Il sole di Odessa, i castagni di Kyiv cari a Bulgakov “che per un moscovita erano esotici come palme”. Gli scrittori e l’eterno confronto tra la fredda Madre Russia e l’eccentrica terra affacciata sul Mar Nero
Com’è fortunata, lei che se ne va in Ucraina! A Kyiv ci sono le paste con la crema…”.
Mosca, autunno 1918. La scrittrice russa Nadežna Aleksandrovna Buinskaja, in arte Teffi, si ritrova da un giorno all’altro in braghe di tela: “La parola russa”, la rivista da un milione di copie di cui è collaboratrice, viene accusata di antibolscevismo e liquidata. Il clima si sta facendo irrespirabile e anche per lei, pur famosissima e molto letta – balocchi e profumi portavano il suo nome, era un’influencer ante litteram, ma per litteras – non era facile sbarcare il lunario.
I caffè traboccavano di gente con i cappotti laceri e i giovani poeti vagano dall’uno all’altro ululando versi con voci affamate. Per strada, tra case buie e anfratti dove i passanti venivano soffocati e rapinati, sfilavano soldati dell’armata rossa che sospingevano gruppi di arrestati. Il cibo scarseggiava. Urgevano soluzioni.
“Un giorno si presenta Gus’kin”, scrive Teffi nel romanzo Da Mosca al Mar Nero, “un impresario strabico di Odessa che cerca di convincermi ad andare con lui in Ucraina per delle letture pubbliche. Mi dice: ‘Oggi ha mangiato la pagnotta? Bene, perché domani non sarà così. Non lo sa? Tutti quelli che possono vanno in Ucraina. Solo che nessuno può. Mentre lei la porterò io. Ho già prenotato la stanza migliore all’hotel Londra. Là splende il sole. Piglierà i soldi, si comprerà burro e prosciutto. Cos’ha da perdere?’”. Niente. Così Teffi si mette in viaggio. Arrivata a Kyiv, scriverà: “La gente va e viene da un negozio all’altro. I nuovi arrivati si ingozzano coscienziosamente. Tutti sono stracarichi di cibo. Vapore e fumo da tutte le porte. I negozi sono zeppi di prosciutti, salami, tacchini. Non è un sogno. E’ la vita vera”.
Cronaca di un’epoca sepolta, quel 1918 “ricco di sole d’estate e di neve d’inverno”, meteo-descrivendo il quale Michail Bulgakov dà avvio a La guardia bianca. Modello di riferimento per Pasternak, grande romanzo di Kyiv e di un mondo che tramontava mentre Dio “in volo nel cielo screpolato non dava risposte”, racconta le vicissitudini di quei giorni, della famiglia Turbin e di un’intera città che, indipendente dall’anno precedente, occupata prima dai tedeschi e poi dalle truppe del nazionalista Petljura, si preparava a fronteggiare la cupa bordata dei bolscevichi.
“La città fu presa e persa dalle truppe più disparate,” rievoca Viktor Sklovskij, che lì si trovava con la quarta divisione corazzata, in Viaggio sentimentale. “Ma i caffé continuavano a lavorare. Nel teatro della città si esibiva Armand Duclos, indovino e chiaroveggente. Indovinava i nomi scritti su un foglietto, ma tutti si interessavano soprattutto alle sue profezie. Ricordo le domande. “Sarà intatta la mia mobilia a Pietroburgo?” E lui, barcollando a occhi bendati sul palcoscenico: “La vedo, sì, la vedo. E’ intatta!”. Una volta gli fu chiesto: “Verranno a Kyiv i bolscevichi?”. E lui promise di no, aggiungendo che i francesi avevano un raggio ultravioletto in grado di accecarli. Lo incontrai mesi dopo a Pietroburgo, lavorava nella sezione culturale di un reparto dell’armata rossa”. E ricordando quella primavera da arruolato: “Quando le donne vestono di leggero, con abiti graziosi, è dura andare per strada con vestiti sudici. A Kyiv era dura camminare tra quella gente elegante trasportando catene d’automobile sulle spalle. A Pietroburgo no, non era dura: a Pietroburgo porti un grosso sacco pieno di legna e senti solo l’orgoglio di essere forte”. Differenza non trascurabile. Differenza essenziale. Non l’unica: era una città vivace, Kyiv, nella quale vivevano etnie diverse – russi, ucraini, ebrei, tedeschi – in perenne zuffa interetnica; l’eterogeneità, insomma, non era un fattore d’ordine come in altre città della Russia. Tuttavia l’effervescenza non pregiudicava la fioritura: presso l’accademia di Teologia in cui insegnava il padre di Bulgakov proliferavano sì circoli impregnati di idee nazionaliste, eppure l’ateneo aveva fama, anche a Pietroburgo, di essere il più lucido e aperto dell’epoca. La città, spazzata da brezze cosmopolite, era ricca di fascino. Lo scrittore Il’ja Erenburg scriveva: “Kyiv aveva parchi enormi, bellissimi, adorni di castagni. Per un moscovita erano esotici come palme”. (Di quei castagni, Bulgakov sentirà la mancanza per tutta la vita. Per non parlare del cioccolato Gala Peter, con la sua punta d’amaro, e degli arcinoti Biscotti del Capitano, tondi, di pasta frolla, con sale e cumino). I bar all’aperto, affacciati su viale Krešatik, straripavano di clienti e la gente “sorrideva per strada”. Lo scrittore de Il Maestro e Margherita, che in gioventù era fissato col biliardo – frequentava gli otto tavoli del polacco Golombeck, annessa birreria – mai sarebbe riuscito a far pace con la “folla lugubre di Mosca”, città estranea al temperamento estroverso dei suoi concittadini, abituati a godersela e a riempire allegramente i teatri per assistere alla “Carmen”, a “Gli ugonotti”, o a un “Barbiere di Siviglia” “con cantanti italiani”. Poi irruppe la Storia, calando la sua mannaia. Improvvisamente, per strada e sui tramvai, si sentiva parlare solo di come scappare. Chi poteva, spediva via i bambini. In stazione la gente stava in fila anche per tre giorni. I binari, le sale d’attesa, i gradini dei sottopassaggi erano invasi da profughi. Bulgakov si ritrovò a prestar servizio nell’ospedale da campo che la Croce Rossa aveva allestito proprio a Kyiv. Poi venne trasferito in Ucraina occidentale. Infine a Cernovcy. “Gli facevo da infermiera”, racconterà la moglie. “Reggevo le gambe che lui amputava. La prima volta mi sono sentita male, poi è passato”.
Intanto, settecento chilometri più a sud, Odessa: tramonti densi come marmellata, una vivacissima presenza ebraica e, nelle vetrine delle drogherie, rum della Giamaica, olio di Marsiglia, sardine Philippe et Canand, pepe della Caienna, sigari delle piantagioni di Peerpoint Morgan e arance di Gerusalemme. “Ecco che cosa porta sulla spiaggia la schiumosa risacca del mare di Odessa”, scriveva Babel’, canonizzandola per sempre nei suoi voluttuosi racconti e canonizzando anche, in un articolo del 1916, la sua irriducibile originalità. “L’odessita” – sosteneva – “è l’esatto opposto del pietroburghese. Ma Pietroburgo ha trionfato sul governatorato di Poltava”, miagolava rampognando a ritroso Gogol’, reo di abbandono della spensierata Ucraina in favore della spettrale città premeditata. E concludeva: “Odessa è l’unica città dove possa nascere quel Maupassant russo di cui abbiamo tanto bisogno”.
Odessa viveva la sua gloria, celebrava la sua epica. Costruita sulle rovine di una fortezza turca, battezzata pensando a Omero e beneficiata da una primavera al profumo di acacia, le scene dei suoi teatri ardevano per Ja Kremer, famosissima cantante specializzata in un repertorio di “canzoni intime” che lei stessa componeva; nel 1916 era già un idolo in tutta la Russia ma nel 1919, via Costantinopoli, inevitabilmente fuggì, sbarcò a Broadway, fece carriera e si ritirò dalle scene negli anni 30, proprio mentre l’ucraina, sottoposta a una tremenda collettivizzazione forzata, registrava la morte per carestia di tre milioni di persone – Kremer romperà il silenzio canoro solo nel 1943, esibendosi alla conferenza di Teheran, alla presenza di Stalin, per il compleanno di Churchill. Ucraino odessita anche uno dei primi aviatori russi, S. I. Utokin: “impavido, elegante, con le braccia lunghe”, così lo raccontano gli articoli dell’epoca; vera rockstar, eroe amato per la spericolatezza delle sue imprese, ebbe un incidente precipitando nelle paludi di Novgorod e non si riprese mai più – curato con massicce dosi di cocaina e morfina, morì di polmonite in un ospedale psichiatrico. Ucraini di Odessa, infine, anche gli scrittori del gruppo “Kollektiv poetov”, stantuffo lirico di una città gaudente e libera, isola d’eccezione in un impero austero e autoritario. Città che, oltre a Isaac Babel’, regalò al mondo la fenomenale coppia di scrittori umoristici Il’f e Petrov, Semyon Gecht, Jurij Oleša, Valentin Kataev, Vera Inber, e il leggendario Eduard Bagrickij, il “François Villon di Odessa”, morto a trentotto anni. “Me lo ricordo da giovane,” scrisse Babel’. “Seppelliva i suoi interlocutori sotto una valanga di versi, indossava un camiciotto e un paio di calzoni alla zuava. Era chiassoso e somigliava solo a se stesso. Ci immaginavamo da vecchi, maliziosi e grassi, che già avevamo abbandonato le fredde città ed eravamo tornati a Odessa, sotto il sole, sul viale in riva al mare, ad accompagnare con uno sguardo insistente le donne che passavano…”.
Anche Aleksandr Puškin disse la sua, memorabilmente. Già nel 1831, parlando de Le veglie alla fattoria di Didanka di Nikolaj Gogol’ – opera straordinaria che esplorò le estreme possibilità della lingua russa, lavorando con una libertà “cui forse non era estranea la sua origine ucraina”(serenavitale)–contagiato dal lieto demonismo dei racconti, definì gli ucraini “una tribù che canta e balla”. Nei Viaggi di Onegin, ricordando una visita di qualche anno prima impreziosita da un audace amorazzo con la moglie del governatore, incoronò Odessa coi felicissimi versi: “Lì a lungo resta sereno il cielo / lì tutto respira d’europa / La lingua della dorata Italia risuona per l’elegante strada / dove passano lo slavo / il francese, lo spagnolo, l’armeno e il greco…”.
Strade, quelle ucraine, lungo le quali hanno camminato scrittori che paiono innegabilmente caratterizzati da un certo tratto indomito, di eccentrica irriducibilità. Quel tratto ce l’aveva Nikolaj Gogol’, genio debordante e piromane incontrollato, che non accettò le sue pagine e nemmeno se stesso, e fece di una crepitante disarmonia il codice armonioso di una bella lingua nuova. Ce l’aveva Michail Arcybašev, autore di Sanin, spigliato romanzone del 1905 accusato di offesa al pudore e con protagonista un uomo “del futuro”, cinico, istintivo, de-ideologizzato e disinvolto scopatore – “la vita non è che una sensazione”. Ce l’aveva Anna Achmatova, odessita di nascita e liceale a Kyiv, che a cinque anni parlava perfettamente il francese, espulsa nel 1946 dall’unione degli Scrittori Sovietici e accusata di estetismo e disimpegno, poi riabilitata ma pubblicata solo parzialmente in Urss. Ce l’aveva Michail Bulgakov, la cui massima opera fu pubblicata postuma e in vita dovette sopportare umiliazioni, interrogatori, perquisizioni e un espatrio che Stalin non gli concesse mai – gli concesse di lavorare al Teatro di Mosca ma non come drammaturgo. Ce l’aveva Jurij Oleša, che nel 1927 pubblicò L’invidia, coraggiosa satira, ambigua e anticipatrice, dello scontro tra mondo vecchio e mondo nuovo – troppo, per l’urss. Ce l’aveva Isaak Babel’, che inviato nel 1920 da Gor’kij al fronte polacco al seguito del generale Budënnyj, scrisse L’armata a cavallo, epopea di portatori di “libertà e sifilide” che conobbe un crescente apprezzamento letterario e una crescente serie di distinguo, fino all’accusa, per Babel’, da parte proprio di Budënnyj, “di appartenere alla vecchia, putrescente intelligencija” e di essere un degenerato calunniatore di eroi – il resto è storia nota, poco allegra.
Ce l’ha, oggi, Serhij Žadan, lo scrittore ucraino più noto e tradotto. Un romanzo nell’anagrafe: classe 1974, infanzia sovietica nella regione ucraino-orientale del Luhans’k, ora residente a Charkiv. Il convitto e La strada del Donbas (Voland) sono due romanzi bellissimi, che galoppano, con una prosa che si srotola come un nastro, espressiva e ironica, e una rara capacità di raccontare un mondo attonito. Tra posti di blocco che modificano il tempo e asfalti sconquassati che modificano lo spazio, tra città assediate e vite traumatizzate, tra vagoni bruciati e fischi di granate, una speranza c’è, esiste sempre: per esempio un ex alunno che, pur diventato separatista, ti salva da un mercenario, proprio come accade a Paša, il professore de Il convitto .E improvvisamente, dopo tanta morte, la morte scompare. “A casa c’è odore di lenzuola appena lavate”.
Marco Archetti per Il Foglio Quotidiano