Premessa: in questi tempi di epidemia, tutto quel che viene proposto in campo musicale è una cura palliativa. La musica, quella vera, si fa dal vivo per un pubblico dal vivo (e, date le circostanze, si spera anche vivo tout court). Il resto, concerti senza spettatori, spettatori senza concerti, esibizioni on line, opere in streaming, è un surrogato nell’attesa di tornare a far musica come prima e magari più di prima, nonostante serpeggi la pericolosa tentazione di rendere definitivo il provvisorio, perché “tutto non tornerà più come prima” (e perché no? E in ogni caso provarci, no?). Detto questo, ieri a Milano due eventi musicali hanno definito i confini della musica al tempo dell’epidemia: uno in meglio e uno in peggio.
Il meglio
Arriva dalla Filarmonica della Scala. Ieri a mezzogiorno, in segno di vicinanza a chi si batte contro il virus, i suoi professori hanno aperto le finestre delle loro case o sono usciti sui loro balconi per eseguire da remoto una pagina classica di celebrità pop: il Canone in re maggiore di Pachelbel. Lo hanno fatto invitando chiunque fosse in grado o ne avesse voglia a farlo insieme con loro, e mettendo a disposizione suo web lo spartito a chiunque volesse partecipare al flashmob.
L’iniziativa è stata lanciata con un video musicale di auguri: 64 orchestrali hanno suonato Pachelbel ognuno da casa sua, mixando e finalizzando le immagini e l’audio originali che ognuno aveva inciso con il suo smartphone, senza parti preregistrate. L’effetto è tecnicamente straordinario ed emotivamente toccante. La tecnologia al servizio della musica al servizio del sociale: nella vacanza obbligata della musica vera, forse il meglio che si potesse concepire.
Il peggio
E poi, alle 19, è arrivato il reclamizzatissimo concerto di Andrea Bocelli dal Duomo, ovviamente senza pubblico: solo lui, l’organista della Cattedrale, Emanuele Vianelli, le vecchie magnifiche pietre e lo streaming in diretta mondiale. Cinque arie sacre in tutto: in chiesa, il “Panis Angelicus” di Franck, l'”Ave Maria” di Bach-Gounod, “Sancta Maria” di Mascagni (trattasi di un’atroce arrangiamento dell’Intermezzo di “Cavalleria”, la pagina meno sacra che si possa immaginare), il “Domine Deus” della “Petite Messe Solennelle” di Rossini; sul sagrato, “Amazing Grace”. Più un fervorino religioso-patriottico all’inizio e un po’ di belle immagini della città ferita.
Ora, duole dirlo perché Bocelli sta simpatico un po’ a tutti, ma il concerto è stato imbarazzante: incertezze di intonazione, urla disperate per salire a ogni acuto, falsetti da crooner spacciati per piani, suoni oscillanti, legato non pervenuto e così via. Chiunque dotato di orecchie un minimo educate l’ha notato e molti l’hanno anche scritto sui social. Naturalmente, è stato un trionfo: alle 11.41 le visualizzazioni su YouTube erano poco di 25 milioni, un’enormità, quindi chi se ne frega della tanto strombazzata “bellezza”. Bocelli fa benissimo a fare quel che fa, anche se lo fa male.
Al netto di ogni possibile snobismo, il problema è un altro: perché la qualità è incompatibile con i grandi numeri? Perché non si può dare della musica decentemente eseguita a tutti, o almeno a molti? Perché il prodotto deve sempre essere abbassato alla cosiddetta “gente” e non si prova mai ad alzare la gente a un prodotto presentabile? O a cercare almeno un accettabile compromesso? Bocelli non ha colpa: è un prodotto di marketing costruito per piacere, e infatti piace (anche a me, in effetti, quando fa quel che sa fare, cantare canzoni).
Il problema sta altrove. Il problema è di chi il gusto collettivo dovrebbe indirizzarlo, plasmarlo, cercare di alzarlo. In questo campo come altrove, la vera colpa delle élite è di non esserlo abbastanza. Il problema è la trahison des clercs. Il problema è sindaco Sala che annuncia tutto fiero l’epifania di Bocelli come chissà quale conquista, in una città che di musica “colta” rigurgita, che dispone del teatro d’opera più famoso del mondo, diverse orchestre sinfoniche, infinite associazioni musicali e Quartetti e rassegne. Il problema è il ministro Franceschini, che nella bella intervista di ieri alla “Stampa” parla di tutto, librerie, musei, cinema, ristoranti, alberghi, spiagge e non spende una parola che sia una per i teatri d’opera. Il problema è il Tg1 che, magnificando la festa d’arte in Duomo, citando il belga francofono César Franck lo chiama “Cìsar Frenck”, all’americana. E allora tout se tient, per restare al francese.
Alberto Mattioli per www.lastampa.it