covid-19?
“La morte di massa si era riversata dai campi di battaglia nello spazio domestico”, scrive Outka. “Mentre la pandemia si è conclusa nel 1920, i postumi del virus hanno continuato a vivere nei corpi e nelle vite delle sue vittime. Questo particolare ceppo influenzale poteva danneggiare permanentemente i polmoni, il cuore e i nervi e lasciare il corpo aperto alle infezioni”.
Al compositore ungherese Béla Bartók lasciò un’infezione all’orecchio che gli fece temere di essere diventato sordo. Lo scrittore americano Robert Graves ne rimase quasi ucciso. Ma forse il retaggio più persistente della pandemia è stato il dolore e le difficoltà che ha lasciato dietro di sé. “Ha distrutto famiglie su più livelli. Divenne il virus che uccise gli adulti nell’era primigenia della genitorialità, produsse milioni di orfani”.
La scrittrice Mary McCarthy, che ha perso entrambi i genitori nella spagnola, disse che il virus l’aveva privata anche della sua storia familiare. “La catena del ricordo – la memoria collettiva di una famiglia – è stata spezzata”. Spiega ancora la studiosa americana che “i numerosi corpi e cadaveri del modernismo, come quelli che riempiono ‘La terra desolata’, sono tentativi di affrontare e rappresentare nuovamente questi corpi assenti. Il racconto della mancanza di cadaveri sul fronte domestico – certamente vero per quanto riguarda i morti di guerra – diventa più complicato quando si ricorda il diluvio di cadaveri da pandemia che dilagano proprio all’arrivo dell’armistizio. A differenza del cadavere di guerra – onnipresente in un luogo, assente in un altro – il cadavere dell’influenza era ovunque e in nessun luogo”.
“La terra desolata” (1922) di T. S. Eliot e “Il secondo avvento” di W. B. Yeats (1919) sono i due capolavori della letteratura del Novecento più segnati dalla “spagnola”. “Ogni scrittore ha avuto un intenso incontro personale con il virus e ogni testo traccia un particolare paesaggio pandemico”. Era il tempo in cui tutta la grande cultura rimase in qualche modo segnata. Sophie Freud, debilitata dalla terza gravidanza, fu uccisa dalla spagnola e il padre Siegmund ne uscì cambiato da quell’evento. Al termine della pandemia, Freud scrisse il famoso saggio intitolato “Al di là del principio di piacere”, dove introdusse la “pulsione di morte”. “Ricordi un periodo così pieno di morte come quello attuale?”, scrisse il fondatore della psicoanalisi all’amico Ernest Jones dopo la scomparsa della figlia.
Tanti grandi scrittori persero familiari, come il padre di Larwence d’Arabia e il figlio di Arthur Conan Doyle.
Si dice che il pittore Edvard Munch abbia realizzato il suo famosissimo “Urlo” a causa dell’influenza. “Una sera stavo percorrendo un sentiero, da un lato c’era la città e sotto di me il fiordo”, scrisse. “Mi sentivo stanco e malato. Mi fermai a guardare in direzione del fiordo: il sole stava tramontando e le nuvole erano rosso sangue. Ebbi la sensazione che la natura fosse attraversata da un urlo; e mi sembrò di sentirlo”.
L’“Autoritratto con influenza spagnola” del 1919 mostra un Munch avvolto da una coperta, seduto su una sedia, il letto arruffato sullo sfondo. Il giallo è malaticcio, la bocca si apre come un cadavere. La pandemia uccise uno dei più grandi pittori dell’espressionismo, Egon Schiele, e il suo maestro, Gustav Klimt. A Schiele l’influenza portò via la moglie incinta di sei mesi. Ce lo ricorda un suo dipinto intitolato “La famiglia”, in cui si vedono Schiele, la moglie Edith e quel bambino che non ebbero mai. La pandemia uccise il poeta Guillaume Apollinaire, a capo dell’avanguardia artistica e letteraria francese, il padre del “surrealismo”. Poi fu la volta di Edmond Rostand, l’autore di “Cyrano de Bergerac”. Ezra Pound contrasse l’influenza a Londra ma gli sopravvisse, come John Steinbeck e Groucho Marx. O come Romain Rolland, premio Nobel per la Letteratura nel 1915, che si ammalò in un hotel sul lago di Ginevra.
Franz Kafka si infettò e superò il virus mentre collassava l’impero austro-ungarico. Crollavano le società, ma anche i vecchi confini e la vecchia cultura. Il positivismo ne uscì a pezzi.
I becchini non riuscivano a scavare abbastanza in fretta e per fare prima, scavavano fosse sempre meno in profondità. “A volte la buca era così bassa che dalla terra saltava fuori un piede”, ricorda lo scrittore Nelson Rodrigues. T.S. Eliot traspose quanto vedeva nella sua celebre “Sepoltura dei morti”: “Città irreale, sotto la nebbia bruna di un’alba d’inverno, una gran folla fluiva sopra il London Bridge, così tanta, ch’io non avrei mai creduto che morte tanta n’avesse disfatta. Sospiri, brevi e infrequenti, se ne esalavano, e ognuno procedeva con gli occhi fissi ai piedi. Affluivano su per il colle e giù per la King William Street, fino a dove Saint Mary Woolnoth segnava le ore con morto suono sull’ultimo tocco delle nove”.
Negli anni attorno alla stesura e alla pubblicazione della “Terra desolata”, l’influenza fu una presenza costante per Eliot e sua moglie Vivien.
La pandemia influenzò i grandi scrittori, dalla “Signora Dalloway” di Virginia Woolf al “Secondo avvento” W. B. Yeats
Bartok rimase quasi sordo, mentre la scrittrice Mary McCarthy disse che il virus l’aveva privata anche della storia familiare
Da Egon Schiele a Gustav Klimt, da Apollinaire a Rostand, non si contano le vittime dell’influenza spagnola
T. S. Eliot si ammalò con la moglie, perse numerosi familiari e venne ispirato per la sua “Sepoltura dei morti”
La coppia contrasse il virus nel dicembre 1918, quando la seconda ondata della pandemia infuriava in Inghilterra. La zia di Eliot morì nel dicembre del 1918 e il padre poco dopo. “Ho avuto una specie di collasso; ho dormito quasi ininterrottamente per due giorni, e ora sono sveglio, mi sento molto debole e sfinito” scrisse Eliot al fratello. Il senso di snervamento, frammentazione e di corpi vulnerabili sono elementi costanti del suo capolavoro poetico.
Conclude Outka: “La pandemia ha alimentato l’interesse per la risurrezione e la morte intensificando le ansie già messe in atto dalla guerra. Entrambe le tragedie hanno portato a rituali funebri interrotti, entrambe hanno richiesto sepolture di massa, entrambe hanno portato a morte improvvisa e violenta, entrambe a corpi danneggiati, entrambe hanno causato un senso diffuso di morte nei sopravvissuti, entrambe hanno lasciato un numero quasi inimmaginabile di persone in lutto sulla loro scia. Donne e uomini erano in estremo pericolo e lo spazio domestico divenne mortale”. Il capolavoro di Y.B. Yeats, “Il secondo avvento”, è fortemente segnato dalla pandemia e ci consegna il crollo della redenzione cristiana e della resurrezione.
Era la sensazione, messa in versi da Eliot e per dirla con Victor Vaughan, ex preside della facoltà di medicina dell’Università del Michigan e nel 1918 a capo della divisione malattie infettive dell’esercito, che “se l’epidemia continua la civiltà potrebbe facilmente scomparire dalla faccia della terra nel giro di poche settimane”. Questo assillante presentimento, presagio e premonizione della tragedia fu all’origine della migliore letteratura del Novecento. Con una letteratura figlia di una cultura sempre più conformista e banale, priva di ogni senso del tragico, la pandemia di Covid-19 non ci darà neanche la consolazione in versi e in prosa. Le nostre campane sembrano suonare, più che a morto, a vuoto.
Giulio Menotti, il Foglio Quotidiano