“Cantai travestito da barbone, però nessuno si fermò” Claudio Baglioni Il cantautore ha pubblicato un nuovo album: “In questa storia… che è la mia”
“Sono Claudio, ho appena scritto un album e ho smesso di fumare. Da 27 anni ”. Da seduto offre un certo richiamo. “( Ride) Sì, sembra una riunione dei cantantisti anonimi”. E come nei cerchi della fiducia dove ognuno derubrica a se stesso per cercare una storia collettiva, così Baglioni ha un piglio di chi ha “sparato all’alba degli inganni” (parole sue), e a 69 anni, forte di In questa storia… che è la mia, un nuovo album intenso, cesellato, suonato come ai tempi in cui la musica non si improvvisava, può permettersi di scherzare, prendersi in giro, ammettere che è stato faticoso completare il lavoro (“con il lockdown mi sono impallato”). E magari ricordare un karaoke.
Chi scrive l’ha vista assistere mentre altri intonavano “Strada facendo”…
( Ride) Sono sempre molto perplesso nei confronti del karaoke: da un lato mi entusiasma, dall’altro ho il ricordo di due disavventure.
La prima.
Mentre stavo finendo, con Duccio Forzano, la post produzione di un dvd, finimmo in una specie di bar con musica e microfoni a disposizione. Dopo un paio di bicchieri di vino, ho cantato un mio pezzo: non si è girato nessuno. ( ci pensa) È stato un atto temerario.
La seconda.
Vivevo all’argentario, passano Elio e le Storie Tese: avevano un concerto in un teatro di Grosseto. Elio durante lo spettacolo si travestiva da Fiorello e organizzava il karaoke. Mi chiede di salire sul palco, accetto, coperto da cappotto e occhiali e intono proprio Strada facendo. ( Silenzio) Ho perso all’applausometro contro due ragazzette che hanno cantato i Pooh… Anche a Napoli si travestì da hippy-barbone e nessuno la riconobbe… Guadagnai 12.500 lire; ero nel giro dei concerti del ’98 e, prima di arrivare agli stadi, pensammo di creare l’effetto sorpresa. Uscii dall’albergo, e a quel tempo era normale trovare i fan ad aspettarti, ma ero truccato, con i capelli biondi, le lenti a contatto blu, una camicia militare, un andamento Claudi-cante . Mi incamminai nella galleria, presi la chitarra e cominciai a cantare in un canadese maccheronico. Non mi riconobbe nessuno. Giusto una foto con una coppia di sposi e un’altra con gruppo di signore americane dai capelli turchini. Sarò appeso in qualche salotto dell’America centrale…
Nella prefazione al libro su Endrigo, scrive: ‘ Oggi la musica non è più centrale. Ci sono i social’.
Il primo social è stato parlare e trovarsi insieme per l’ascolto di un disco. Con la mia compagnia aspettavamo i nuovi album, spesso li acquistavamo ai mezzi e c’era il rito della scoperta collettiva, una cerimonia solenne, celebrata a occhi chiusi, con uno addetto ad adagiare il disco sul piatto, l’altro, con la mano più ferma, piazzava la puntina sul primo solco. Era un modo per socializzare molto differente. Quelli di oggi hanno creato una cultura diversa in termini di ascolto.
Nel titolo di quest’ultimo lavoro, come nei sottotitoli di molti precedenti, cita ‘storia’.
Non è una mania, ma una naturale confluenza. Il mio secondo album, dopo il primo che con molta fantasia venne titolato Claudio Baglioni, si chiamava Un cantastorie dei giorni nostri. Sono le storie quelle che interpretiamo. Il mio mestiere non è molto diverso rispetto a chi, nelle piazze, cantava le gesta o le piccole vicende quotidiane.
Prima ha accennato a una crisi nella scrittura.
Anche oggi che il disco è uscito mi sembra strano: l’ho pensato talmente tante volte da temere di non terminarlo; il Covid, invece di darmi la voglia di riuscire e andare avanti, mi ha fermato.
Soluzione?
Un po’ é l’amor proprio, un po’ il rispetto per le persone con cui si è stipulato un patto. ( Ci pensa) Ho una lunga carriera e una certa età, quindi non c’è tutto questo tempo per aspettare. ( Cambia tono) Mi ha aiutato l’idea che sono le ultime cose che possono capitare in questo straordinario viaggio personale e artistico.
Sta pensando al pensionamento?
No, sarebbe un controsenso. Quest’anno un po’ di paralisi è arrivata per non aver potuto fare niente dal vivo. È linfa vitale. Sul palco s’impara tantissimo: durante le tournée si recupera il repertorio e si provano nuovi musicisti. Molti arrangiamenti successivi sono influenzati dai concerti precedenti.
Sostiene Finardi: ‘Baglioni è fondamentale quando finisce un rapporto’.
Fondamentale come notaio? ( ride). È una frase che mi sorprende e che si deve al genio di Eugenio , però altri sostengono che sono stato fondamentale alle unioni e non solo nel momento dell ’addio; ( ci pensa) qualche volta, incontro persone che mi indicano i figli con la frase ‘questa è nata quando tu hai fatto…’, oppure ‘ lui me lo sono sposato mentre…’. In quei casi, a volte mi giro dall’altra parte per la timidezza.
Secondo Guccini lei si imbarazza anche nell’ammettere che sa raccontare barzellette.
Francesco l’ho incontrato tre volte in tutta la mia vita: lui si riferisce a un episodio del 1971: partecipavamo alla trasmissione tv Speciale tre milioni. A Sant’agata di Puglia dormivamo in una specie di edificio in costruzione, e la notte venne impiegata nel recitare barzellette. Il problema è che lui la mia se la ricorda, io no.
Anna Tatangelo: ‘Baglioni mi ha insegnato che i viaggi più belli si fanno con le canzoni’.
Hanno un potere micidiale, evocativo, e toccano tutti gli essere umani, anche i più distaccati; sono come le pietre dure, non le puoi spaccare, rompere. E come i profumi ti trasportano in un altro momento della tua vita, persino in avanti; non hanno fisicità, sono metafisiche.
Negli anni 70 c’era una netta distinzione tra musica pop e quella impegnata. Oggi la seconda è quasi morta: ha vinto lei?
Non ho mai dichiarato guerra alla canzone impegnata. Il problema degli anni 70, che rimpiango perché erano i miei 20 anni, era che bisognava dare per forza un’etichetta o dichiarare un’appartenza, una militanza. Ma la musica è sempre composta da 12 note, lo era ai tempi degli aedi greci, lo è oggi. Ho sofferto per essere stato considerato, insieme a Battisti, quello disimpegnato.
Quell ’ostracismo non lo manda giù.
Se c’è stato un atto di onestà, è stato quando mi sono trovato a incidere Questo piccolo grande amore e ho scelto, rispetto alla mia produzione precedente, più cupa, che le canzoni parlassero con il linguaggio corrente della vita. Non me la perdonarono. Per molti anni sono stato messo ai margini.
Però?
Non mi lamento perché mi è andata bene…
Secondo Pappalardo i rapporti con Battisti non erano idilliaci.
Forse lui non sopportava me, io l’ho amato alla follia. Mi ha ispirato tantissimo, a partire dalla sua tecnica di composizione: la suddivisione delle parole. È stato uno dei primi esempi di come la parola cantata suona, rimbalza, il significante oltre al significato.
Vi frequentavate?
L’ho incontrato solo due volte; ( ci pensa) a Los Angeles avevo appena finito un giro di concerti negli Usa, e lui stava registrando alcune versioni in inglese. Davanti a lui balbettavo, pur avendo già tre dischi di successo alle spalle.
E Battisti?
Si mise in discussione. Ce l’aveva con il mondo del cantautorato e con la cultura imperante che lo osteggiava, e un po’ mi trattava come se fossi anche io della parrocchia avversaria. Ho molta nostalgia di quello che Lucio avrebbe potuto ancora realizzare.
Altro Lucio. Dalla.
( Sospira ) Nel 1970 asciugò le mie lacrime e quelle di Ron.
Addirittura.
Eravamo agli inizi, e partecipavamo alla Gondola d’argento a Venezia, una sorta di contest dove noi eravamo gli esordienti. Durante le prove, con Notte di Natale riscossi un grande successo, con gli occhialoni e un’immagine da esistenzialista. Il destino volle che la giuria fosse composta da un equipaggio di marinai: arrivai ultimo di sedici. Quando mi comunicarono il risultato, non ebbi il coraggio di chiamare mia madre e mi incamminai per le strade del lido.
Dolore.
All’umiliazione del risultato si associò un acquazzone micidiale, e per un attimo pensai di buttarmi in acqua. Una volta in albergo ci pensò Lucio a risollevare la serata. Dopo due mesi a Bari partecipai a La caravella dei successi, eseguii lo stesso pezzo e arrivai ancora ultimo.
Quale soprannome le aveva assegnato Dalla?
Per lui ero ‘ la suora’, per i modi molto gentili di pormi. Ma Lucio era capace di qualsiasi cosa: un artista grandissimo, quanto bugiardo. Era il suo modo di raccontare la vita. Era capace di inventarsi aneddoti, soprannomi, storie. Si divertiva anche a narrare i suoi disastri.
Esempio.
Ci fu un periodo in cui era in crisi di scrittura, allora prendeva il sax e andava a suonare nei dischi degli altri, da special guest. In questa fase si presentò da Pino Daniele, ma Pino lo cacciò e in malo modo, al grido ‘sei un cane, non hai capito niente del pezzo’. Lucio, da paraculo, spiattellò per primo questa storia
E Pino Daniele?
Ricordo la sua telefonata: ‘Ma questo Dalla, perché non incide un bel disco invece di suonare così?’. Ci vogliamo tutti bene ma ci controlliamo sempre da vicino.
Cosa dicono di lei?
Vengo rappresentato come un perfezionista, un pignolo, ma è vero: non sono mai stato d’accordo con il detto che l’ottimo è il nemico del bene; ( ci pensa) non vedo l’ora di tornare a suonare dal vivo.
A giugno sono in programma dodici suoi concerti alle Terme di Caracalla...
Un artista è nato per avere il privilegio di orecchie e occhi degli altri addosso; ( sorride ) ancora oggi faccio fatica a pensare di essere un personaggio pubblico.
Qual è la sua ossessione?
Ho un timore: riuscire a individuare il momento in cui bisogna chiudere il sipario. Da un certo punto in poi cominciano le prove generali del finale carriera, il botto, quello che rimarrà indelebile. Il timore è di non avere la lucidità per capire quando appendere i guantoni al muro, come un pugile che rischia la figura dell’atleta suonato. Non vorrei finire così.
In quest’album i testi sono complessi, le parole molto musicali.
La ricerca è stata anche sulla forma fisica dei termini. E scrivere canzoni non è semplice, ho visto molti poeti cimentarsi con i brani e non essere così bravi.
Qui c’è un però…
Ho una forma di soggezione nei confronti di lavora con la parola, una scienza esatta difficile da gestire; le parole sono dei giganti, arrivate a noi dopo secoli, hanno combattuto, si sono modificate, traducono la storia più della storia stessa. Quando il paroliere si avvicina a questo ha davanti un moloch.
Gigi Proietti viveva di parole…
( Abbassa la voce) L’ultima volta che l’ho incontrato è stato in tv per Cavalli di battaglia: prima della diretta era emozionato come fosse la prima volta. Gli venne la febbre a 38 e saltarono le prove. Io pensavo: ma uno così immenso, in grado di suonare tutti gli strumenti dell’arte, così dotato, con una curiosità continua, come poteva stare male? Poi ho capito. È quello che ho vissuto in questi giorni: ho sentito la tensione come se fossi al primo disco. L’ultimo tempo che mi riporta al primo e, siccome non puoi cambiare l’anagrafe, è bello poter piegare la sensazione del tempo.
Chi è lei?
Sono Claudio Baglioni, ho scritto 410 canzoni, altrettante ne ho buttate via o giacciono in cassetti che non aprirò mai. Spero di meritarmi questo successo che non so ancora com’è arrivato, e spero che questo album sia una locomotiva in grado di trascinare altri progetti.
Silvia D’onghia e Alessandro Ferrucci per il Fatto Quotidiano