La morte di Fidel Castro ha coinciso con una iniziativa d’arte che dalla rivoluzione castrista volge il pensiero a quella zapatista del Messico, cioè a quello spartiacque, culturale e ideologico, che ancora oggi fa un unicum socio-politico di questi due paesi dell’America latina.
La mostra, aperta dal 5 ottobre al Grand Palais di Parigi e che chiuderà il 23 gennaio 2017, è intitolata: Messico 1900-1950. Diego Rivera, Frida Kahlo, José Clemente, Orozco e le avanguardie. Quattro i nuclei tematici principali: l’Arte prima della Rivoluzione, il Messico e la Rivoluzione, le altre facce della scuola messicana; l’Ibridazione con l’incontro di due mondi.
Vi sono esposte 203 opere in parte inedite che includono 20 collezioni principali messicane, 10 internazionali e 31 di privati. 119 sono quadri, 25 disegni, 27 sculture, 11 incisioni, 19 fotografie (quelle dell’italiana Tina Modotti) e due video.
Già l’anno scorso sempre a Parigi si è tenuta un’esposizione di Frida Kahlo e Diego Rivera, con un grandissimo successo di pubblico. Segno dell’interesse che questi artisti, non ancora tutti conosciuti, sanno suscitare.
Di seguito il bel articolo di Francesco Poli per la Stampa di Torino. Giornalista, ma soprattutto storico dell’arte, insegna a Brera e a Parigi.
Forse l’ opera che sintetizza meglio tutti i principali ingredienti storici, ideologici, culturali, ed estetici di cui è impregnata questa grande rassegna sull’ arte messicana della prima metà del XX secolo al Grand Palais di Parigi, è quella di un autore russo, e cioè il film incompiuto Que viva Mexico! di Sergei Eisenstein.
Alla fine del 1930, dopo la rottura del contratto con la Paramount, il regista se ne va da Los Angeles e arriva in Messico. Qui nel 1931-32 lavora al progetto di un grandioso film-documentario sulla tragica ed esaltante epopea del popolo messicano, dove entrano in scena i miti delle civiltà native, le atrocità della colonizzazione spagnola, la nascita della nazione indipendente e infine il trionfo della rivoluzione zapatista, con spettacolari riprese di massa nell’ ultima sezione.
Anche se ci si deve accontentare di un collage postumo curato da uno dei suoi collaboratori, la forza scioccante ed evocativa del montaggio delle immagini da vita a straordinari frammenti di «murales in movimento» (per usare una definizione del regista stesso che era amico di Diego Rivera). E in effetti, dal punto di vista compositivo, si può ben dire che anche l’ impianto iconico degli immensi affreschi in edifici pubblici realizzati a partire dagli Anni 20 dalla «trinità muralista» (Diego Rivera, José Clemente Orozco, David Alfaro Siqueiros), e da altri pittori, è basata su operazioni di montaggio.
Un montaggio compositivo che si sviluppa attraverso la raffigurazione di personaggi e paesaggi, di scene di vita contadina, di enfatizzazioni allegoriche e immaginifiche, con accenti realistici, di epico populismo e retoricamente ideologiche. La fondamentale esperienza dell’ arte pubblica monumentale muralista (che negli Anni 30 ha avuto un ruolo cruciale anche negli Usa) è naturalmente il tema su cui maggiormente si incentra l’ esposizione.
Gli artisti si sentono in prima linea nella costruzione della nuova identità culturale, e del nuovo immaginario collettivo che trae la sua linfa dalle radici mitiche per aprirsi a utopistici scenari sociali nella modernità. Grazie all’iniziativa del ministro Vasconcelos le pareti di palazzi istituzionali diventano il teatro di vaste narrazioni pittoriche.
In mostra ci sono vari esempi di bozzetti e quadri connessi con le grandi realizzazioni, ma viene documentata anche la specifica qualità della pittura dei vari protagonisti. Di grande rilievo è in particolare la ricerca di Rivera, a partire dalla sua notevole fase cubista, degli anni parigini. Interessante è anche, per esempio, la debordante energia espressiva e plastica delle figure di Siqueiros, tra cui spicca un mirabolante autoritratto in scorcio, con un enorme pugno che sembra uscire dal quadro e colpire lo spettatore.
Ma in mostra troviamo opere di molti altri artisti, circa sessanta in tutto, che documentano da un lato l’ evoluzione in direzione moderna dei linguaggi con influenze cubiste, futuriste e astratte (tra cui vanno ricordati gli esponenti del movimento «stridentista», come Charlot, Alva de la Canal, Revueltas); e dall’ altro lato, in particolare, quelle caratterizzate soprattutto delle forme più vitali e significative del tradizionale folklore autoctono.
E sono proprio i lavori degli artisti che si ispirano all’ iconografia popolare quelli più affascinanti e anche più sorprendenti. È il caso, per esempio, di Ramon Cano Manilla; di Antonio Ruiz «El Corcito» (bellissimo è la fantastica figura addormentata sono delle coperte che diventano un paesaggio fantastico); e una artista eccezionale come Maria Izquierdo, amica di Antonin Artaud che scrive cose di immaginifica intensità sulla sua creatività sorgiva e «primordiale». E c’ è naturalmente anche la grande Frida Kahlo, legata visceralmente alle radici più profonde della «messicanità».
Della Kahlo sono esposte solo due opere, tra cui una grande tela che è un enigmatico capolavoro. Si intitola Le due Frida (I939) e rappresenta l’ artista sdoppiata in due figure sedute che appaiono come gemelle, e che indossano due eleganti abiti tradizionali.
Anche se non è molto ampia, è altamente significativa la sezione dedicata alla fotografia, con immagini di Tina Modotti (e anche di Weston, del periodo del suo soggiorno messicano), di Rosa Rolanda, di Lola Àlvarez Bravo e del suo più famoso marito Manuel, che è uno dei grandi pionieri del realismo sociale impegnato, ma anche con valenze espressive cariche di tensione visionaria.