Ad un mese dalla morte, a 78 anni, di Raffaella Carrà, passata l’onda emotiva, eccovi il suo ricordo nella bella intervista fatta da Malcom Pagani nel febbraio 2019
Caratteri: «Avrò avuto vent’anni, non ero nessuno e non avevo fatto ancora niente. Mi trovai in uno studio televisivo davanti a un dirigente loquace ed entusiasta: “Lei è fortunata. La vede quella scalinata? La scenderà ogni settimana con un abito meraviglioso e una benda sugli occhi.
«Da ragazza ero tremenda, mi sono calmata» e il suo lusso resti la libertà di dire no: «Dei soldi e dell’ambizione non mi è mai importato niente, ma senza coraggio la mia vita sarebbe stata triste. Se a volte ho fatto delle cazzate, le ho fatte perché le avevo scelte io. Ho cercato di farle bene comunque e mi sono impegnata perché come diceva mia madre: “Se le cose non le fai bene, poi devi rifarle due e tre volte”. Non mi piace perdere tempo. I don’t want to loose time. Se però una cosa non la sento, la rifiuto. Perché non ho mai creduto nel rimmel o nel mio personaggio, ma nell’idea, nella creatività e nel destino.
Sono rimasta sempre me stessa e o ho provato a non cambiare pelle. Timida, che quando ricevo un premio o un riconoscimento smetto quasi di parlare e a disagio, un disagio profondo, quando intorno a me c’è troppa gente. Divento un’altra e alle grandi feste non vado mai. Non saprei cosa dire e cosa fare e cercherei subito un modo per fuggire. Se mi fossi specchiata nel successo sarei stata insopportabile.
Ho cercato di evitarlo, per me e per le persone che avevo intorno, ma non ho faticato perché è la mia natura. Oltre il balletto, le prove, le canzoni e tutto il resto, c’ero sempre io. Quella che dimessa e struccata va in vacanza a un’ora da Roma e d’inverno indossa il golf e la calzamaglia perché sente freddo. Amo il mio nido e le mie piccole certezze. Sono semplicissima da leggere. La Carrà mi è simpatica, ma con Raffaella Pelloni ci vivo tutti i giorni». Febbraio. Moka, sigarette e consapevolezze: «La vita è una partita a carte e a me piace avere il mazzo in mano».
Ha vinto?
«Me la sono giocata. A volte ho pagato un prezzo e altre mi è andata bene, ma non posso dire di non essermi divertita».
Chi crede di essere stata?
«Più che un’artista, un’ottimizzatrice. Dovunque sia andata, ho imparato delle cose. Ma sono nata sotto il segno dei Gemelli e quando scendo dalla giostra, ho bisogno di volare, viaggiare e andare via. Se ho tempo per me, mi alzo dalla sedia e faccio finalmente quello che mi pare».
Lo chiamiamo sano egoismo?
«La chiamiamo libertà. Io non mi annoio mai. E se faccio televisione, provo a non annoiare gli altri. Se da spettatore vai oltre il piccolo schermo, le luci e le paillettes, capisci una cosa. La stessa che intuisci se mi guardi negli occhi».
Che cosa?
«Che io ti coinvolgo e ti porto con me sulle nuvole: fuori dalle rogne quotidiane, dai problemi, dai conti che non tornano mai».
Natalia Aspesi diceva che lei era un po’ Ginger Rogers e un po’ Jessica Rabbit.
«Ma quando mai? Lei è gentile, ma non è vero. Non ho mai avuto quel seno né quel culetto. Ma, dia retta, negli occhi ho avuto sempre un’intenzione. Una passione. È quella che disegna la vita, non il contrario».
Da bambina sognava di fare la coreografa.
«A un certo punto mi sono dimenticata dei miei desideri e mi son detta: “Sai che anche questo non è male?”.
“Questo” è la storia della tv italiana.
«Guardi che se mi vuole fare il monumento mi alzo subito e me ne vado».
Non dobbiamo?
«E non dovete no. Sono semplicissima da leggere. Lei scrive per Vanity Fair, ma deve sapere che io somiglio a tutto tranne che alla fiera della vanità. Mi sono divertita a indossare gli abiti più pazzi del mondo, ma quel tempo non esiste più. Milleluci, Fantastico, Canzonissima. Sa perché piacciono tanti a chi li recupera in rete o guarda Techetecheté? Perché è la fotografia di un mondo che non c’è».
Qual era il segreto di quella tv?
«I dirigenti di allora avevano il prodotto in testa, nel senso più ampio della parola. Volevano fare bellissima figura anche quando Rai Uno era l’unico canale d’Italia o quasi. Ne andava della loro poltrona o della loro reputazione. Poi c’erano gli autori».
Oggi non ci sono più?
«Oggi, quando va bene, trovi persone che fanno tre o quattro programmi contemporaneamente. I denari non sono più abbastanza. E se hai qualche fardello, oltre ad amare la tv devi amare anche la famiglia e portare lo stipendio a casa. Altrimenti poi tua moglie ti dice: “Antò, come pensi di pagarlo questo mese il mutuo?”».
Pippo Baudo teorizzava che la tv non andasse mai abbandonata e che un presentatore la dovesse occupare militarmente.
«Non ci ho mai creduto e con Pippo ne ho discusso tante volte. La mia teoria è opposta: ogni tanto, soprattutto se sei una donna, ti devi togliere dai piedi. Se sei sempre lì non ti rinnovi mai. Sempre la stessa faccia, la stessa espressione, lo stesso birignao. La tv, per farla bene, devi vederla anche da fuori. Devi capire dove vivi, chi c’è per strada, chi ha le mani sul telecomando e la sera sceglie proprio te. Se vai via per uno o due anni non succede niente».
E il rischio di essere dimenticati?
«Se si scordano di te significa che non sei stato poi così incisivo e che forse della tua presenza si poteva fare a meno».
Di lei, classe 1943, la Rai non ha intenzione di fare a meno.
«Non ho mai voluto fare a ogni costo la tv perché non ne ho mai sentito l’esigenza. Per convincermi mi devi incuriosire e poi forse, avendo affrontato molte sfide e molte curve ad alta velocità, col tempo, è cresciuta anche la paura di andare a sbattere contro un muro».
Prima di fare un programma lei ha paura?
«Una paura fottuta. Non ci dormo la notte. Ci devo fare i conti, la devo domare, devo farla passare. Prima di iniziare è sempre dura».
Tra poco, il 28 marzo, darà vita a un nuovo programma di interviste su Rai Tre ai grandi personaggi del nostro tempo.
«Stefano Coletta, il direttore, è venuto a propormi tre programmi. Mi ha telefonato: “Sono un tuo grande ammiratore” e bibum e bibam. Mi viene a trovare. Leggo quello che mi ha lasciato, aspetto poche ore e poi lo chiamo: “Non lo faccio, non lo sento, mi dispiace. Poi gli chiedo: “ma che ti frega di darmi un programma ad ogni costo? Sto bene senza fare niente in tv”. Insiste. Mi porta un secondo programma. Con le parole più gentili che riesco a pescare, rifiuto anche quello. Passa qualche mese e mi ricontatta: “Stefano” gli dico: “Guarda che passerai dall’amore all’odio perché se non mi piace, non faccio neanche questo».
La chiamano la signora del “no”.
«Ma guardi, mi ha sempre guidato l’intuito. E mi sono sbagliata di poco. Infatti dico no anche al terzo tentativo di Coletta. Quando me lo ritrovo davanti mi scappa quasi da ridere: “Siamo rovinati, Stefano”. Gli faccio la parte della fidanzata che sta per lasciare il compagno:
“Rimaniamo amici, lasciamoci così senza rancor”. Tra le dita stringe una cartellina. È il quarto programma. Me lo allunga sul tavolo senza quasi guardarmi negli occhi. Lo leggo e come dicono in Spagna, all’orecchio sento un gusanillo. Mi sento pizzicare dalla curiosità. Mi viene voglia saperne di più, di inventarmi qualcosa. Mi dico: “Stavolta pensaci bene”.
Ci ha pensato e il programma si farà. Di cosa ha paura? Del ritorno?
«La parola ritorno mi ripugna, mi fa pensare alle melanzane che ritornano su dopo una cena. Se proprio devo tornare, visto che il mio è un eterno ritorno, mi piacerebbe farlo in punta di piedi».
Cosa teme allora?
«Che il pubblico dopo un’ora e mezza in cui non mi vede cantare, ballare e cazzeggiare dica “che palle”. Un’ora e mezza è lunga. Io e l’intervistato possiamo anche divertirci, ma mi chiedo: “Cosa arriverà a casa? Quali sensazioni?”». Coletta Mi ha rassicurato: “Dello share non mi importa nulla, voglio soltanto che sia bello”. Io, Sergio japino e Giovannino Benincasa, gli autori, ci proveremo.
Ci pare di aver trovato la chiave per creare un rapporto magico e fiduciario con l’intervistato. Trovare la chiave è il momento più bello e anche la cosa più importante. Più importante della messa in scena e dei mezzi che hai a disposizione. Carramba lo facevamo in un ufficetto di due metri per due. Ognuno dava un contributo, perché la tv è un gioco di squadra. Da solo non fai un passo».
Carramba che sorpresa, 1995 e il suo spin off, Carramba che fortuna del 2008, fecero epoca e grandi ascolti.
«Pensi che Sergio Japino me lo propose almeno due anni prima. Mi fece vedere la puntata di un format sui ricongiungimenti e rimasi fredda: “Ma stanno sempre a frignà, ma che me frega?” Non lo feci. Allora vivevo in Spagna, dove pensavo sarei rimasta almeno altri quattro anni. Da Roma, Brando Giordani, direttore di Rai Uno, mi telefonava a intervalli regolari: “Dai Raffaella, facciamo una prima serata”. “Eventualmente, Brando, dammi un programma piccolo, non di prima serata”. Non se ne faceva mai niente».
Poi cosa accadde?
«Ero in albergo a Madrid e dalla reception mi avvertono che c’è un pacco per me. Dentro la busta, un plico e una videocassetta. Accendo il Vhs, la inserisco e comincio a piangere come un agnello. Chiamo Sergio: “Ho trovato il mio programma”.
Come la prese?
«Si incazzò come una iena. “Non mi ascolti mai” diceva. Lo calmai con la dialettica: “Dai, mi avevi mostrato una sorpresa loffia”. Lavorare a Carramba fu emozionante, perché era tutto vero e le emozioni, quelle che non ho mai inseguito in nome della finzione, erano oneste».
Si potrebbe replicare?
«Oggi uno show così, uno show puro, non lo farei più, neanche per tre milioni di euro».
Come mai?
«Perché- anche se non me li porto poi tanto male- ho i miei anni e perché non mi va più di allenarmi, cantare o ballare. Lo posso fare per un progetto speciale, come il disco che ho fatto a Natale, ma non può diventare la mia condanna. C’è un tempo per ogni cosa».
Oggi che tempo è?
«Il tempo in cui spero che chi guarderà il mio nuovo programma non si chieda ogni trenta secondi “Ma quando canta? Quando balla? Quando parte lo spettacolo?”. Potrei mettere su 3 pezzi musicali da quattro minuti? Certo che potrei. Ma mi rendo conto che non ne ho più voglia.
Lo spettacolo saranno le parole e in questo momento di omologazione anche televisiva, di show tutti uguali, di programmi fatti di nulla che portano in primo piano il niente e la superficialità, una trasmissione di parola, di scambio e di confessioni mi sembra una rivoluzione».
Sostengono spesso che lei, la rivoluzione del costume, l’abbia fatta.
«Lo dicono adesso, ma per decenni sono stata considerata quella dell’ombelico, del tuca tuca o dei fagioli. Adesso che ho 75 anni dicono che ho fatto la rivoluzione».
Troppo tardi?
«Le posso dire la verità? Non sempre sono stata raccontata bene e nello specifico ,quella storia dei fagioli mi ha fatto due palle così».
Anche l’ombelico?
«Allora, l’ombelico. 1970. Mi portano un disegno. Ho i pantaloni bianchi, un toppino e l’ombelico scoperto. Al mare, in vacanza, con un paio di short, io mi vestivo più o meno così. Dov’era lo scandalo? Dove la provocazione? Era tutto pulito, senza secondi fini e non ho mai pensato alla censura né nessuno mi ha detto”Non si può”. Come sia nata ‘sta leggenda non lo so».
Dipendeva da lei? Dal suo aspetto?
«Non credo proprio. Sono sempre andata dritta nella vita e se c’è una cosa che ho sempre detestato fare è proprio ammiccare. Le ragazze che mi guardavano in tv lo capivano perché si vestivano esattamente come me. Mia madre, che non aveva malizia, diceva che avevo l’ombelico come quello di un tortellino. E di sicuro non pensava ai doppi sensi. Oggi in tv vedo naufraghi con un filo nel sedere o con i seni rifatti da cui spunta un capezzolo. Non giudico perché non sono mai stata moralista, però che vogliano mostrare filo e capezzolo è evidente».
Lei non avrebbe potuto.
«E chi lo dice? Ne è sicuro? Forse me l’avrebbero fatto persino passare, ma il punto è che non piaceva a me. Oggi in tv c’è più libertà, ma è una libertà soprattutto di parola. Noi parolacce non le dicevamo, oggi basta mettere una qualunque trasmissione e se non dici vaffanculo ti guardano anche male».
Una sua dote?
«Ironia e autoironia. Guardi come mi avete vestito per questo servizio. Non sono alta due metri e non sono una modella. Ma mi sono divertita e presa in giro. Non sempre gli altri l’hanno capito. Nell’ambiente non dico mi considerino una zarina, ma sicuramente una donna a suo modo potente».
E non è vero?
«Ma non è vero no. E neanche che sia stata ambiziosa. Se ho avuto il passo da carabiniere e a qualcuno sono parsa aggressiva è perché in un mondo fondamentalmente maschile, ho dovuto difendermi e farmi valere. Ma poi, quando sei dentro il progetto, il talento è ammorbidirsi e diventare un’altra. Io ho saputo farlo, ma non sempre me l’hanno riconosciuto. È il mio destino e forse, è colpa mia che non ho saputo raccontarmi o spiegarmi bene. In Spagna sono Raffaella, qui sono la Carrà».
Cosa se ne deduce?
«Che io non sono né Raffaella né la Carrà. Sono Raffaella Carrà. Questa sono. E allora, che cazzo vuoi da me?. (Ride)».
Si è sentita invidiata a volte?
Come Gino Landi ha fatto incidere su una targa che mi ha regalato: “In Italia ti perdonano tutto meno il successo”. Vorrei un successino, così vivo tranquilla. L’invidia degli altri è dura da sopportare. C’è chi mi ama e chi devi criticarmi per farmi soffrire. Pazienza».
Cos’altro è duro?
«Una critica gratuita e cattiva. Un complimento lo dimentica, una critica feroce te la porti dietro per tutta la vita».
Ai tempi in cui si mise con Sergio Japino scrissero cose tremende, la più gentile della quali era “La bella incontra la bestia”.
«Furono cattivi, anzi mostruosi ed è inutile dire una balla: Sergio ne soffrì. Che poi posso dirle? E Con lui ho tantissime cose in comune e Sergio, tra l’altro, non è mai stato brutto. E ho con lui tantissime cose in comune, anche impensabile. Qualcuno ha mai fatto un appunto del genere su Costanzo a Maria De Filippi? Non credo».
Quante volte si è innamorata davvero?
«Lei mi è anche simpatico, ma questi sono cavolacci miei».
Cosa è importante nell’amore?
«Ridere e non farsi troppe domande. Può essere una storia di tre giorni o lunga tutta la vita, ma se inizi a chiederti quando durerà è gia finita».
Con Frank Sinatra non iniziò neanche.
«Ma senza attrazione fisica, cosa vuole che inizi? Lui era molto simpatico, ma non mi piaceva. Non volevo essere la pupa del gangster. Mi aveva fatto arrivare una collana. “Devi prenderla” mi dissero perentori. La misi dentro un portacenere».
Mi dica almeno se ai maschi si è approcciata con slancio o con diffidenza.
«Con enorme diffidenza. Mio padre aveva lasciato mia madre e non lo vedevo mai. Non mi fidavo di nessuno, soprattutto dei ragazzi giovani, di quelli della mia età. Infatti, il mio primo grande amore, Gianni Boncompagni, aveva 11 anni in più di me».
Le manca?
«Molto. Avrei voglia di parlargli, di andare da lui. Non si può più e allora, anche se non vado in chiesa, ci parlo lo stesso pregando. Prego tutti i giorni, non solo per lui.
Che rapporto ha con la malinconia?
«È un sentimento dolce, bello e rilassante. Per indole, indietro guardo poco. Cerco di stare nel mio tempo. Non sono mai state triste o depressa per il mio lavoro, ma per i dolori familiari o per i fatti dell avita. Saper che 40 migranti stanno male o che nessuno si mobilità per l’Africa, mi fa stare male».
Nel 2013 aveva detto di credere nella rivoluzione di Beppe Grillo. Oggi?
«Si sono resi conto anche loro che criticare è più facile che fare le cose. Ora abbiamo questa cosa gialloverde e io credo che tutti dovremmo augurarci che funzioni al meglio. Spero che abbattano la burocrazia e che si facciano sentire duramente in Europa. Non devono salire Di Maio e Salvini con i panini, ma tutto il Parlamento. E non per dire a Juncker che beve troppo, ma per far capire che di questa storia dei migranti devono occuparsene tutti».
Se ripensa agli inizi cosa le viene in mente?
«Una telefonata a mia madre. “Mi hanno invitato al Festival di Venezia per La lunga del notte del ‘43 di Florestano Vancini”. “Ti servirà un vestito”. Andammo a Rimini, in una casa di moda. Mi comprò un abito bianco e dei sandaletti sottili. Avevo i capelli ondulati e mi presentai in Laguna con un toupè altro otto metri. All’inizio della scalinata, rovino a terra e faccio un ruzzolone incredibile. Mi rialzò Gabriele Ferzetti. Iniziò tutto così».
Ha rimpianti?
«Smisi di danzare troppo presto. Quest’estate ho visto su Rai 5 la bayadère con Roberto Bolle e Zlatana Zhkharova. Mi sono commossa. Ho chiamato Sergio e gli ho detto: “Come ho potuto? Guarda questi che hanno fatto. E io?».
Lei ha cantato uno dei pezzi più venduti del mondo.
«Pensi che A far l’amore comincia tu non l’avevo neanche capita. A Bracardi dissi: “Ancora un’altra sambina?”».
A Roma c’è stata una mostra con alcuni suoi vestiti di Luca Sabatelli francamente incredibili.
«Non mi hanno avvertita, non ne sapevo niente. Un giorno ricevo una telefonata dalla curatrice che mi chiede se posso prestare un mantello pazzesco per l’allestimento».
Risposta?
«Trasecolo: “Non crede che avrebbe dovuto farmi una telefonata, almeno?”. “Ma siamo ancora in tempo, ci sono tutti i suoi vestiti dice lei”. E io: “Lei ha i miei vestiti, ma si è dimenticata la persona che era dentro a quei vestiti. Per questo non le do il mantello né voglio sapere niente della mostra”. Quella frasettina mi è venuta proprio bene. Mi è uscita bene. Mi è venuta dal cuore. (Qui Raffaella arrota l’accento emiliano nda)
Chi sente di poter diventare ancora?
«Una vecchiettina simpatica».
Cosa direbbe oggi Raffaella a Raffaella Carrà?
«Hai ballato, hai cantato e hai danzato. Adesso resta lì che io mi riposo».
Intervista di Malcom Pagani a Raffaella Carrà per Vanity Fair